Ogni grande idea politica attinge alle sorgenti di fede e si fonda su una intuizione del mondo che precede ed eccede ogni fondazione razionale. La qualità del ceto politico si misura nella dedizione con cui serve una causa, dalla lungimiranza e da una visione politica in grado di misurarsi con l’orizzonte del possibile. L’Europa può diventare un grande polo di un ordine mondiale basato su nuovi equilibri, lo è in potenza, purtroppo non lo è ancora nella sostanza. Qualcosa si intravede ma non basta, quell’aggregato chiamato Unione Europea non sta mostrando il meglio di sé. Sicuramente manca la grande politica e una mentalità ambiziosa capace di ragionare in termini di potenza. Il difetto sta nella narrazione offerta dalle élite europee poco abituate a un pensiero strategico completo, allucinate dall’idea di diluire ogni conflitto nella soluzione fisiologica del calcolo economico e convinte di riuscire prima o poi a raggiungere un equilibrio armonico. I più devastanti conflitti europei sono scoppiati come conseguenze dei tentativi di superare il pluralismo politico del continente. L’Unione Europea è ancora un territorio di scontro, attraversato da una cacofonia di interessi nazionali che a volte convergono e altre si contrappongono in un equilibrio sempre precario.

Necessità logica e attuabilità storica sono due cose diverse e l’arte di governare consiste nella capacità di conciliare l’ideale e il possibile, sogno e realtà. Ogni blocco continentale esteso si forma intorno a una nazione egemone, lo erano per definizione gli imperi e, seppure in forma grezza, lo è l’Europa con la Germania in posizione predominante. La storia politica da sempre è contrassegnata dall’acquisizione e dalla sottrazione della sovranità: “Tutte le appropriazioni di terra più note e famose della storia, tutte le grandi conquiste che si sono compiute con le guerre e le occupazioni, con le colonizzazioni, le migrazioni di popoli e le scoperte geografiche, confermano la precedenza fondamentale dell’appropriazione nei confronti della divisione e della produzione”, scrisse molto tempo fa Carl Schmitt. Lo stesso accade nello spazio europeo, nei luoghi della decisione politica, nel dominio economico dei trattati. C’è chi vince e chi perde, chi avanza e chi arretra, l’idea che si possa camminare tutti uniti mano nella mano, è gradevole ma ricorda i tempi dell’asilo non la ruvidità dell’arena politica. Lo scenario è postdemocratico. Il discorso si può occultare dietro qualche frase di circostanza dal tono rassicurante ma l’egemonia esiste. Piaccia o no, prendere atto di questa realtà significa per l’Italia di smetterla di frignare e attrezzarsi per recuperare lo svantaggio, definire un interesse nazionale e una traiettoria geopolitica.

L’Europa è un pluriverso. In origine l’Impero Romano fu capace di assimilare e coagulare popoli diversi intorno a un’idea guida e molto più tardi, negli ultimi cinque secoli, la competizione tra città, stati e principati, ha contraddistinto il successo culturale e scientifico dell’Europa. Ciò non deve indurre ad abbandonarsi all’ottimismo fuori controllo, oggi cogliamo segnali di emancipazione ma anche di forte decadimento. Le nazioni europee invecchiano, perdono energie vitali. Altrove Stati Uniti, Cina e Russia e altri attori minori, seppur con livelli di forza differenti, assumono una postura politica orientata verso la potenza e la definizione delle aree di influenza e non tutto quel che fanno è determinato dal calcolo economico come si è indotti pensare.

Nei paesi europei – Italia in testa – l’economicismo è un approccio culturale diffuso in ogni strato della società, diventa preminente su quello strategico e l’utile mercantile è più rilevante delle questioni identitarie e della pratica bellica, ultimo argomento questo tra i più controversi. L’intera collettività insegue traguardi commerciali, il vivere comune si compie nella compravendita, nella necessità di mantenersi in buoni rapporti con gli altri paesi in nome del profitto. In uno spazio continentale dove alcuni poteri sono centralizzati, chi detiene l’egemonia come la Germania, cerca di imporsi sopra gli altri. Lo ripetiamo, anziché lamentarsi della forza altrui, bisogna riconoscere le cause strutturali della propria condizione, cosa è mancato e come riscattarsi.

L’Unione Europea non è un mito capace di mobilitare. I miti spiegano qualcosa di arcano. I motivi dei legami ancestrali oltre ogni vincolo materiale e della presenza di una collettività su un territorio. Il mito separa e distingue dagli altri, da chi è diverso.

Chi ha una prospettiva nazionale e identitaria, crede ancora nelle possibilità di riscossa dell’Italia e nel sogno dell’Europa Nazione. Tener fede a un principio ideale è difficile, aggiornare le idee ai tempi e alle circostanze è il lavoro più duro e non da soddisfazioni immediate. Siamo rimasti in pochi, ultimi ribelli contro un’epoca. La storia è il “regno delle possibilità”, nulla è prefissato, ma il pensiero critico non può essere offuscato dall’amore verso l’Europa, non siamo così ingenui da aspettarci una trasformazione politica nella direzione da noi auspicata in un breve lasso di tempo. Il balzo della tigre non ci sarà adesso, mancano le condizioni oggettive e un ceto politico all’altezza. L’Italia decida una volta per tutte da che parte stare e come posizionarsi. Ogni scelta non sarà una passeggiata di salute, ci sarà da soffrire. Nelle epoche di transizione la decisione è un obbligo, non c’è spazio per l’arte di arrangiarsi.