Il petrolio non è finito e nemmeno il gas. Nei sottosuoli ci sono ancora abbondanti riserve di energia fossile. Malgrado ciò, esse non sono infinite e presto si dovrà affrontare il problema di come uscire definitivamente dall’epoca del petrolio e produrre tutta l’energia in modo alternativo. Chi spera in un abbandono nel breve periodo degli idrocarburi (30-40 anni), dovrà ricredersi perché stiamo varcando una nuova frontiera con ripercussioni positive e negative ancora tutte da scoprire. Gli Stati Uniti d’America hanno ripreso a macinare con il gas non convenzionale, volgarmente noto come “shale”, un gas estratto da rocce argillose in cui è trattenuto. La tecnica di estrazione, nota come “fracking”, fratturazione idraulica, è al centro di una controversia tra sostenitori e detrattori. La Cina affamata di energia, il Canada e il Messico si stanno attivando per aumentare questo tipo di estrazioni non convenzionali. Anche in Europa ci sono giacimenti, ma da noi l’atteggiamento resta più prudente e ogni paese ha deciso di regolarsi autonomamente. Gli interessi non sono soltanto di natura commerciale, nella partita energetica entra in campo la forza politica di una nazione. Gli idrocarburi derivati da argille possono mutare l’asse geostrategico oggi incentrato sui pozzi mediorientali e le condotte russe. Tutto è nato intorno al gas o meglio all’esigenza degli Stati Uniti di aumentare la produzione di fronte all’aumento dei consumi. Nel 2000 alcune piccole società (la prima è stata la Mitchell Energy), cominciarono a pensare di sfruttare una serie di giacimenti conosciuti ma fino allora mai sfruttati per ragioni economiche.




Conosciuti con i termini shale o tight, questi giacimenti sono costituiti da rocce calcaree, arenarie, quarzo e argilla: quando quest’ultima è predominante, si parla di shale, altrimenti le formazioni sono semplicemente tight. In molti casi, giacimenti tight sono confusi con gli shale, perché dall’analisi dei dati di giacimento risultano pressoché simili. A vederle ad occhio nudo, sembrano pietre di granito o cemento, non si pensa che contengano gas e petrolio. Per tutto il secolo è stato quasi impossibile, dato il basso livello di porosità e permeabilità, estrarre a costi contenuti. All’inizio le grandi multinazionali avevano sottovalutato la dimensione delle riserve di shale gas. La perforazione combina due tecniche: la trivellazione orizzontale e la fratturazione idraulica, o “fracking”. Nella perforazione orizzontale la trivella scava un pozzo in verticale nel sottosuolo, per poi deviare a 90 gradi ed entrare in lunghissimi ma poco spessi strati di rocce orizzontali che, come spugne solide, imprigionano idrocarburi. È a questo punto che interviene la fratturazione idraulica. Mentre la trivella procede, si “sparano” acqua, sabbia (o ceramica) e agenti chimici all’interno del pozzo a intervalli regolari. L’acqua rompe la roccia, sabbia e agenti chimici impediscono che le rotture create si richiudano o implodano e così favoriscono la “fuga” in superficie di gas e petrolio. Queste tecniche non sono una novità, le prime fratturazioni idrauliche conosciute risalgono al 1949. Il dilemma più delicato riguarda ovviamente l’impatto ambientale. Secondo critiche ben motivate, questo tipo di trivellazione impiegata per l’estrazione di petrolio e gas da formazioni shale e tight, provocherebbero piccoli terremoti e il rischio di inquinare le falde acquifere.

L’eco di queste preoccupazioni ha raggiunto l’Europa: la Francia ha vietato temporaneamente il fracking, in altri paesi come Svezia e Germania si sta manifestando una forte ostilità, così come in Italia dove molti territori saranno oggetto di esplorazioni. Le acque “sparate” e stoccate in enormi quantità sotto terra, in effetti, possono provocare un distacco delle faglie e il loro scivolamento, e quindi piccoli terremoti. Dal 2010 in tutto il Midwest americano sono aumentati gli sciami sismici, dopo l’intensificarsi dell’attività di trivellazione convenzionale e non convenzionale. È solo una coincidenza? In alcuni casi come in Ohio e in Inghilterra, le scosse hanno raggiunto i due gradi Richter. In Emilia, ammesso che il fracking non si pratichi, ci sono 514 pozzi perforati, di cui 69 non produttivi e destinati ad altro uso (fonte Ministero Ambiente). Molti sostengono che il terremoto verificatosi nel 2012, sia una conseguenza dell’attività dei pozzi di “reinezione” di rifiuti liquidi provenienti da estrazioni di gas e petrolio “convenzionali”.

Molti studi confermano la connessione tra sismicità e attività di trivellazione. A maggio 2012 l’International Energy Agency ha pubblicato un rapporto dove sono contenute le regole per minimizzare i rischi ambientali connessi alla produzione di gas da giacimenti “non convenzionali”. Come già accennato, tali rischi hanno spinto Francia, Bulgaria e alcuni stati americani (Vermont e altri) a proibire per ora questa pratica. Questo tipo di trivellazioni sono molto invasive (più di un pozzo a km quadrato, mentre per le tecniche convenzionali basta uno ogni 10 km). Occorre un gran movimento di camion: 100-200 per la costruzione di ogni pozzo, fino a 650 per portare l’acqua necessaria per il metodo della fratturazione idraulica, altre centinaia per rimuovere le decine di tonnellate di pietra prodotte da ogni torre di trivellazione. Traffico e inquinamento a cui si aggiunge quello dei motori diesel che forniscono energia al pozzo. Oltre a questo c’è il problema dello stoccaggio e dello smaltimento accurato del “mud” il fluido fanghiglioso con cui si lubrifica la trivellazione. Si aggiunga poi quella porzione di fluido usata per la fratturazione idraulica – composto di acqua, grani di sabbia o ceramica e additivi chimici – che ritorna in superficie portando con sé metalli e minerali talvolta leggermente radioattivi. Inoltre, il rivestimento interno in cemento del pozzo, deve essere impeccabile per evitare infiltrazioni di ogni tipo nel terreno e nelle falde acquifere. Insomma, ci sono buoni motivi per non stare troppo rilassati.