demagogia è il vocabolo usato dai democratici, quando la democrazia li spaventa (Nicolás Gómez Dávila)

REVOLVER

Mese: Luglio 2018

La crisi spiegata attraverso il Faust di Goethe

La crisi economica è oggetto di litigi infiniti e discussioni complicate dalla difficoltà di trovare un rimedio. Poi ci sono quelli convinti di avere la soluzione a portata di mano con qualche aggiustamento tecnico. Parole come moneta, debito pubblico, inflazione, deflazione, austerità scatenano una tempesta di opinioni, deduzioni e argomentazioni con il rischio di consumarsi nel linguaggio dell’ovvio. Su questo terreno si affollano accademici più o meno competenti, studiosi preparati e una folla di “dilettanti titolati” che non capiscono niente ma lo scrivono bene.

Nel salotto di Madame Pompadour la donna più potente a Parigi nel XVIII secolo, il medico del Re Luigi XV, discuteva della circolazione delle merci paragonandola a quella del sangue. Tra un pettegolezzo politico e le storie sui giganti della Patagonia, l’economia diventava una scienza raffinata ridotta a calcolo meccanico. Ed è proprio qui che sta l’inghippo, perché si continua a discettare sulla scienza economica dimenticandosi della mentalità dell’epoca in cui viviamo. In tal senso, il Faust di Goethe può aiutarci.

Quando sento parlare di identità …

Identità è una parola da maneggiare con prudenza, un oggetto che può diventare incandescente. Ultimamente viene ripetuta con assiduità e ricompare con prepotenza in rapporto alla questione dell’immigrazione.
Identità è una parola complessa, occorre uno sforzo di definizione per tracciare il confine tra ciò che si può tollerare e integrare e quel che si deve rifiutare senza mediazioni.
Le semplificazioni non aiutano, ma a volte servono.

Identitari e cosmopoliti si trovano d’accordo nel credere che esiste una relazione tra identità nazionale e integrazione degli immigrati. I primi credono che una maggiore coscienza identitaria possa eliminare parecchi grattacapi. I secondi pensano che il modo migliore per facilitare l’inserimento, consista nel favorire la dissoluzione dell’identità nazionale. Le premesse sono identiche, le conclusioni opposte, ma entrambi sbagliano.

L’affermazione dell’identità italiana (ed europea) non è un ostacolo all’integrazione, a sua volta l’immigrazione è problematica perché l’identità nazionale è incerta, smarrita e da ritrovare. Solo recuperandola si potranno smorzare e in parte risolvere le tensioni legate all’accoglienza e all’inserimento.
Nelle forme attuali l’immigrazione aggrava la conflittualità in un contesto già degradato, dove vince l’ossessione del consumo, il culto del “successo” materiale e finanziario, la dissociazione tra avvenire individuale e destino collettivo, dove gli immigrati non sono altro che gli ultimi, in ordine di tempo, da catturare e inserire nel meccanismo mercantile.

Bisogna interrogarsi profondamente sulla nozione di identità.

Porre l’attenzione sull’identità italiana non consiste nel chiedersi chi è italiano, ma piuttosto sul chiedersi cosa è italiano. Non basta rispondere con reminiscenze commemorative o evocazioni di grandi personaggi storici. L’identità di un popolo non è semplicemente la somma della sua storia, dei suoi costumi e dei suoi caratteri dominanti. È qualcosa di inconscio e di molto più forte, difficile da esprimere con parole e concetti, è una sostanza da risvegliare.

Ti starai chiedendo: ma tu hai una risposta definitiva? No e lo scrivo senza reticenze. Mi pongo dei dubbi e non mi proteggo dietro convinzioni fragili. Mi preoccupo perché auspico che una cultura politica che si mobilita intorno all’Identità, sia in grado fare un salto grande di qualità. L’identitarismo della pastasciutta va bene solo in osteria.

Seminare un po’ di scompiglio nel campo sovranista

Esiste una rete mondiale di istituzioni finanziarie e centri di potere extra-statali stratificatisi nel corso dei decenni che sembrano non avere più connessioni con l’economia reale. Questo sistema costituisce un organismo autonomo, con proprie logiche e in grado di controllare la massa monetaria e il destino economico. Non è un monolite, all’interno di esso ci sono orientamenti differenti, ma chi pensa di colpirlo e disarticolarlo con qualche buon risultato elettorale, convogliando il dissenso in un partito, confonde realtà e finzione, vive in un romanzo fantasy dove i buoni alla fine vincono sempre. Tra le file dei movimenti “sovranisti” la rassicurante allucinazione che presto o tardi il sistema si può colpire e affondare occupando un po’ di posizioni nei palazzi delle istituzioni politiche, rimanda a un pensiero primitivo. C’è una rabbia giustificata perché negli ultimi trent’anni, gran parte delle competenze e della capacità decisionali sono state delegate ad organismi non elettivi e tecnocratici come le banche centrali, le corti costituzionali, le agenzie amministrative, le burocrazie sovranazionali. Gran parte delle politiche che influiscono nella vita dei cittadini sono espressione di un lungo processo multilivello innescato in parte da tecnocrati e burocrati sovranazionali e nazionali, in parte minore da quei rappresentanti scelti alle elezioni. Soprattutto nella politica economica, le scelte partono da livelli molto alti, da istituzioni assai distanti. Di per sé questo meccanismo non si può giudicare secondo le categorie morali di bene e male. 

L’esplosione incontrollata delle attività finanziarie e la velocità con cui si disintegrano le frontiere, si regge anche attraverso un’ideologia mondialista promotrice di una mutazione antropologica e una omologazione culturale e sociale diffusa, temibile e complicata da contrastare. In conseguenza di ciò, le oligarchie finanziarie assumono in realtà la forma di conglomerate trasversali e transnazionali con partecipazioni incrociate, risultando veri e propri imperi dotati di strutture decisionali, di capacità finanziaria autonoma, di cultura manageriale. Il baricentro di questo potere è dinamico, fluisce e si sposta di continuo, non coincidendo con alcun soggetto fisico o giuridico attaccabile frontalmente. Pensare di agire individuando qualche facile capro espiatorio, dimostra insipienza e la scarsa predisposizione a capire che sullo scenario europeo e mondiale, gli attori agiscono secondo una strategia dove la distinzione tra amico e nemico non è netta. 

Non bisogna cedere al pessimismo. Si possono attivare degli inneschi per avviare una lenta contro-tendenza ma per farlo bisogna insistere su sempre sulle stesse cose: l’elaborazione metapolitica per formare un’avanguardia politica, lo studio come base per immaginare un’altra società e un’economia che non sia la semplice rincorsa al brontolio materialista. C’è un interrogativo eluso soprattutto negli ambienti della destra sociale: fino a che punto si può ritoccare e aggiustare un modello economico paranoico basato sul superfluo e sul consumo a debito? Direi di partire da qui, scavando in profondità per frantumare alcune certezze.

Clifford Douglas e la teoria del credito sociale

A sentire l’autorevole John Kenneth Galbraith, le sue teorie economiche erano degne di suscitare interesse solo “in luoghi remoti come praterie canadesi”, ma le tesi di Clifford Hugh Douglas, fondatore del movimento del Credito Sociale, non possono essere liquidate con una sbrigativa stroncatura accademica. Personalità lineare, uomo creativo e pratico, Douglas nacque in Inghilterra nel 1879 e morì nel 1952. Dopo aver studiato all’Università di Cambridge, fu ingegnere specializzato nell’analisi dei costi industriali del settore ferroviario. Ricoprì diversi incarichi e lo chiamavano “il Maggiore” per via del grado militare nei Royal Flying Corps durante la prima guerra mondiale e successivamente nella riserva della RAF. Il suo interesse per lo studio dei meccanismi economici, iniziò nel 1918 quando sul numero di dicembre della English Review apparve un articolo intitolato “The Delusion of Super-production”. Mentre stava riorganizzando il lavoro del Royal Aircraft Institut, durante il periodo bellico, Douglas notò che il costo totale settimanale di merci prodotte era maggiore delle somme versate ai lavoratori sommando salari, stipendi e dividendi.

Questo sembrava contraddire la teoria economica classica, secondo la quale, tutti i costi sono distribuiti simultaneamente come potere d’acquisto. Il Maggiore raccolse dati da più di un centinaio di grandi imprese britanniche, e rilevò che in ogni caso, le somme versate a titolo di stipendi, salari e dividendi erano sempre state inferiori ai costi totali dei beni e servizi prodotti ogni settimana: ciò significava che i lavoratori non erano stati pagati abbastanza per poter acquistare ciò che avevano realizzato. Una constatazione apparentemente banale che lo spinse a studiare il rapporto tra produzione e funzione monetaria.

Douglas era un sostenitore della libertà individuale che vedeva minacciata da tutte le forme di monopolio e in particolare da quello del credito. Nel corso degli studi, decise di fondare il movimento politico noto come “Social Credit”. Dal mese di giugno del 1919, il periodico The New Age diretto da Alfred Richard Orage, che già ospitava gli scritti di Ezra Pound, pubblicò a puntate quello che sarebbe stato il primo libro di Douglas: Economic Democracy. Nel 1920 per tramite di Orage, conobbe il poeta americano che più volte gli renderà omaggio nei suoi Cantos. In Carta da Visita Pound ricorderà: «Quel movimento (di Douglas ndr) fu la porta dove entrai nella curiosità economica».

La grande depressione del 1929 diede a Douglas un’ampia notorietà, confermando la sua diagnosi sul principale difetto del modello economico classico: l’equilibro sempre precario tra abbondanza e povertà. In quel periodo si recò in Giappone, Australia e Nuova Zelanda presso i parlamenti e scrisse una relazione per la commissione finanze del governo britannico. Nel 1933 costituì sotto la sua presidenza, il Social Credit Secretariat, un centro studi che offriva consulenze. Nel 1935, nella regione canadese dell’Alberta, un movimento politico ispirato dalle sue teorie economiche vinse le elezioni ma fu continuamente ostacolato dal governo federale e dalla Corte Suprema.

Nel 1938 fu fondato il periodico The Social Crediter.

Il nuovo puritanesimo: il genere come “costruzione” culturale

Nel dicembre del 2014, il filosofo ateista Michel Onfray, idolo della sinistra progressista, è caduto in disgrazia per avere espresso giudizi negativi sulle teorie improntate alla negazione della differenza sessuale. In quel periodo in Francia sono stati distribuiti una serie di opuscoli nelle scuole, preparati dal ministero dell’Educazione, sul superamento degli stereotipi sessuali o presunti tali. Poi è stato il turno di Germania, Italia e altre nazioni europee. Con la scusa dell’educazione contro i pregiudizi, è partita da qualche anno un’attività di propaganda nelle scuole, dove la manipolazione è più semplice. All’epoca a Onfray, è bastato un semplice tweet, per attirare su di sé gli strali dei suoi sostenitori: “E se a scuola, al posto della teoria del genere e della programmazione informatica, si insegnasse a leggere scrivere, scrivere, far di conto, pensare?”

In quei giorni, la filosofa Bérénice Levet, pubblicava il libro “La theorie du genre, ou le monde reve des anges” (Grasset), anche lei aggredita dal battaglione dei benpensanti di una sinistra che ha smarrito il retaggio libertario per diventare l’avanguardia di un odioso puritanesimo. Successivamente, Onfray sulle pagine del Nouvel Observateur, riprendeva l’argomento, spiegando la lotta in corso “tra chi afferma che il corpo e la carne non esistono, che gli essere umani sono solo archivi culturali, che il modello originale dell’essere è l’angelo, il neutro, l’asessuato, la cera malleabile, l’argilla priva di sesso da plasmare sessualmente, e chi sa che l’incarnazione concreta è la verità dell’essere che viene al mondo. Il che non esclude la formattazione fallocratica, ma non le lascia l’onnipotenza”.

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