L’attuale congiuntura geopolitica apre delle finestre di opportunità, ma per coglierle dobbiamo mutare il nostro rapporto con il mondo e smetterla di pensarci destinati all’eteronomia. Le intemperie del presente ci obbligano a pensare diversamente, cullati da troppi decenni sulla certezza che a garantire la nostra sicurezza sarebbe stato qualcun altro, specialmente l’amico americano, adesso che la superpotenza si sta lentamente disimpegnando in certe aree, tocca a noi cambiare mentalità. Essere “amici di tutti e nemici di nessuno”, ci condanna a una rassicurante irrilevanza. L’Italia produce ancora un pensiero tattico-strategico?

La domanda non riguarda qualcosa di astratto. Occorre interrogarsi su come la nazione si muove nell’arena internazionale, specialmente nel Mediterraneo. La strategia non è un elemento arbitrario, non va creata ex novo, ma è data dalla combinazione di vari fattori che rispondono a una necessità: cosa fare per sopravvivere a partire dall’elemento geografico. L’Italia deve cercare di aumentare la sua profondità difensiva, influenzare di più i territori limitrofi per evitare che altre potenze li utilizzino per attaccarci o più realisticamente, costringerci a muoverci in una determinata direzione. A che punto siamo?

La cifra dell’attuale momento politico si caratterizza per la mancanza di certezze. Gli Stati Uniti, potenza sovraestesa e in preda a una sconvolgente crisi d’identità, sembra non essere più disposta a fare il gendarme del mondo occidentale, almeno non nella misura in cui siamo stati abituati negli ultimi decenni. Washington chiede a tutti gli alleati di assumersi maggiori responsabilità, si sgancia gradualmente da alcune zone del pianeta e si occupa del dilemma principale: come gestire contemporaneamente le tensioni con la Russia in Europa e quelle con la Cina nell’Indo-Pacifico, con i suoi strateghi convinti che la partita più importante e decisiva sia quest’ultima.

Intanto l’Europa, frastornata dinnanzi alla guerra russa contro l’Ucraina iniziata il 22 febbraio 2022, è sotto attacco su più fronti e mostra più di una crepa tra ripensamenti e riposizionamenti delle nazioni più forti che la compongono.

In Germania le difficoltà si avvertono: la rottura traumatica del vincolo con la Russia mette Berlino in una situazione complicata, tra svolte epocali annunciate ma senza quel ritmo veloce che l’epoca impone. La Francia ha perso quote di potere in Africa e probabilmente la Françafrique è più un richiamo romantico all’interno di una grandeur che resiste ma si indebolisce. In estrema sintesi, siamo in quella che si definirebbe una fase di transizione egemonica. Il vecchio sistema è ancora lì e il nuovo ordine fatica a prendere forma.

Nel frattempo in Ucraina, in Palestina e nel Mar Rosso la guerra infuria. Time is out of joint, “Il tempo è scardinato”, scrive Shakespeare nell’Amleto e il riferimento è allo scardinamento dei canoni. È proprio questo mutamento a fornire occasioni per l’Italia. Il disimpegno americano ci permetterebbe di proporci come soggetti riconosciuti nel Mediterraneo cui dobbiamo la nostra sopravvivenza. La crisi tedesca potrebbe darci l’opportunità per ridiscutere il trattato di Maastricht, il patto di stabilità, certe corbellerie sul bilancio e tutti quei dossier che definiscono l’ordine europeo nei palazzi di Bruxelles. Da ultimo, l’indebolimento della Francia ci candida automaticamente a soggetto politico euroafricano perché non avendo un passato coloniale paragonabile a quello di Parigi, potremmo proporci come nazione interlocutrice dei paesi del Maghreb e del Sahel, trasformandoci innanzitutto come hub energetico inaggirabile, regolando i flussi migratori, ma soprattutto, arginando i movimenti russi e cinesi che si attivano in contrasto all’Europa in quel continente. Non c’è motivo per cui Roma non debba approfittare di questa situazione oggettiva. Essere i satelliti dell’Impero americano, non significa assumere un atteggiamento remissivo così come non si può seguire la tendenza all’equilibrismo esasperato. Le altre nazioni vedono l’Europa come un’arena dove aumentare il proprio potere politico, noi invece ragioniamo ancora con troppo sentimentalismo o alzando la voce più per farci sentire. Siamo dentro un sistema competitivo e cooperativo, l’Europa economica è un forum dove le nazioni perseguono i propri obiettivi. Altra cosa è la civiltà europea che non si trova negli uffici grigi di Palazzo Berlaymont.

Il problema fondamentale è che l’Italia ha basato la sua postura geopolitica sul concetto di vincolo esterno. La sovrapposizione dei nostri interessi a quelli americani e di altre nazioni europee si accompagna all’ingenuo racconto sugli altri che si comporterebbero alla stessa maniera. L’assenza di alcune solide certezze non spinge Roma a guardare oggettivamente ai propri interessi, ma la mette in una condizione di sgomento. L’Italia sembra assistere al passaggio d’epoca con uno sguardo pieno di preoccupazione senza comprendere l’opportunità della crisi. Abituata a troppi vincoli, Roma ne teme l’assenza. I vincoli tendono a deresponsabilizzarti, a scaricare sul più forte e attrezzato il lavoro sporco, questo perché tra le tante favole che ci raccontiamo, quella dell’essere distanti dalla guerra è la più divertente.

Qui non c’è lo spazio per analizzare tutte le incarnazioni del vincolo esterno, gli episodi della storia che lo hanno creato perché ci porterebbe troppo lontano. L’idea secondo la quale l’Italia non sia in grado di occuparsi di sé stessa e dunque necessita di un tutore per non finire imbrigliata da qualche parte, ha un incredibile retroterra storico, tanto da essersi sedimentata nella psicologia collettiva al punto da essere diventata un tratto antropologico.

L’Italia deve recuperare la giusta posizione internazionale e definire con esattezza i suoi interessi nazionali, ridefinire nuovi e ambizioni progetti industriali, guidare le forze della Tecnica insieme al resto dell’Europa, prima che siano gli altri a decidere per noi. È il tempo di assumere il peso delle grandi decisioni che comportano rischi: l’Italia deve riprendersi gli spazi di manovra e le quote di autonomia sulla scena internazionale, essere un attore politico di riferimento nel Mediterraneo. Le opportunità esistono, basta coglierle, solo che serve un decisivo cambio di visione.

Ricordiamoci che a Roma è stato piantato il seme di una grande civiltà e proprio da qui deve riprendere un nuovo spirito d’avventura che possa innescare la scintilla di una rinnovata potenza europea. Definire nuove parole d’ordine. Niente è perduto, una nuova storia è tutta da scrivere.

 

(pubblicato il 26 marzo 2024 su “medium”)