demagogia è il vocabolo usato dai democratici, quando la democrazia li spaventa (Nicolás Gómez Dávila)

REVOLVER

Mese: Aprile 2020

Wilfred Thesiger, l’aristocratico avventuriero

Wilfred Thesiger, l’ultimo grande esploratore del Novecento, appartiene a quel genere di uomini che è riuscito a scegliersi la vita forgiando il destino intorno a gusti e disgusti personali. A differenza di chi sogna di cambiare vita, e sognando la consuma, egli ha lasciato il segno attraverso l’azione. Arabian Sands, Sabbie arabe, è un classico della letteratura sul deserto, è il racconto dell’attraversamento del Rub el-Khali, l’Empty Quarter in inglese, il Quarto Vuoto, il deserto più grande del mondo che ricopre la parte più meridionale della penisola araba. L’impresa è del novembre 1945, dieci anni dopo, in una stanza d’albergo di Copenhagen, scriverà il racconto di quella avventura dura e impegnativa: gli incontri con i beduini e la condivisione della loro esistenza in un tempo fuori dal tempo, tra carovane, soste e le immense dune dell’Uruq el-Shaiba. In Italia Thesiger è un illustre sconosciuto, nel frattempo ci trastulliamo con i nuovi scrittori fenomeni e le loro storielle piene di sentimentalismo autobiografico: amori snervati, trame stracciate, un Io ipertrofico senza audacia e sostanza.

In Gran Bretagna e nei paesi anglosassoni, Thesiger è un classico. Morto nell’agosto del 2003, è stato la quintessenza di tutto ciò che è britannico, anche se ha trascorso buona parte della vita a fuggire i connazionali: nato ad Addis Abeba, ha vissuto in Africa orientale, ha viaggiato con i samburu e i turkana, è stato in Afghanistan negli anni Cinquanta, sarà Eric Newby che se lo ritrovò sulla strada a descriverlo in modo lapidario: “Un pezzo d’uomo, con una montagna a forma di naso, sopracciglia a cespuglio, la vecchia giacca di tweed degli studenti di Eton”.

Da Lisbona a Calicut, il viaggio che consacrò Vasco da Gama

A Lisbona sulla riva del fiume Tago, di fronte al Monastero dos Jerónimos, si vede l’imponente Padrão dos Descobrimentos, il Monumento alle Scoperte che celebra tutti i navigatori portoghesi che tra il XV e XVI secolo scoprirono nuove terre e tracciarono le più importanti rotte commerciali contemporanee. L’enorme caravella di pietra è decorata su entrambi i lati da un gruppo scultoreo che rappresenta i protagonisti delle grande imprese marinare del Portogallo: navigatori, cartografi, colonizzatori, missionari, guerrieri, scrittori, re e regine. Tra questi non poteva mancare il nome di Vasco da Gama e di lui vogliamo raccontare, approdo dopo approdo, uno delle sue traversate memorabili alla ricerca di un regno leggendario.

Nel 1497 Manuele I, re del Portogallo, individua nel giovane comandante Vasco da Gama il navigare più preparato per completare il lavoro cominciato da Barlomeu Dias, che dieci anni prima aveva doppiato l’Africa meridionale, scoprendo finalmente il passaggio tra l’Oceano Atlantico e l’Indiano. In quel tempo i veneziani detenevano il monopolio del commercio delle spezie e la corte portoghese aveva intenzione di spezzare questo equilibrio, fonte della sterminata ricchezza e della potenza della Repubblica del Leone. La noce moscata, la cannella, il pepe, i chiodi di garofano sono beni preziosi come l’oro e bisogna organizzare una vasta operazione per accaparrarseli. Il nobile Vasco da Gama, nato 28 anni prima a Sines, nell’Alentejo, sembra al re portoghese l’uomo giusto e malgrado le perplessità del suo entourage, autorizza la preparazione di una spedizione per aprire nuove rotte commerciali, aggiungendo un elemento religioso con il desiderio di evangelizzare quelle terre lontane dove si pensava vi fosse il regno del misterioso Prete Gianni. Vasco da Gama ha due qualità: è un abile comandante e sa combattere, infatti cinque anni prima aveva catturato alcuni vascelli francesi che minacciavano il Portogallo.

Film da scoprire. “La casa di Jack” di Lars von Trier (2018)

Schermo nero. Due voci parlano fuori campo, sono quelle di Jack (Matt Dillon) e Verge (Bruno Ganz): il primo chiede se durante il viaggio si possa chiacchierare, l’altro risponde che tutti i predecessori che ha accompagnato, sono stati colti dal desiderio di raccontarsi come una specie di confessione. Appare il titolo e il protagonista narra la sua storia che copre un arco di dodici anni, scanditi da cinque episodi significativi, detti “incidenti”. Lars Von Trier, ritorna con la tecnica del dittico dove il protagonista si racconta a un uomo più anziano e navigato.

Verge (Bruno Ganz) non si mostra indulgente, ascolta e sferza ironicamente Jack, sminuisce il suo ego psicotico, non offre giustificazioni alla pretesa di protagonista di attribuire un valore artistico alla sua cattiveria feroce.

Cinque pannelli compaiono nel film, cinque capitoli che dettano la trama del racconto dell’evoluzione criminale di Jack dal raptus omicida fino ai piani preordinati sempre più raffinati, sofisticati e depravati. Non mancano scene di violenza particolarmente disturbanti.

Nel primo incidente Jack è alla guida di un furgone rosso quando incrocia una donna con l’auto bloccata da uno pneumatico bucato e il cric malfunzionante. A interpretare la signora è Uma Thurman che per dieci minuti è al centro della scena con un atteggiamento invadente e petulante. Jack è rilassato, leggermente infastidito ma misura ogni parola, al contrario della donna che si fa accompagnare in officina e nel percorso imbastisce un dialogo sul pericolo di prendere passaggi dagli sconosciuti, con allusioni alle persone malintenzionate e battute sui serial killer. La donna gioca sull’assonanza tra il nome Jack e il jack (il cric in inglese, battuta più evidente nella versione in lingua originale). I due vanni all’officina e poi ritornano verso la macchina. Il regista si diverte con continui stacchi sul cric poggiato tra i sedili, come se fosse una pistola pronta per esplodere. Di nuovo vicino all’auto in panne, Jack ferma il furgone, è un attimo, afferra il cric e con un colpo secco fracassa il cranio della donna. Prima dell’omicidio, lo spettatore ascolta una digressione sull’arte gotica e l’importanza dei materiali fatta Jack mentre scorrono immagini sul tema. L’assassino vuole spiegare il pensiero raffinato che precede ogni sua azione. Il primo omicidio avviene con un materiale perfetto e adatto alla situazione, il cric che altera i connotati della donna creando un simulacro. L’ideale estetico nascosto dietro la nefandezza. Verge, l’accompagnatore vestito di nero che vedremo solo nella parte finale del film, cerca sempre di attenuare le pretese teoriche dell’assassino.

Jack eccelle nell’omicidio seriale e compensa la vergogna di non riuscire a costruire una casa perfetta che smonta e rimonta continuamente nel terreno dove sta edificando, proprio lui, un ingegnere che sognava di fare l’architetto. “Quando avevo dieci anni ho scoperto che attraverso il negativo vedi la qualità demoniaca insita nella luce. La luce oscura”

Nel racconto di Jack si affollano icone, finzioni, frammenti di memorie del passato, le architetture di Albert Speer, il fischio degli Stuka tedeschi paragonati alle trombe di Gerico. La musica di Gleen Gould, David Bowie, Vivaldi e Bach è la colonna sonora del viaggio nella mente diabolica di chi è privo un ordine morale prestabilito. Sarà la catabasi finale a frenare l’invasività del Male quando ormai tutto è franato. Lars von Trier ha realizzato un equilibrio mirabile di orrido e poetico.

Aldo Manuzio, tipografo, editore e innovatore della “forma” del libro

Cinquecento anni fa a Venezia, il tipografo Aldo Manuzio rinnova fortemente la concezione del libro. Con lui è sorto il mestiere dell’editore inteso come diffusore di cultura e non più semplice stampatore, le sue innovazioni sono alla base del libro-oggetto così come lo conosciamo.
Aldo nasce nel 1450 a Bassiano, un piccolo borgo del Ducato di Sermoneta, a sudest di Roma. Studia nelle capitale papale e negli anni compresi tra il 1467 e il 1475 frequenta i circoli vicini al cardinale Bessarione, un intellettuale greco fuggito da Costantinopoli dopo la conquista turca (1453).
A Bessarione si deve un dono inestimabile: il lascito alla Repubblica di Venezia dei manoscritti ellenici che costituirono il nucleo su cui sarà fondata la biblioteca Marciana, l’unica istituzione della Serenissima ancora attiva. In quel periodo Manuzio impara il greco e poi lo perfeziona a Ferrara, nel 1480 si trasferisce a Carpi a fare l’educatore presso una famiglia aristocratica. Tra il 1489 e il 1490, va a vivere a Venezia ma non sappiamo il motivo del trasferimento e nemmeno perché abbia deciso di mettersi a fare lo stampatore. Il primo libro che pubblica è la sua grammatica greca, che fa stampare presso l’officina di Andrea Torresani che diventerà suo suocero quando sposerà la figlia.

Il quotidiano Bild risponde per le rime alla Cina

Julian Reichelt è il direttore del più diffuso e popolare quotidiano tedesco, Bild Zeitung. Il quotidiano non ha mai risparmiato critiche alla Cina con la richiesta di compensare il danno economico provocato dalla pandemia di Covid 19 che Pechino ha cercato di insabbiare. Irritata dall’atteggiamento del giornale, l’ambasciata cinese a Berlino aveva chiesto un video di scuse. Reichelt per niente intimorito ha risposto con un tono fermo e determinato.

Aspettando l’Europa

Ogni grande idea politica attinge alle sorgenti di fede e si fonda su una intuizione del mondo che precede ed eccede ogni fondazione razionale. La qualità del ceto politico si misura nella dedizione con cui serve una causa, dalla lungimiranza e da una visione politica in grado di misurarsi con l’orizzonte del possibile. L’Europa può diventare un grande polo di un ordine mondiale basato su nuovi equilibri, lo è in potenza, purtroppo non lo è ancora nella sostanza. Qualcosa si intravede ma non basta, quell’aggregato chiamato Unione Europea non sta mostrando il meglio di sé. Sicuramente manca la grande politica e una mentalità ambiziosa capace di ragionare in termini di potenza. Il difetto sta nella narrazione offerta dalle élite europee poco abituate a un pensiero strategico completo, allucinate dall’idea di diluire ogni conflitto nella soluzione fisiologica del calcolo economico e convinte di riuscire prima o poi a raggiungere un equilibrio armonico. I più devastanti conflitti europei sono scoppiati come conseguenze dei tentativi di superare il pluralismo politico del continente. L’Unione Europea è ancora un territorio di scontro, attraversato da una cacofonia di interessi nazionali che a volte convergono e altre si contrappongono in un equilibrio sempre precario.

Meno male che c’è John Fante

L’interesse e entusiasmo con il quale il pubblico europeo, francese e italiano in particolare, ha ripreso a leggere John Fante, può considerarsi la rivincita post mortem del grande scrittore americano. Siamo fatti di io plurali, tante vite che premono e una sola ci è data da vivere, quella di Fante, si mescola inevitabilmente con i personaggi dei suoi romanzi di scrittore autentico, non appartenente alla schiera di fabbricatori di bestseller, accondiscendenti verso l’industria editoriale, preoccupati di non turbare il giudizio dei critici.

Impetuoso, mai accomodante, eccessivo, scostante, irridente. Suo padre Nick, figlio di emigranti abruzzesi di Torricella Peligna “muratore con la passione del vino e una predilezione per le risse da bar”, viveva in Colorado dove il figlio nacque nel 1909. John, poco più che ventenne decide di lasciare Denver per andare a Los Angeles in California, animato da buona volontà e un ardente desiderio: non avrebbe mai preso la cazzuola e sarebbe diventato un grande scrittore.

Partito in autostop con pochi dollari in tasca. Giunge nella città degli angeli e prende in affitto una stanza a Bunker Hill, un quartiere residenziale in collina che fino a qualche anno prima era il cuore pulsante della metropoli e ora ridotto a un ammasso di ville in rovina e appartamenti trasformati in residence popolari. Iniziava così il periodo dei “ventiquattro lavori, dal fattorino d’albergo allo stivatore” con un solo incessante pensiero: “aprii una valigia e tirai fuori una copia di Fame di Knut Hamsun. Era un oggetto conservato gelosamente, sempre con me dal giorno che lo avevo rubato alla biblioteca di Boulder. Lo avevo letto tante di quelle volte, che potevo recitarlo (…) mi sedetti davanti alla macchina da scrivere e mi soffiai sulle dita. Per favore, Dio, non abbandonarmi, per favore Knut Hamsun, non abbandonarmi.

Tra il 1933 e il 1936 scrisse il suo primo romanzo, La strada per Los Angeles, dove raccontava con stile brillante la sua vita in quegli anni difficili e stupendi. Libro rifiutato da molti editori e rigettato senza appello, pubblicato solo dopo la morte. Il primo romanzo pubblicato è del 1938, Aspetta primavera, Bandini accolto con curiosità, l’anno successo è la volta di Chiedi alla polvere, accolto con freddezza, nel 2006 diventato un film diretto da Robert Towne.
Negli anni successivi per sfuggire alla precarietà scrisse sceneggiature e soggetti per le maggiori case di produzione cinematografica. Disperse il suo talento in un ruolo da gregario che però gli consentiva di avere denaro a sufficienza. Sposò la poetessa Joyce Smart, mostrandosi indifferente rispetto ai suoi colleghi di Hollywood che ogni tanto imbastivano qualche campagna mediatica su argomenti sociali e di facile consenso. Fante è l’autore dalle emozioni forti, incompatibile con le sembianze di scrittore sociale che qualcuno ha tentato di attribuirgli. Un genio della narrazione, un individualista anticonformista, provocatorio, dissonante rispetto alla narrazione del sogno americano.
Fante è terribilmente maschile, nel senso che l’umore fondamentale dei suoi scritti si basa su una visione virile del mondo. Niente verbosità da psicologia elementare, niente abuso di aggettivi, spiegazioni prolisse o compiaciute, nessuna traccia di giustificazioni né ritrosia nel rivelarsi. Non devi andare a cercarlo dietro le parole: sfrontato e rabbioso, buono e cattivo, umano e troppo umano per dirla con Nietzsche.
Ho scoperto Fante in una di quelle fasi della vita dove vuoi che accadesse di tutto e invece non succede niente. Mi capitò tra le mani Chiedi alla polvere, leggendolo c’era la vita che avrei voluto. I sogni di un provinciale desideroso di scuotersi quei detriti di conformismo che possono demolire un individuo. Mi identificavo, come molti della generazione precedente con Arturo Bandini, la spericolata controfigura di Fante, sanguigno, irritabile, sensibile ma soprattutto autentico.

 

A spasso per Parigi con il commissario Maigret

Parigi è la scenografia di innumerevoli storie come quelle dei libri di George Simenon e del suo personaggio più famoso: il commissario Maigret. Se vogliamo farci un giro con il celebre poliziotto per le strade della capitale dobbiamo seguire l’itinerario che parte dalle note biografiche, contenute in Le Memorie di Maigret (1951), “dettate” proprio a Simenon.

Maigret era nato il 13 febbraio 1887 in un villaggio, Saint-Fiacre (inventato) nei dintorni di Nantes e dopo la scomparsa del padre, si era trasferito a Parigi a ventun anni, con l’obiettivo di diventare un medico. Aveva trovato alloggio in una piccola pensione, molto simile a quella dove aveva vissuto nella realtà Simenon: una stanza mansardata dell’Hotel de la Bertha, al numero 1 di rue Darcet, a due passi da place de Clichy.

L’avanguardia dadaista e l’esperienza italiana di Julius Evola

“La parola Dada fu casualmente scoperta da Ball e da me in un vocabolario tedesco-francese, mentre stavamo cercando un nome d’arte per Madame Le Roy, cantante del nostro cabaret. Dada è una parola francese che significa cavallo a dondolo”. Così Richard Huelsenberg, uno dei fondatori del dadaismo, ricorda come la scelta del nome sia derivata da un atto casuale e privo di intenzione logica.
Un altro interprete della scena, Hans Arp, racconta un’altra storia più bizzarra: “Tristan Tzara ha trovato la parola dada al Café de la Terrasse di Zurigo mentre mi portavo una brioche alla narice sinistra. Ero presente coi miei dodici figli quando l’ha pronunciata per la prima volta, destando in tutti noi un entusiasmo legittimo. Sono convinto che questa parola non ha alcuna importanza e non ci sono che gli imbecilli o i professori che possono interessarsi ai dati”.
Non ci interessa la versione dei fatti sull’origine di quella parola dal suono infantile, quel che è sicuro, nella sonnacchiosa Zurigo del 1916, un gruppo di intellettuali di orientamenti diversi, si rifugiarono in territorio neutrale per sfuggire al fuoco e al fango delle trincee della guerra per creare un movimento artistico urtante e irragionevole.

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