demagogia è il vocabolo usato dai democratici, quando la democrazia li spaventa (Nicolás Gómez Dávila)

REVOLVER

Mese: Maggio 2015

Jean Monnet, il demiurgo dell’Europa tecnocratica (con tutti i difetti)

Il 9 maggio 1950, l’allora ministro degli Esteri francese Robert Schumann, pronunciò il famoso discorso dove auspicava la creazione di un’istituzione europea per il controllo della produzione del carbone e dell’acciaio. Il giorno della “dichiarazione di Schuman” è considerato come il primo atto di quel processo di integrazione europeo.
Molti commentatori si sono lamentati del fatto che il 9 maggio non sia stato adeguatamente celebrato e che la festa dell’Europa non è avvertita come tale. Ma quelli che brontolano dovrebbero porsi una domanda: perché gli europei si dovrebbero appassionare a qualcosa che avvertono come estraneo?
L’ideale unitario non può certo incarnarsi nei volti anonimi dei funzionari dei palazzi di Bruxelles o nei conciliaboli dei lobbisti che decidono la vita di milioni di persone. Ci sono idee meravigliose che possono trasformarsi in veleno nel momento in cui diventano azioni concrete. L’Europa come oggi la conosciamo ha un grande difetto d’origine, quello di essersi realizzata inseguendo un’utopia tecnocratica. La burocrazia asettica di Bruxelles produce solo una mole indefinita di atti e dichiarazioni, la politica è relegata sullo sfondo e totalmente subalterna ai processi decisionali.
L’attuale forma istituzionale del vecchio continente venne plasmata più di mezzo secolo fa, da ex commerciante di cognac, diventato poi il più potente “homme d’influence” europeo, il francese Jean Monnet. Dalle sue intuizioni nacquero la Ceca (Comunità europea per il carbone e per l’acciaio), la Ced (Comunità europea di difesa), il Mercato comune, il Mercato unico, l’euro e il trattato di Schengen.
Nelle parole di Pascal Lamy, ex commissario europeo e direttore del Wto, “Sin dagli inizi l’Europa è stata costruita secondo (la filosofia tecnocratica di) Saint Simon, era questo il metodo di Monnet: il popolo non è pronto a sostenere l’integrazione, pertanto è necessario andare avanti senza parlare troppo di quanto si sta facendo”.
Monnet aveva le idee chiare e voleva evitare ad ogni modo che si ripetesse un conflitto come la seconda guerra mondiale: “Non ci sarà pace in Europa se gli stati saranno ricostituiti sulla base della sovranità nazionale”, scrisse nelle sue memorie. “Non stiamo formando una coalizione di stati, stiamo unendo persone”. Tuttavia questo nobile proposito, cela una sottile sfrontatezza perché Monnet ha fatto di tutto per diluire il conflitto politico, disegnando una struttura istituzionale dove al centro ci sono dei rigidi meccanismi economici, supportati da astratte teorie funzionaliste. Monnet ha consacrato trent’anni a realizzare un agglomerato economico che fosse il preludio di una futura unità politica
Il barone Robert Rothschild, uno che di potere economico se ne intendeva, disse che “Monnet non è né un politico né un pubblico ufficiale, ma una categoria a parte”. Monnet non fece mai parte di governi eletti, ma come scrive Duchêne, “veniva giudicato in possesso di un potere occulto, cospiratorio, misterioso, quello del tecnocrate”.
Egli fu decisivo anche nella messa a punto del piano Marshall e nel 1951 sarà reclutato dalla Nato nella commissione che si occuperà della gestione delle risorse.
L’idea concreta su cui poggia l’Unione Europea, la graduale perdita di sovranità nazionale a favore di un super organismo che avrebbe garantito libero scambio e sicurezza ai paesi membri, è l’espressione profonda della mentalità del francese. Non a caso in Europa assistiamo all’accentramento dei poteri e alla perdita di spazi di rappresentanza.
Jean Monnet era il tipico esempio del potente burocrate che diffidava dei politici. La politica democratica è caotica e divisiva, e costellata da compromessi. Monnet detestava tutto ciò. Era ossessionato dall’ideale di unità. E voleva che le cose venissero fatte senza dover passare per gli intrallazzi della politica. Il risultato di questo metodo è che adesso intrighi e manovre le fanno i lobbisti senza render conto a nessuno.
Monnet e gli altri tecnocrati europei non erano esattamente contrari alla democrazia, ma spesso, nel loro zelo di unificare le diverse nazioni d’Europa, sembravano trascurarla. Gli eurocrati sapevano cosa fosse meglio per i cittadini d’Europa, e sapevano cosa occorresse fare. Troppo dibattito pubblico o troppe interferenze da parte dei cittadini e dei loro rappresentanti politici avrebbero solo rallentato le cose. È un atteggiamento attento anche alla formazione di un’élite efficiente ma, laddove si spengono le passioni e si omologa il pensiero politico, tutto diluisce nella grigia pratica amministrativa, che pensa di affrontare dei problemi complessi con il piglio del ragioniere. È a questo atteggiamento che dobbiamo il lessico tipico di Bruxelles, fatto di decisioni irreversibili presentati come dogmi indiscutibili. Non disturbate i visionari, i figliocci di Monnet, loro sanno cosa fare e un’altra Europa non esiste.
Monnet ha impostato il processo d’integrazione europea su due principi: tecnocrazia ed elitismo. Centrale nel progetto del grand commis è l’idea di un’autorità superiore, la Commissione è un esempio, secondo una fedeltà assoluta, feticista nel principio di sovranazionalità. Tecnici ed esperti non eletti, devono essere coinvolti nel processo decisionale e infatti l’autonomia del politico è ridotta in Europa. A chi gli chiese se il suo ruolo fosse quello di “fondatore” dell’Europa, Monnet rispose di no: “Sono un broker”. Un piazzista che ha scritto nelle sue memorie: “Vogliamo creare un superstato senza che la gente se ne accorga”. Più chiaro di così.

alcune considerazioni sul reddito di cittadinanza

La proposta di legge del Movimento Cinque Stelle sul “reddito di cittadinanza” prevede all’articolo 3 comma 1, che “il reddito di cittadinanza garantisce al beneficiario, qualora unico componente di nucleo familiare, il raggiungimento anche tramite integrazione, di un reddito annuo netto, calcolato secondo l’indicatore ufficiale di povertà monetaria dell’Unione Europea, pari ai 6/10 del reddito mediano equivalente familiare, quantificato per l’anno 2014 in euro 9.360 annui e in euro 780 mensili”. Sono inoltre previste alcune integrazioni se il nucleo familiare è più ampio.


Il primo aspetto positivo consiste nella garanzia estesa a tutti i disoccupati, comprese alcune categorie come gli autonomi che oggi quando perdono il lavoro non hanno nulla. Il beneficiario dovrà fornire disponibilità immediata al lavoro presso i centri per l’impiego del territorio dove risiede, che dovranno attivare un percorso di formazione e inserimento nel lavoro. Nel testo c’è anche un riferimento alla realizzazione di attività utili alla collettività da svolgere presso il Comune di residenza e sono genericamente definiti gli obblighi in capo alle strutture per l’impiego che dovranno cooperare con gli altri enti pubblici in materia di formazione e inserimento lavorativo. Il beneficiario ha alcuni obblighi, pena la perdita del reddito: deve sottoporsi al colloquio di orientamento, accettare espressamente di essere avviato a un progetto individuale di inserimento o reinserimento nel mondo del lavoro e se rifiuta tre proposte di lavoro, o recede due volte nell’anno solare senza giusta causa oppure, se il responsabile del centro per l’impiego, accerta che il beneficiario abbia sostenuto più di tre colloqui di selezione con palese volontà di ottenere un esito negativo.


La proposta del Movimento Cinque Stelle va sostenuta anche se contiene alcune lacune che possono provocare rischi enormi. In Italia l’efficienza dei centri per l’impiego è scarsa, disomogenea rispetto ai territori e lo stesso discorso vale per le agenzie di lavoro private che in alcune zone d’Italia, come al Sud, sono gestite in modo truffaldino. Un esempio tipico è rappresentato da quelle che forniscono sistematicamente gli operatori sanitari, gli OSS, ormai “prodotti” come polli d’allevamento da una pletora di inutili enti di formazione, buoni solo a drenare soldi pubblici. Strutture sterili sulle quali si dovrebbe intervenire pesantemente. C’è un altro rischio che riguarda un fenomeno pericoloso che si è concretizzato in Germania dopo la riforma dei sussidi sociali avviata nel 2002 conosciuta con “Piano Hartz”. Senza addentrarci in dettagli tecnici, con l’Hartz IV, ovvero l’ultima modifica legislativa, si è concretizzato un problema serio: i disoccupati titolari di sussidio diventano ostaggio dei soprusi delle agenzie e dei datori di lavoro e sono spesso costretti a condizioni degradanti pur di non perdere il sussidio, come accettare di lavorare anche un solo giorno, perché anche quella tecnicamente è una proposta di lavoro.


L’insidia maggiore sta proprio nell’articolo 12, comma 1, paragrafo c, (“rifiuta, nell’arco di tempo riferito al periodo di disoccupazione, più di tre proposte di impiego ritenute congrue ai sensi del comma 2 del presente articolo, ottenute grazie ai colloqui avvenuti tramite il centro per l’impiego o le strutture preposte di cui agli articoli 5 e 10”)Il concetto di “congruo” andrebbe definito meglio, proprio per evitare il rischio di abusi, magari scartando tutte quelle proposte di lavoro che richiedono un impegno al di sotto di un certo limite temporale. Il disegno di legge sul reddito di cittadinanza è interessante e va decisamente sostenuto perché sposta l’attenzione sulla necessità di considerare il reddito come un elemento di inclusione all’interno della società, mentre la mancanza del medesimo diventa fattore di esclusione. Grillo più volte nelle sue dichiarazioni ha posto l’accento sulla differenza tra “posto di lavoro” e “posto di reddito” e sono in tanti a non cogliere la sottigliezza. Il reddito oggi assume lo stesso valore che aveva il possesso della terra dei contadini nei secoli passati, chi non l’aveva era spacciato e costretto a sottostare in una condizione di miseria. Le vergognose proposte di lavoro con salari irrisori sono anche la conseguenza della mancanza di un reddito minimo di sostentamento garantito a tutti che non costringa una persona ad accettare ogni condizione di lavorativa. Questa iniziativa ribalta lo schema reddito/lavoro, ovvero ti garantisco un reddito dignitoso, affinché tu possa cercarti un lavoro.

La politica monetaria della BCE e la “teoria qualitativa” della moneta

Da molto tempo si discute sull’efficacia dell’operazione di QE (quantitative easing) avviata dalla Banca Centrale Europea. Sulla stampa i soliti trombettieri suonano l’elogio a Mario Draghi. Nell’alternarsi di argomenti capziosi e semplificazioni verbali, la sostanza dei loro argomenti è sempre la stessa: la BCE sta immettendo liquidità nel mercato e questo denaro finirà nell’economia reale con effetti benefici.
L’azione della BCE ci fornisce lo spunto per una critica basata su un’impostazione completamente differente di come si debba articolare la politica monetaria. È una buona idea accennare alla teoria di un vecchio economista argentino, il professor Walter Beveraggi Allende che negli anni ottanta ha elaborato la “teoria qualitativa della moneta”, proprio in contrapposizione alla “teoria quantitativa” dell’economia classica. Quest’ultima si sofferma, nell’analisi dei prezzi di beni e servizi, semplicemente sulla dimensione della massa monetaria, mentre per l’economista argentino occorre considerare la destinazione dei flussi nei vari settori produttivi.
La teoria qualitativa sostiene che il valore del denaro e quindi il livello dei prezzi, dipende principalmente dalla “destinazione produttiva” per cui questo denaro è stato immesso nell’economia e non è determinato semplicemente dalla relativa abbondanza o scarsità del medesimo, rispetto all’insieme di beni e servizi che la moneta ha lo scopo di movimentare. Dunque, l’attenzione si concentra sulla destinazione settoriale, perché immettere liquidità nell’istruzione, piuttosto che nell’agricoltura o nell’industria, genera risultati diversi e solo la loro combinazione ci consente di valutare l’efficienza delle politiche monetarie.


Beveraggi Allende utilizza il termine “qualitativo” per indicare la capacità di provocare determinati effetti nel momento in cui si immette una certa quantità di moneta in un comparto produttivo. Investire nei settori pubblici o incoraggiare alcuni settori privati, regolando i relativi flussi monetari, non può essere un’azione a contenuto neutrale. Le attuali politiche delle banche centrali, si limitano solo all’espansione o alla contrazione della massa monetaria, senza alcuna forma di orientamento, con la solita convinzione religiosa che alla fine, il mercato abbia una capacità di “autoregolarsi”.





NOTE

Di Walter Beveraggi Allende, è disponibile in lingua italiana: “Teoria qualitativa della moneta”, 1993, edizioni di Ar

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