Il 9 maggio 1950, l’allora ministro degli Esteri francese Robert Schumann, pronunciò il famoso discorso dove auspicava la creazione di un’istituzione europea per il controllo della produzione del carbone e dell’acciaio. Il giorno della “dichiarazione di Schuman” è considerato come il primo atto di quel processo di integrazione europeo.
Molti commentatori si sono lamentati del fatto che il 9 maggio non sia stato adeguatamente celebrato e che la festa dell’Europa non è avvertita come tale. Ma quelli che brontolano dovrebbero porsi una domanda: perché gli europei si dovrebbero appassionare a qualcosa che avvertono come estraneo?
L’ideale unitario non può certo incarnarsi nei volti anonimi dei funzionari dei palazzi di Bruxelles o nei conciliaboli dei lobbisti che decidono la vita di milioni di persone. Ci sono idee meravigliose che possono trasformarsi in veleno nel momento in cui diventano azioni concrete. L’Europa come oggi la conosciamo ha un grande difetto d’origine, quello di essersi realizzata inseguendo un’utopia tecnocratica. La burocrazia asettica di Bruxelles produce solo una mole indefinita di atti e dichiarazioni, la politica è relegata sullo sfondo e totalmente subalterna ai processi decisionali.
Molti commentatori si sono lamentati del fatto che il 9 maggio non sia stato adeguatamente celebrato e che la festa dell’Europa non è avvertita come tale. Ma quelli che brontolano dovrebbero porsi una domanda: perché gli europei si dovrebbero appassionare a qualcosa che avvertono come estraneo?
L’ideale unitario non può certo incarnarsi nei volti anonimi dei funzionari dei palazzi di Bruxelles o nei conciliaboli dei lobbisti che decidono la vita di milioni di persone. Ci sono idee meravigliose che possono trasformarsi in veleno nel momento in cui diventano azioni concrete. L’Europa come oggi la conosciamo ha un grande difetto d’origine, quello di essersi realizzata inseguendo un’utopia tecnocratica. La burocrazia asettica di Bruxelles produce solo una mole indefinita di atti e dichiarazioni, la politica è relegata sullo sfondo e totalmente subalterna ai processi decisionali.
L’attuale forma istituzionale del vecchio continente venne plasmata più di mezzo secolo fa, da ex commerciante di cognac, diventato poi il più potente “homme d’influence” europeo, il francese Jean Monnet. Dalle sue intuizioni nacquero la Ceca (Comunità europea per il carbone e per l’acciaio), la Ced (Comunità europea di difesa), il Mercato comune, il Mercato unico, l’euro e il trattato di Schengen.
Nelle parole di Pascal Lamy, ex commissario europeo e direttore del Wto, “Sin dagli inizi l’Europa è stata costruita secondo (la filosofia tecnocratica di) Saint Simon, era questo il metodo di Monnet: il popolo non è pronto a sostenere l’integrazione, pertanto è necessario andare avanti senza parlare troppo di quanto si sta facendo”.
Monnet aveva le idee chiare e voleva evitare ad ogni modo che si ripetesse un conflitto come la seconda guerra mondiale: “Non ci sarà pace in Europa se gli stati saranno ricostituiti sulla base della sovranità nazionale”, scrisse nelle sue memorie. “Non stiamo formando una coalizione di stati, stiamo unendo persone”. Tuttavia questo nobile proposito, cela una sottile sfrontatezza perché Monnet ha fatto di tutto per diluire il conflitto politico, disegnando una struttura istituzionale dove al centro ci sono dei rigidi meccanismi economici, supportati da astratte teorie funzionaliste. Monnet ha consacrato trent’anni a realizzare un agglomerato economico che fosse il preludio di una futura unità politica
Nelle parole di Pascal Lamy, ex commissario europeo e direttore del Wto, “Sin dagli inizi l’Europa è stata costruita secondo (la filosofia tecnocratica di) Saint Simon, era questo il metodo di Monnet: il popolo non è pronto a sostenere l’integrazione, pertanto è necessario andare avanti senza parlare troppo di quanto si sta facendo”.
Monnet aveva le idee chiare e voleva evitare ad ogni modo che si ripetesse un conflitto come la seconda guerra mondiale: “Non ci sarà pace in Europa se gli stati saranno ricostituiti sulla base della sovranità nazionale”, scrisse nelle sue memorie. “Non stiamo formando una coalizione di stati, stiamo unendo persone”. Tuttavia questo nobile proposito, cela una sottile sfrontatezza perché Monnet ha fatto di tutto per diluire il conflitto politico, disegnando una struttura istituzionale dove al centro ci sono dei rigidi meccanismi economici, supportati da astratte teorie funzionaliste. Monnet ha consacrato trent’anni a realizzare un agglomerato economico che fosse il preludio di una futura unità politica
Il barone Robert Rothschild, uno che di potere economico se ne intendeva, disse che “Monnet non è né un politico né un pubblico ufficiale, ma una categoria a parte”. Monnet non fece mai parte di governi eletti, ma come scrive Duchêne, “veniva giudicato in possesso di un potere occulto, cospiratorio, misterioso, quello del tecnocrate”.
Egli fu decisivo anche nella messa a punto del piano Marshall e nel 1951 sarà reclutato dalla Nato nella commissione che si occuperà della gestione delle risorse.
L’idea concreta su cui poggia l’Unione Europea, la graduale perdita di sovranità nazionale a favore di un super organismo che avrebbe garantito libero scambio e sicurezza ai paesi membri, è l’espressione profonda della mentalità del francese. Non a caso in Europa assistiamo all’accentramento dei poteri e alla perdita di spazi di rappresentanza.
Jean Monnet era il tipico esempio del potente burocrate che diffidava dei politici. La politica democratica è caotica e divisiva, e costellata da compromessi. Monnet detestava tutto ciò. Era ossessionato dall’ideale di unità. E voleva che le cose venissero fatte senza dover passare per gli intrallazzi della politica. Il risultato di questo metodo è che adesso intrighi e manovre le fanno i lobbisti senza render conto a nessuno.
Monnet e gli altri tecnocrati europei non erano esattamente contrari alla democrazia, ma spesso, nel loro zelo di unificare le diverse nazioni d’Europa, sembravano trascurarla. Gli eurocrati sapevano cosa fosse meglio per i cittadini d’Europa, e sapevano cosa occorresse fare. Troppo dibattito pubblico o troppe interferenze da parte dei cittadini e dei loro rappresentanti politici avrebbero solo rallentato le cose. È un atteggiamento attento anche alla formazione di un’élite efficiente ma, laddove si spengono le passioni e si omologa il pensiero politico, tutto diluisce nella grigia pratica amministrativa, che pensa di affrontare dei problemi complessi con il piglio del ragioniere. È a questo atteggiamento che dobbiamo il lessico tipico di Bruxelles, fatto di decisioni irreversibili presentati come dogmi indiscutibili. Non disturbate i visionari, i figliocci di Monnet, loro sanno cosa fare e un’altra Europa non esiste.
Monnet ha impostato il processo d’integrazione europea su due principi: tecnocrazia ed elitismo. Centrale nel progetto del grand commis è l’idea di un’autorità superiore, la Commissione è un esempio, secondo una fedeltà assoluta, feticista nel principio di sovranazionalità. Tecnici ed esperti non eletti, devono essere coinvolti nel processo decisionale e infatti l’autonomia del politico è ridotta in Europa. A chi gli chiese se il suo ruolo fosse quello di “fondatore” dell’Europa, Monnet rispose di no: “Sono un broker”. Un piazzista che ha scritto nelle sue memorie: “Vogliamo creare un superstato senza che la gente se ne accorga”. Più chiaro di così.
L’idea concreta su cui poggia l’Unione Europea, la graduale perdita di sovranità nazionale a favore di un super organismo che avrebbe garantito libero scambio e sicurezza ai paesi membri, è l’espressione profonda della mentalità del francese. Non a caso in Europa assistiamo all’accentramento dei poteri e alla perdita di spazi di rappresentanza.
Jean Monnet era il tipico esempio del potente burocrate che diffidava dei politici. La politica democratica è caotica e divisiva, e costellata da compromessi. Monnet detestava tutto ciò. Era ossessionato dall’ideale di unità. E voleva che le cose venissero fatte senza dover passare per gli intrallazzi della politica. Il risultato di questo metodo è che adesso intrighi e manovre le fanno i lobbisti senza render conto a nessuno.
Monnet e gli altri tecnocrati europei non erano esattamente contrari alla democrazia, ma spesso, nel loro zelo di unificare le diverse nazioni d’Europa, sembravano trascurarla. Gli eurocrati sapevano cosa fosse meglio per i cittadini d’Europa, e sapevano cosa occorresse fare. Troppo dibattito pubblico o troppe interferenze da parte dei cittadini e dei loro rappresentanti politici avrebbero solo rallentato le cose. È un atteggiamento attento anche alla formazione di un’élite efficiente ma, laddove si spengono le passioni e si omologa il pensiero politico, tutto diluisce nella grigia pratica amministrativa, che pensa di affrontare dei problemi complessi con il piglio del ragioniere. È a questo atteggiamento che dobbiamo il lessico tipico di Bruxelles, fatto di decisioni irreversibili presentati come dogmi indiscutibili. Non disturbate i visionari, i figliocci di Monnet, loro sanno cosa fare e un’altra Europa non esiste.
Monnet ha impostato il processo d’integrazione europea su due principi: tecnocrazia ed elitismo. Centrale nel progetto del grand commis è l’idea di un’autorità superiore, la Commissione è un esempio, secondo una fedeltà assoluta, feticista nel principio di sovranazionalità. Tecnici ed esperti non eletti, devono essere coinvolti nel processo decisionale e infatti l’autonomia del politico è ridotta in Europa. A chi gli chiese se il suo ruolo fosse quello di “fondatore” dell’Europa, Monnet rispose di no: “Sono un broker”. Un piazzista che ha scritto nelle sue memorie: “Vogliamo creare un superstato senza che la gente se ne accorga”. Più chiaro di così.