demagogia è il vocabolo usato dai democratici, quando la democrazia li spaventa (Nicolás Gómez Dávila)

REVOLVER

Mese: Settembre 2018

Note sulla comparsa di Steve Bannon

I media tradizionali descrivono Bannon come un personaggio di dubbie qualità intellettuali, un manipolatore in camicia da ranch. È una sceneggiatura già letta: se sono democratici sono tutti eleganti e raffinati, se sono repubblicani non sono buoni. Nei salotti editoriali si commette sempre il solito errore: sminuire l’avversario che non si riesce a inquadrare in categorie predefinite. In Europa da qualche anno si sta ridisegnando la mappa, popolari e socialdemocratici sono spintonati dalle forze politiche identitarie all’assalto del fortilizio di Bruxelles. Steve Bannon pensa che il vecchio continente sia sulla via di quello che lui chiama “tectonic shift”, uno smottamento del territorio politico.
Bannon è un uomo colto, un attento osservatore della storia, la sua biografia poliedrica dovrebbe suggerire prudenza del giudicarlo e innescare curiosità: percorso accademico solido (Virginia tech, Georgetown University, Havard Business School) autore e produttore cinematografico, operatore finanziario, militare (sette anni da ufficiale di marina), animatore di iniziative editoriali (Breitbart), stratega della comunicazione e soprattutto, un lettore forte.
Nella sua biblioteca c’è un libro scritto negli anni Novanta da due storici, William Strauss e Neil Howe, intitolato “The Fourth Turning”. Secondo i due studiosi, la storia americana si sviluppa in cicli di 80-100 anni, scanditi da periodi di crisi e rinascita. L’idea risale ai tempi dell’antica Grecia quando si pensava che alla fine di ogni secolo ci sarebbe stato un ekpyrosis, un evento catastrofico in grado di distruggere il vecchio ordine e mettere le fondamenta di uno nuovo. Il periodo di transizione è il Fourth Turning.
Si possono opporre validi ragionamenti alle dichiarazioni di Bannon, ma ci sono dei fatti incontrovertibili che non hanno ancora trovato una risposta. Quali? Gli eccessi del capitale finanziario, l’impoverimento delle nuove generazioni e dei ceti medi, lo strapotere delle corporation della Silicon Valley, le rivendicazioni scadenti delle minoranze organizzate, mascherate nel lessico dei “nuovi diritti”. Tutto ciò provoca una reazione composta di idee e pulsioni.
Su queste incertezze Bannon ipotizza una riduzione del potere tecnocratico, il richiamo alle forze popolari e l’auspicio che si formi una nuova élite dal basso. Non è un messaggio innovativo, ma è di stretta attualità.
Bannon propone un immaginario, piaccia o meno, al quale il sistema dei partiti tradizionali risponde con la riproposizione dello status quo con un’altra fisionomia, senza dare una risposta adeguata all’inquietudine che attraversa tutto l’Occidente. L’idea di creare una rete transnazionale di movimenti sovranisti è affascinante, ma non è sufficiente attivare energie emotive, si deve fare di più, formare l’élite, evitare di incagliarsi in dispute provinciali e comprendere che tra Europa e Stati Uniti non c’è sempre una comunanza di interessi.

L’ascesa del “thought leader”

Il politologo Daniel Drezner in un interessante volume intitolato The ideas industry. How Pessimists, Partisans and Plutocrats are Trasforming the Marketplace of Ideas (Oxford University Press, 2017), introduce il concetto di “thought leader”, leader del pensiero che avrebbero soppiantato gli intellettuali pubblici.

Il thought leader, scrive Drezner, è un intellettuale da eventi, scrive pensando più ai “plutocratiche che sponsorizzano le convention” che all’universale cui si illudevano di parlare i vecchi intellettuali. “Conosce un solo grande tema”, crede e fa credere “che la sua grande idea possa cambiare il mondo”. Non è scettico, è un ottimista per natura, ragiona in modo induttivo partendo dalla propria esperienza.

I thought leader sono a metà strada tra il teorico vero e proprio e il propagandista. Al gusto della speculazione del primo, si associa la capacità del secondo di tradurre con formule linguistiche semplici che restano impresse nella mente, gli argomenti più complessi e astrusi. Inoltre, hanno il senso del tempo, devono trovare l’idea vincente al momento giusto, non troppo in anticipo ma neppure troppo in ritardo. Non è necessario che l’idea sia originale, deve saper cogliere lo Zeitgeist.

Suggestioni nel tempo delle tribù

Nello scritto “Il concetto del politico” (1932) il giurista Carl Schmitt annotava: “il pensiero liberale sorvola o ignora, in modo sistematico, lo Stato e la politica e si muove invece entro una polarità tipica e sempre rinnovantesi di due sfere eterogenee, quella cioè di etica ed economia, spirito e commercio, cultura e proprietà. La sfiducia critica nei confronti dello Stato e della politica si spiega facilmente in base a principi di un sistema per il quale il singolo deve rimanere il terminus a quo e terminus ad quem”. 

Nel mondo liberale, c’è una propensione ad addomesticare la lotta politica trasformandola in concorrenza economica-commerciale, riducendo i conflitti a semplici dibattiti dove trionfa l’opinione elementare e molto spesso la noia soporifera. Il risultato di tutto questo è di far perdere le tracce di ogni “autonomia” del politico, privilegiando, invece, tutto il disordine di passioni e di aneliti puramente egoistici. 

Ma se l’effetto inaspettato di questa concezione non sia proprio la ripresa del Politico sotto altre forme?

Michel Maffesoli nel 1988 in un celebre saggio, parlava del tempo delle tribù e della fine di quella modernità caratterizzata da tre aggettivi: individualista, razionalista e progressista.
Questa tribalizzazione non è una moda effimera venduta da qualche multinazionale dell’intrattenimento. Essa indica in realtà il “ritorno alla normalità”: le ideologie moderne, credevano di poter ridurre la persona ad un individuo calcolatore, il legame sociale a contratto razionale e la storia a progresso in marcia verso destino prestabilito. A smentirle sono i fatti. Certo, la superficie mediale dei discorsi resta più o meno la stessa: ufficialmente tutto sembra andare per il meglio nel migliore dei mondi possibili a parte qualche intoppo. Tuttavia, lo spessore degli avvenimenti, la somma delle evidenze e degli indizi che compongono la trama della nostra vita quotidiana, contraddice questa narrazione. “Certo”, nota Maffesoli, “si può starsene silenziosi su quel che disturba e non si capisce. Taluni lo fanno con successo, e spesso accademici, giornalisti e uomini politici preferiscono discutere e chiacchierare su argomenti scontati con idee totalmente preconcette”. Siamo entrati in una fase di neo-tribalismo, dove il recupero della cultura identitaria, il dominio di una neo lingua veloce e tagliente, ha diviso i gruppi, creato nuove aggregazioni e messo in crisi la democrazia liberale. Il futuro potrebbe prendere la forma di poteri decentralizzati non necessariamente sotto il controllo dello Stato.

Moises Naim, nel saggio “La fine del potere” (2013), aveva compreso la crisi dei macro-poteri (statali e transnazionali) a favore dei micro-poteri. Comunità politiche, ribelli, hacker, gruppi che si agitano nell’agorà digitale, nuovi media, personaggi carismatici, sembrano spuntati dal nulla e scuotono il vecchio ordine.
Naìm parla di micropoteri: figure minori, sconosciute, un tempo trascurabili, che hanno modo di indebolire, contrastare, bloccare i grandi e tradizionali protagonisti del potere mondiale, le mega organizzazioni burocratiche che hanno retto il mondo nell’ultimo secolo. Nel 1992 Neal Stephenson pubblicava “Snow Crash” che diventerà un classico della letteratura distopica: la storia racconta di un onnipresente Metaverso virtuale in cui gli individui potevano usare gli avatar e cambiare identità a piacimento. Nel romanzo gli Stati Uniti sono ridotti a un agglomerato di “Burbclaves”, suddivisioni suburbane abitate da persone che condividono le stesse idee. 

Vi sembrano scenari improbabili? Presto o tardi ci sarà  una collisione. Confini, fortezze, zone esclusive fisiche e virtuali, comunità che rivendicano spazi e si organizzano al di fuori del recinto istituzionale sono già reali.

Farmlands di Lauren Southern

 “Sono in Sudafrica per cercare la verità. In un paese dove l’agricoltura è diventata una delle attività più pericolose al mondo”. È con questa frase che inizia il trailer di “Farmlands”, documentario realizzato dall’attivista canadese Lauren Southern.

Il documentario (disponibile anche con i sottotitoli in italiano), racconta il notevole aumento della violenza contro la popolazione bianca del Sudafrica, la complicità delle istituzioni e i provvedimenti legislativi del governo sudafricano che sembrano avere come unica ragione un desiderio di vendetta postuma.

Farmlands mette in discussione la rassicurante narrativa sul paese dopo la fine del regime di apartheid ed è un invito ad analizzare il recente passato storico con maggiore lucidità.

 

 

Di Josè Mourinho non si può fare a meno

In Inghilterra, il paese che per primo e con più veemenza ha venduto l’anima del calcio al diavolo del denaro, rendendolo uno dei tanti spettacoli da piazzare, Mourinho ha capito che il football è diventato merce. L’allenatore, come l’artista deve opporre al mondo delle merci una merce speciale, simbolica appunto, se stesso.

Josè Mourinho quando cita Hegel, oppone al regno dell’uniformità e della mediocrità del lessico, la sua ironia caustica per mantenersi distaccato e non troppo coinvolto rispetto al mondo del calcio. Mourinho cerca la sorpresa, la frase ad effetto, l’atteggiamento imprevedibile. Non cerca il consenso, il riconoscimento dello status di “diverso”, non vuole essere coinvolto più del necessario nei riti noiosi del post partita. Ma proprio quando deve farlo, cura con attenzione ogni aspetto della comunicazione.

Mourinho è il simbolo dell’impertinenza e dell’imprevedibilità, ma non vuole sembrare eccentrico e trasgressivo a tutti i costi, si limita a fare quello che fanno tutti, solo in modo inimitabile.
Si scopre dandy nella sua posa sprezzante, nel suo contegno poco convenzionale, nelle sue risposte caustiche e fuori dagli schemi, spesso capaci di smascherare il bigottismo imperante nell’universo del pallone, pieno di piattezze verbali e cafonerie assortite. Il circo mediatico pallonaro anche quando lo critica, ne ha bisogno.

Mourinho è un artista che gravita intorno a sé lo spirito del tempo in tutte le sue sfaccettature. È un individuo che sorprende pur mantenendo l’impassibilità e la calma. È tesi, antitesi e sintesi.

 

Per capire cosa sta succedendo

La Storia ha fatto un balzo improvviso. Chi sperava di ridurre cittadini e popoli e patrie a semplici consumatori e mercati da raffigurare con qualche complicata funzione algebrica, deve ricredersi e assistere al riemerge di una ribellione ancora confusa e inconscia.

Nel libro “Massa e Potere” quella che Elias Canetti ha definito massa di rovesciamento, ha trovato nei leader populisti un interlocutore diretto. L’autore la descrive riferendosi all’episodio della presa della Bastiglia (14 luglio 1789). Il populismo mette in discussione il dogma delle classi dirigenti che hanno fin qui retto le democrazie liberali, attacca simbolicamente una Bastiglia dove erano imprigionate quelle idee considerate inservibili e fuori moda per l’establishment. Non si può collocarlo in una zona precisa, può stare a destra come a sinistra.

L’effetto è quello di un duello tra la realtà, armata di parole semplici e la sociologia politica da bodoir accademico, abituata a interpretare secondo schemi ben definiti e adesso in stato confusionale perché tutto si è maledettamente complicato.

“Populista” è diventato un insulto alla moda, la pistola fumante delle presunte classi colte quando tentano di liquidare un fenomeno non previsto nel copione. Il populismo per loro è “osceno”, nel senso che sta fuori dalla “scena”.

Disprezzano tutto ciò che ha radice popolare perché avvertono un afrore irrazionale, insopportabile, nascondendo con fatica il disprezzo dietro un linguaggio raffinato e biasimante. Il populismo non è privo di difetti, spesso ricerca troppo la semplificazione, è sfuggente, inafferrabile perché mutevole. Le sue mimetizzazioni spostano e superano una realtà prescritta, confonde gli avversari costretti nel recinto di un pensiero binario dove il bene sta da una parte e il male tutto dall’altra parte.

La crisi non è quella del populismo, ma l’aridità delle élite che pensano di sapere tutto e davanti a un nuovo scenario inedito sono incapaci di pensare a una soluzione originale.  Nel Seicento il polemista inglese William Hazlitt, la chiamava l’ignoranza delle persone colte:

“Il dotto non è che uno schiavo letterario. Se lo mettete a scrivere una composizione propria gli gira la testa e non sa più dov’è. Gli infaticabili lettori di libri sono come gli eterni copisti di quadri che, quando provano a dipingere qualcosa di originale, trovano che manca loro l’occhio veloce, la mano sicura e i colori brillanti, e perciò non riescono a riprodurre le forme viventi della natura”.

A queste note dobbiamo aggiungere due pilastri putrescenti dell’ideologia contemporanea: la venerazione fanatica della tecnologia e la trasformazione dell’economia da scienza sociale in dogma religioso. L’idea della politica fatta da raffinati intellettuali e inapprensibili competenti è un’illusione pericolosa. Vilfredo Pareto, un secolo fa, notava come la tecnica elimina forse il problema della competenza ma non quello della decisione a carattere generale, della rappresentanza degli interessi. Al Politico spetta la risoluzione strategica, il tecnico non può debordare e perdere la propria neutralità.

La Politica resta un dominio composto di pensiero, azione, immediatezza, un po’ di improvvisazione (senza esagerare) e la necessaria “Fortuna” descritta da Machiavelli. La sciocchezza degli avversari del populismo sta nell’affrontare la sfida senza cercare una risposta politica che metta in discussione se stessi. Il tratto della supponenza si riscontra nell’atteggiamento di chi oggi considera una mandria di rozzi manipolati gli stessi cittadini che qualche anno fa ti hanno dato il consenso elettorale. Mugugnare con il tono di Maria Antonietta: “Che mangino brioches!”, non aiuta e sapete tutti com’è andata a finire.

Pregi e difetti del populismo

Il populismo è tornato prepotentemente nel lessico politico e dei mass media, con toni dispregiativi. Presentato sempre come negativo, descritto come una via di mezzo tra demagogia e intolleranza anche se si tratta di un fenomeno mutevole difficile da classificare. Il suo riapparire è il segnale di un’insofferenza profonda e descriverlo con toni caricaturali o come una sindrome politica, segno di immaturità e arretratezza, non elimina la sostanza: esiste un ceto politico-economico autoreferenziale poco sintonizzato con la quotidianità dei cittadini comuni. Giudizi sprezzanti e tentativi di etichettatura di massa, provengono soprattutto da quelle élite progressiste convinte di stare sempre dalla parte giusta che indicano il perimetro entro il quale certe idee trovano spazio nella polis. Un recinto di legittimità, dove tutto ciò che sta al di fuori è solo segno di imbarbarimento. E se i Barbari sfondano il recinto? Si invocano le istituzioni e interventi repressivi, nel nome di una legittimità democratica generica e indefinita.

Immigrazione, ipocrisie e sensi di colpa

Sul terreno dell’immigrazione si combatte una battaglia fondamentale: da una parte la necessità di riagganciarsi all’eredità europea per difendere uno spazio di civiltà, dall’altra un pensiero della mescolanza universale che confonde i simboli dell’identità con il consumo folkloristico degli stessi. In mezzo, un manipolo verboso di moderati, con un gigantesco dispositivo linguistico composto sempre dalle stesse parole: solidarietà, diritti, integrazione, inclusione, accoglienza. Una lunga sequenza di frasi che invitano alla commozione e niente più. I modi di vita, il sapere, le tradizioni, si trasmettono da una generazione all’altra, attraverso le culture popolari, ideate e fatte proprie da popoli che sono aggregati umani ben definiti, capaci di condividere un destino e dare significato alle azioni. Difendere questo patrimonio significa preservare i popoli che lo coltivano dalle minacce di sradicamento e snaturamento culturale. Le tensioni e la spinta all’uniformità attraverso l’economia, dimostrano la concretezza di questi rischi. Che l’immigrazione di massa sia uno di questi fattori di minaccia, è difficile dubitare. Su chi dissente dall’idea che gli immigrati siano innanzitutto una “risorsa”, si abbatte l’artiglieria mediatica del ricatto della compassione, con il solito profluvio di immagini commoventi. Un ricatto psicologico uguale e contrario a quello basato sulla paura xenofoba.

Salvo rare eccezioni, la quasi totalità di intellettuali, ecclesiastici, politologi e studiosi di ogni tipo, rimuovono il problema per partito preso o peggio fingono di non vedere l’attività opaca di molte organizzazioni non governative. Conta solo il sentimento, l’appello dolciastro all’umanità. Su questo fronte il ceto clericale è prima linea: cita le sacre scritture, ma la mente è rivolta ai libri contabili delle associazioni caritatevoli.

Tutti fanno appello all’umanità, ma preferiamo Carl Schmitt e il suo invito alla diffidenza: “Il concetto di umanità è uno strumento particolarmente idoneo alle espansioni imperialistiche, ed è, nella sua forma etico-umanitaria, un veicolo specifico dell’imperialismo economico” (Il concetto di politico, 1932). I sostenitori delle “porte aperte” al migrante mescolano con furbizia e sapienza diritti umani e logica di mercato e, anche quando sono in buona fede, fanno il gioco di tutti quei settori produttivi dove l’immigrato è solo una “risorsa” per la deflazione salariale. Al capitalismo senza limiti, infastidisce il territorio, la frontiera e l’identità.

Fino a che punto sia sostenibile, per popoli che si sono forgiati nel corso del tempo un’identità ormai consolidata, l’impatto di una multiculturalità complessa e frammentata. È una domanda che molti tendono ad eludere. Salvo rare eccezioni, la risposta fornita dai moderati cosmopoliti è di due tipi: una semplice, basata sull’emotività, sul buon senso, sul dovere dell’accoglienza; l’altra invece, più articolata e riconducibile alla dimensione dell’integrazione individuale: l’illusione di poter convincere all’assimilazione una gran massa di persone, con l’acquisizione dalle abitudini e dello stile di vita dei Paesi di accoglienza. Peccato che l’ostacolo maggiore è il rifiuto di molti immigrati a rimuove l’impronta della propria cultura d’origine e sempre più spesso, anche di quei tratti distintivi che ripugnano noi Europei. È il loro modo di difendere l’identità, di conservare qualcosa di cui ancora dispongono, in mezzo al disordine e alla precarietà esistenziale. Se questa volontà fosse circoscritta a pochi individui, non sarebbe un problema, il conflitto esplode quando si consente, come accade ormai nelle periferie di molte città, di costituire delle enclavi etniche, governate da codici e leggi in contrasto con le norme delle nazioni ospitanti. E c’è di più, molti figli delle vecchie generazioni di immigrati, cresciuti in Europa, ritornano all’origine e rifiutano l’integrazione.

Il delirante approdo del multiculturalismo e di una tolleranza che approfitta del deterioramento interiore di noi europei è tutto qui. Come ricordava Dominique Venner, siamo imbottiti di concetti tesi a colpevolizzarci e a dimostrare di essere i responsabili dei mali che affliggono molte terre lontane. Qualcosa si è inceppato, siamo alla bancarotta del cosmopolitismo. Le civiltà possono venire in contatto, ricevere innesti positivi, rettificarsi ma non possono integrarsi senza conflitti e ci sono popoli che non condividono lo stesso retroterra identitario, con i quali è impossibile ipotizzare qualunque tipo di integrazione. A chi sostiene le ragioni della differenza, ripugna un ordine normato che non tiene conto delle culture popolari. Non si può ridurre all’unità ciò che è plurale. Tantomeno si può tollerare un comunitarismo estraneo che indebolisce la struttura portante della nostra Polis.  

La storia può facilmente andare fuori controllo. Si manifestano dei segnali e tutto improvvisamente si rompe. Chi continua ad ignorare volontariamente certi segnali, come gran parte del sistema mediatico-culturale, mette in pericolo la sopravvivenza stessa di ciò in cui crede per tutelare un piccolo fortilizio di certezze intellettuali. Rassegnarsi al fatto che ormai “le cose vanno così” e che l’andazzo è inarrestabile, rafforza la possibilità di trasformare il problema di oggi nella tragedia di domani. I venti di guerra soffiano di buone intenzioni.

Il capitalismo e la vanità

In un dizionario etimologico francese del 1753, la parola “capitalismo” viene definita come la tendenza a diventare ricco. Un’attitudine che necessità di vanità, desiderio del superfluo e un sentimento di invidia. Il capitalismo è prima di tutto pulsione della vanità che si rende concreta in un sistema economico.

Tra il 1847 e il 1848 William Thackeray scrisse un romanzo a puntate dal titolo significativo “Vanity Fair” (La fiera delle vanità). Thackeray, meglio di qualunque analisi socio-politica, descrive la vanità come potenza sociale, capace di sovvertire la percezione di Sé tale da provocare un’insopportabile sensazione di vuoto.

Un’economia che necessita di questo particolare stato d’animo, dove il desiderio e l’accumulo di oggetti materiali, provoca questo svuotamento da riempire continuamente con qualcosa. Proprio in Vanity Fair: “… la superiore condizione sociale delle ragazze che la circondavano facevano sentire a Rebecca i morsi dell’invidia”. Nella commedia umana, tra brame di titoli e denaro, Rebecca (Becky) Sharp si fa più vanitosa: “Che aria si dà costei per essere una nipote di un conte! Come strisciano davanti a quella piccola creola perché ha centomila sterline. Io sono mille volte più intelligente e più graziosa di lei”.

Così il capitale, trasmuta Rebecca in Becky, fino a farle acquisire quel potere capace di provocare l’invidia altrui: “(…) la vista delle stelle e dei grandi cordoni che abbellivano l’umile salotto di Rebecca avrebbe fatto impallidire d’invidia tutta Baker Street”. L’invidia è la materia del romanzo di Thackeray: seduce e innesca la vanità, in un continuo desiderare oggetti e soddisfare il bisogno del riconoscimento.

Riguardo alle politiche economiche odierne, chi cerca una soluzione richiamandosi a Keynes, dimentica il difetto d’origine di quel pensiero: intensificare l’occupazione attraverso la vanità e viceversa, ci riporta a fondare l’economia su consumi di massa e produzione del superfluo. Non sembrano rendersi conto che restiamo imprigionati nel tornado del consumismo, senza prestare troppa attenzione a ciò che si produce e consuma. Si arriva al paradosso, irrisolto da più di due secoli, di un sistema economico che per mantenersi in equilibrio deve promuovere la crescita compulsiva e artificiale dei bisogni e che va in tilt non appena si abbassa la soglia del consumo vanitoso.

Comprendere il populismo

Il populismo è tornato prepotentemente nel lessico politico e dei mass media, con toni dispregiativi. Presentato sempre come negativo, descritto come una via di mezzo tra demagogia e intolleranza anche se si tratta di un fenomeno mutevole difficile da classificare. Il suo riapparire è il segnale di un’insofferenza profonda e descriverlo con toni caricaturali o come una sindrome politica, segno di immaturità e arretratezza, non elimina la sostanza: esiste un ceto politico-economico autoreferenziale poco sintonizzato con la quotidianità dei cittadini comuni. Giudizi sprezzanti e tentativi di etichettatura di massa, provengono soprattutto da quelle élite progressiste convinte di stare sempre dalla parte giusta che indicano il perimetro entro il quale certe idee trovano spazio nella polis. Un recinto di legittimità, dove tutto ciò che sta al di fuori è solo segno di imbarbarimento. E se i Barbari sfondano il recinto? Si invocano le istituzioni e interventi repressivi, nel nome di una legittimità democratica generica e indefinita.

Il populismo non è un progetto politico organico, si nutre di sentimenti, idee e umori contraddittori. Stando ai suoi critici, esso esprime il lato oscuro e irrazionale della politica, quello dal quale prendono corpo i sentimenti peggiori e più inconfessabili della massa: da qui l’assimilazione all’egoismo sociale, alla xenofobia, all’aggressività e alla ricerca di poche e rassicuranti parole d’ordine. Nessuno nega che tali elementi siano talvolta presenti nell’universo populista, ma si tratta di un’interpretazione accettabile? Una realtà così ambivalente e camaleontica non può essere ricondotta a un autoritarismo spicciolo e rozzo. Per descriverlo non basta richiamare l’immagine suggestiva di una folla di cittadini arrabbiati manipolati da leader politici senza scrupoli; in certe sue incarnazioni storiche, il populismo ha anche significato l’affermazione di una sovranità popolare autentica, il richiamo al realismo contro l’eccessiva “intellettualizzazione” dell’esistenza, il rifiuto della mentalità burocratica, del centralismo e di esperimenti sociali troppo spinti. Storicamente il populismo ha assunto un volto autoritario, altre volte si è presentato sulla scena politica in veste democratica e pluralista. Sforzarsi di capire cosa c’è nel territorio vasto e composito del populismo, serve a comprendere meglio le tensioni intorno a noi.

Il nuovo modo di fare politica attraverso internet, la presenza di un ceto politico svincolato dai tradizionali canali di selezione partitici, specialmente in Italia con l’affermazione del Movimento Cinque Stelle, le vittorie dei partiti identitari in Europa e l’ascesa di Trump alla presidenza degli Stati Uniti, sono espressione, con modalità differenti, di un’ondata politica tipicamente populista, ancora in parte da decodificare.

Il populismo non si presenta con un profilo organicamente strutturato. È piuttosto uno stile argomentativo, una modalità del discorso politico. Ciò che lo caratterizza è il suo eclettismo ideologico, la dimensione interclassista, il suo oscillare tra le categorie destra/sinistra nel tentativo di superarle, la sua natura reattiva e protestataria, il suo apparire nei momenti di crisi. Può assumere molte sembianze: nazionalista, ultraliberale, socialista, operaista, essere reazionario, solidarista, xenofobo. Questa mutevolezza scoraggio tipologie e definizioni e consente agli avversari di applicarlo a tutto.

Il difetto maggiore del populismo è il rischio di trasformarsi in un qualunquismo brontolone, o quello di diventare preda di tribuni improvvisati col sorriso stampato o l’atteggiamento truce, che sfruttano rancori, frustrazioni alla ricerca di un alibi senza mai attaccare la logica del Capitale. Altro difetto del populismo è l’eccessivo ricorso agli appelli o una certa ingenuità verso presunte “virtù innate” del popolo.

La classe politico-mediatica escogita pericoli immaginari, tra questi il populismo, per distrarre dai pericoli veri e dalle proprie miserie. Di solito il populismo si manifesta di fronte ad una crisi di legittimità di un intero sistema, è una reazione contro una classe dirigente distratta e che toglie al popolo ogni ruolo politico. Per fronteggiare questa crisi di rappresentanza, il populismo rifiuta una serie di mediazioni inutili, si scaglia contro quelle istituzioni ingessate e non risparmia nessuno: dai sindacati al potere finanziario. È una ribellione che si pone fuori dalle logiche della democrazia rappresentativa. Più o meno consapevolmente, mostra l’insufficienza della democrazia liberale e dell’ideologia cosmopolita, misurandola sul terreno delle cose pratiche. Con la sua vena anti-elitista è incompatibile con tutti i sistemi autoritari ai quali viene maliziosamente assimilato. Chi lo critica, pone l’accento sulla semplificazione eccessiva delle questioni pubbliche complicate, ridotte a caricature adatte a suscitare istinti irrazionali.

Quante volte si sente dire “il suo è un argomento populista?” Serve solo a troncare il discorso. In realtà questo modo di rappresentarlo nasconde un malcelato disprezzo per i ceti popolari quando non si allineano al pensiero della classe al potere.

Dentro il populismo si trova un forte sentimento di rifiuto e di resistenza contro le istanze più esagerate del liberalismo, l’appiattimento culturale, il lavoro ridotto a merce, l’indulgenza eccessiva verso le culture in conflitto con la nostra. Il fatto che spesso articoli le proprie ragioni con un linguaggio rude e folcloristico, poco adatto al palato raffinato di politologi e commentatori, non può farci trascurare i problemi seri che contribuisce a sollevare.

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