demagogia è il vocabolo usato dai democratici, quando la democrazia li spaventa (Nicolás Gómez Dávila)

REVOLVER

Mese: Marzo 2015 Page 1 of 2

La criminalizzazione dei fumatori, tra affari e repressione

Fino a che punto lo Stato può interferire sullo stile di vita e la salute dei cittadini? Fumare è un comportamento così pericoloso da giustificare una politica repressiva accompagnata da una martellante campagna allarmistica. Il fumo è indifendibile? Le leggi di tutela dei non fumatori partono dal presupposto che sia necessaria una “tutela”.  Un conto è chiedere al fumatore di essere educato e contenersi in alcuni luoghi: è giusto vietare le sigarette negli ospedali o al cinema, ma arrivare a vietare degli spazi riservati ai fumatori sui treni o impedire al gestore di un locale di consentire di fumare liberamente, significa criminalizzare un comportamento e colpire la libertà.
“Il fumo fa male” è un’affermazione inconsistente. Si tassano i fumatori per punirli ma, per esempio, si consente all’industria alimentare di alterare chimicamente i cibi oppure si tace deliberatamente sulle sostanze tossiche rilasciate dai motori delle automobili.
Si colpiscono i fumatori, perché è molto più difficile mettere in riga una multinazionale che ha una capacità di ricattare e corrompere maggiore. Certo, esiste anche una lobby del tabacco, ma non è meno farabutta dell’industria farmaceutica che vuole farvi smettere di fumare ingoiando prodotti chimici. Prima di interrogarsi sulla libertà e lo stile di vita, bisogna ragionare su questioni molto più materiali e comprendere che certe azioni in nome della “salute pubblica”, servono soprattutto per qualche sporco affare commerciale.
Durante la torrida estate del 2000 a Chicago si svolse l’undicesima conferenza mondiale sul tabacco e sulla salute che aveva come obiettivo l’inasprimento delle politiche di controllo del consumo di tabacco. I quattro principali finanziatori erano tutti colossi dell’industria farmaceutica: Novartis, Glaxo Wellcome, Pharmacia e SmithKeline Buchan (SKB), attive nel mercato dei prodotti sostitutivi della nicotina e altri farmaci per smettere di fumare. 
Prima del raduno di questi invasati salutisti interessati a smerciare farmaci, fumare non era un vizio, ma una normale consuetudine. David McLean, cowboy elegante e seducente con l’immancabile sigaretta, ci mostrava i meravigliosi paesaggi del West nella pubblicità della Marlboro, Babbo Natale faceva qualche tiro tra una consegna e l’altra mentre Jacques Tati si aggirava con l’aria svampita di Monsieur Hulot e la pipa in bocca.
Alla fine degli anni Ottanta, i fumatori sono diventati dei pericolosi sovversivi da perseguitare per difendere la gente “sana”. La svolta arriva alla fine degli anni 80, quando tal Jed Rose, ricercatore della Duke University, brevetta il cerotto che permette il passaggio trans dermico della nicotina e che diventerà la base per prodotti come il Nicoderm e il Nicotrol. Roba che non valeva niente, ma che si trasformerà in oro grazie un documento del Surgeon General del 1989 intitolato “Le conseguenze del fumo sulla salute: dipendenza da nicotina”.

Quella che prima era una sostanza utilizzata da secoli anche come rimedio curativo, diventava un motivo per raffigurare i fumatori come dei drogati. All’improvviso il fumatore è diventato un malato da curare e non uno che prova piacere o vuole semplicemente rilassarsi. Ai drogati si chiede di smettere oppure si cerca di “ridurre il danno” con il metadone, così la nicotina somministrata per via farmacologica è il nuovo metadone.
Le grandi compagnie farmaceutiche hanno incrementato sempre di più i finanziamenti alla pubblicità anti-fumo e i governi in perfetta sintonia si sono adeguati con quattro mosse: a) aumentare le tasse sul tabacco, b) demonizzare i fumatori, c) vietare il fumo nei luoghi più impensabili (persino parchi pubblici) per costringere a smettere con la forza; d) promuovere l’uso di prodotti alternativi “sostitutivi della nicotina” che in molti casi agiscono sul sistema nervoso. Come dire se proprio non puoi smettere, almeno prendi la roba nostra che è più “sana”.
Fumare da “abitudine” si è trasformata in “dipendenza”. È bastato un tocco di semantica per ridurre milioni di fumatori in malati: se c’è una “dipendenza” è necessaria una “cura” e magari pure di qualche psicoterapeuta che possa correggerti.
Il trattamento riservato ai fumatori è indicativo di certi sistemi di controllo e repressione, se il confine tra salute e malattia si fa sempre più sottile, più redditizio è classificare come “malato” qualunque atteggiamento che richieda una “correzione” attraverso un farmaco. Non è promuovere la salute, ma il tentativo di dominare attraverso la medicalizzazione della vita.

Storie di anarchia, le prime rivolte in Italia

Negli ultimi mesi del 1876, gli anarchici Malatesta e Cafiero avevano deciso di avviare un’azione insurrezionale nella primavera del 1877, scegliendo come teatro delle operazioni il Sannio beneventano e assicurandosi la partecipazione del rivoluzionario russo, Sergej Kravcinskij. Questi, l’anno seguente pugnalerà a Pietroburgo il capo della polizia segreta e sarà noto nei circoli rivoluzionari londinesi con lo pseudonimo di Stepnjak.
Stepnjak aveva l’esperienza giusta per organizzare una guerra per bande, avendo combattuto con i serbi l’anno precedente nella guerra di resistenza contro i turchi.
Adducendo il pretesto che una signora russa aveva bisogno dell’aria di montagna per curare la tisi dalla quale era affetta, Cafiero e Malatesta affittarono una casa nel paese di San Lupo, in provincia di Benevento e vi depositarono diverse casse contenenti munizioni, occultate con oggetti d’uso domestico. Disgraziatamente, il piano venne scoperto dalla polizia e, quando la banda anarchica cominciò a radunarsi, San Lupo era già sotto controllo. Diverse persone, fra cui lo Stepnjak, furono arrestate in una stazione vicina; nella zona vi fu una sparatoria tra anarchici e carabinieri, uno dei quali rimase ferito e morì alcune settimane dopo. Malatesta, Cafiero e una ventina di militanti decisero di prendere la strada dei monti e tentare di scatenare una rivolta nella zona del Matese. Invece di crearsi una base di operazione e da qui cercar di svolgere un’attività di propaganda nei dintorni, si buttarono a testa bassa in un’impresa che le condizioni meteorologiche (era aprile ma c’era ancora freddo e umidità) condannavano in partenza.

In un primo momento la banda ottenne un significativo successo. Giunta una domenica mattina al villaggio di Letino, proclamò decaduto Vittorio Emanuele II e procedette al rito simbolico dell’incendio di tutte le carte dell’archivio comunale, catasto, registri delle imposte, atti relativi a ipoteche ed enfiteusi. A Letino la rivoluzione fu salutata dai contadini con un certo entusiasmo e lo stesso parroco si unì agli insorti. Poi la colonna riprese la marcia, lasciando al segretario comunale e all’oste due pezzi di carta con la scritta, per il primo: «Dichiariamo di aver occupato il municipio di Lentino armata mano in nome della Rivoluzione Sociale, oggi 8 aprile 1877» e, per il secondo: «In nome della Rivoluzione Sociale, si ordina al Sindaco di Letino di pagare lire ventotto a Ferdinando Orsi per viveri forniti alla truppa che entrò in Letino il dì 8 aprile 1877». La scena si ripeté alla tappa successiva, il paese di Gallo; ma ormai le truppe governative erano in marcia per cingere d’assedio il Matese e i contadini mostravano meno entusiasmo. Per due giorni Malatesta e i suoi compagni vagarono in cerca di riparo e nutrimento, finché, affamati e intirizziti, vennero sorpresi e fatti prigionieri.

Il trattamento giudiziario dei ribelli fu indulgente, anche se furono incarcerati per sedici mesi in attesa di giudizio. I reati politici loro ascritti risultarono estinti dall’amnistia concessa il 19 gennaio dal nuovo re Umberto I in occasione dell’ascesa al trono. L’imputazione di «complicità ne’ reati di ferita volontaria, a colpi di arma da fuoco in persona di carabinieri reali nell’esercizio delle loro funzioni», il tribunale di Benevento li assolse nell’agosto 1878. Gli effetti della mancata insurrezione nel Matese furono notevoli.
Sebbene Malatesta e alcuni dei suoi persistessero nel credere di poter conseguire qual-che risultato dando ai contadini dell’Italia meridionale un esempio di rivolta, altri, in particolare Andrea Costa, cominciarono a considerare futili simili gesti e che ogni passo avanti verso una forma di rivoluzione sociale presupponeva una migliore organizzazione e il ricorso all’attività politica anche all’interno delle strutture istituzionali.
Lo scontro era tra coloro che erano convinti di innescare un meccanismo di rivolta attraverso piccole bande di cospiratori (Malatesta) e chi invece, puntava sulla necessità di organizzare una struttura politica. Andrea Costa infatti, decise di presentarsi candidato al parlamento nel 1882 e divenne uno dei più autorevoli esponenti del partito socialista.
Il 9 Febbraio 1878, un giovane, Emilio Cappellini, lanciò una bomba durante una rivista organizzata a Firenze per commemorare Vittorio Emanuele II da poco scomparso: non vi furono vittime e gli anarchici declinarono ogni corresponsabilità diretta o indiretta nel gesto. Nove mesi dopo, un cuoco ventinovenne, Giovanni Passanante, si scagliò su Umberto I mentre passava in carrozza per le vie di Napoli, brandendo un coltello sulla cui impugnatura era scritto: «Viva la repubblica internazionale!» Il re non ebbe che un lieve graffio e il ministro che lo accompagnava rimase leggermente ferito.
Gesto solitario o azione politica pianificata? Quando i monarchici fiorentini organizzarono un corteo per celebrare lo scampato pericolo del sovrano, qualcuno gettò una bomba tra la folla e un’altra scoppiò due giorni dopo a Pisa durante la celebrazione del compleanno della regina. Episodi del genere segnarono la fine della politica di relativa mitezza con cui i tentativi insurrezionali erano stati trattati in sede giudiziaria nel 1874 e 1877. Da allora in poi, i dirigenti anarchici vennero tenuti sotto stretta sorveglianza e minacciati di arresto, detenzione ed espulsione dal Regno. Verso la fine del 1878, Malatesta lasciò l’Italia per iniziare il primo dei suoi lunghi periodi di esilio.

Mikhail Bakunin, il rivoluzionario dalla testa leonina e la criniera arruffata

La gran parte delle idee che ispirarono il movimento anarchico si devono a Proudhon, ma fu il russo Bakunin a foderarle di passione e culto dell’azione. Bakunin produsse una frattura negli ambienti rivoluzionari, mostrando quale distanza nella teoria e nella pratica, separasse l’anarchia dal comunismo marxista. Più di ogni altro contemporaneo, egli saldò il movimento rivoluzionario russo con quello del resto d’Europa. La fede nell’utilità della violenza politica e nella tecnica del terrorismo, condizionò il modo di pensare dell’ambiente sovversivo.
Mikhail Bakunin nasce nel 1814 nella provincia di Twir, a 250 km da Mosca, figlio di un nobile di provincia. Fin da giovane rivela la propria indole ribelle, con un gusto dello scandalo e del dramma che non perdette mai.
Il suo carattere è descritto bene in una lettera dell’amico e critico Belinskij: «Un uomo meraviglioso, una natura profonda, elementare, leonina – non lo si può negare. Ma le sue pretese, la sua fanciullaggine, la sua millanteria, la sua mancanza di scrupoli, la sua insincerità: tutto questo impedisce d’essergli amico. Ama le idee, non gli uomini. Vuol dominare con la sua personalità, non amare».

L’interesse per la politica ebbe inizio nel 1835 dopo un breve periodo di servizio militare, quando bazzicava il milieu filosofico e letterario moscovita, diventando amico di Belinskij con il quale si appassionò alla filosofia tedesca. Bakunin interpretava il messaggio di Hegel nel senso del culto della libertà e della rivolta personale. Recatosi a Parigi nel 1840 ed entrato in rapporti diretti coi circoli internazionali di cultura radicale, conobbe sia Proudhon che Marx. Come i rapporti fra questi due rivelarono insieme il con-trasto caratteriale e le diversità fra le dottrine, così i primi contatti fra Bakunin e Marx anticiparono, in un certo senso, il grande scisma di vent’anni dopo. Così il primo ricordava: «Non c’è mai stata franca intimità, fra noi. I nostri temperamenti non lo permettevano». E aggiunge: «Marx mi chiamava un’idealista sentimentale e aveva ragione; io lo chiamavo un vanitoso perfido e dissimulatore, e avevo ragione».
Durante i suoi viaggi in Francia e Germania, Bakunin scrive molti articoli, ma un carattere passionale e violento come il suo, desidera l’azione. Le rivoluzioni del 1848 gli danno la possibilità di emergere come una delle figure principali del radicalismo politico europeo.
Poco prima delle giornate di Parigi (22-24 febbraio 1848), i suoi legami con le organizzazioni dei profughi polacchi avevano attirato l’attenzione della polizia. Nel dicembre 1847, il sostegno incondizionato alla lotta polacca contro il dominio russo, provoca l’espulsione da Parigi.
Durante l’insurrezione di febbraio, riappare nella capitale francese e un mese dopo, tenta di raggiungere la Polonia per organizzare una rivolta. Giunto a Berlino viene arrestato e rimesso in libertà a condizione di non superare la frontiera. Dirotta quindi su Praga dove stava per aprirsi il congresso panslavo e qui per la prima volta, avrà una tribuna pubblica di rilievo dove esprimersi. Il suo pensiero non fu mai molto profondo e sistematico, né particolarmente originale; in una lunga vita piena di dedizione alla causa rivoluzionaria, egli si espresse più con atti cospirativi e di ribellione che attraverso le teorie. Bakunin era un uomo d’azione poco incline alla retorica palingenetica, per questo rimproverava Marx con una battuta, accusandolo di guardare «gli operai trasformandoli in teorici».
Scrive al poeta tedesco Herweg: «La rivoluzione è più un istinto che un pensiero; agisce e si propaga come istinto, e come istinto darà anche le sue prime battaglie. Non credo né alle costituzioni né alle leggi. La migliore delle costituzioni non potrebbe soddisfarmi. Di altro abbiamo bisogno: di passioni e di vita, e di un mondo nuovo senza leggi e per conseguenza libero». Per Bakunin l’atto di distruzione è sufficiente di per sé, in quanto il gesto rivoluzionario che abbatte la società nelle fondamenta, svelerebbe le virtù profonde insite negli uomini. Dagli scritti successivi al congresso di Praga, emerse anche un entusiasmo slavofilo non privo di accenti anti-tedeschi che aggraverà il contrasto con Marx.
Un’altra passione di Bakunin era quella cospirativa, quella per la costituzione di società segrete in gran parte immaginarie. Per tutta la vita, egli si considererà un grande cospiratore al centro di una rete di organizzazioni clandestine da lui controllate, e almeno in teoria, basate su una struttura rigidamente gerarchica. Ogni tanto spuntava qualche comitato centrale di cui spesso era l’unico componente. Eppure, le voci intorno a queste organizzazioni, spinsero molti giovani alla ricerca di contatti con le cellule di una cospirazione spesso presente solo nella mente di “Michele”.
Bakunin distribuiva tessere ed incarichi dell’Alleanza rivoluzionaria universale, simili stratagemmi oltre ad essere utili alla diffusione delle idee, mandavano in confusione gli apparati di polizia.

Nell’inverno 1848-49 Bakunin è in Sassonia per partecipare all’insurrezione di Dresda, l’ultimo colpo di coda prima di una nuova fase di normalizzazione. Quella di Dresda era più che altro una protesta contro lo scioglimento, ad opera del Re, della Dieta, l’organismo parlamentare locale. Partecipa ai disordini anche il musicista Richard Wagner ma il moto rivoluzionario fallisce e Bakunin viene arrestato, iniziando un lungo periodo di detenzione che lo renderà ancora più memorabile.
Le autorità sassoni lo consegnano agli austriaci che all’inizio vorrebbero processarlo per i fatti di Praga e la propaganda contro l’impero asburgico, ma poi sotto pressione, lo consegnano alle autorità russe. In carcere rimane dal 1851 al 1857, quando la pena viene commutata nel domicilio coatto in Siberia e di qui, rilasciato sulla parola, riesce a scappare fino a Londra.
L’evasione è stata possibile grazie alla corruzione di alcuni funzionari russi, tanto che qualcuno insinuava che Bakunin fosse una specie di informatore per conto della polizia zarista. Un’accusa non dimostrata e che sarà continuamente riesumata nelle polemiche del decennio successivo tra i vari gruppi di militanti che si contrapponevano.
Inoltre, come Proudhon si era reso sospetto a molti radicali, per i suoi atteggiamenti concilianti col bonapartismo, così Bakunin, nella prima fase della prigionia, aveva scritto uno strano documento, Confessioni allo Zar, in cui, chiedeva la grazia all’Imperatore e lo supplicava di porsi alla testa del mondo slavo. Il testo probabilmente estorto, sarà utilizzato per attaccare Bakunin, nelle polemiche degli anni successivi.
Bakunin è fuggito dalla Siberia nel 1861 e con serie di tortuosi spostamenti arriva a Londra e lì si trova al centro del movimento sovversivo internazionale. Trova ospitalità presso due esuli russi, Ogarev ed Herzen e da quest’ultimo verrà a dipendere finanziariamente.
Il suo prestigio tra i gruppi rivoluzionari era immenso; né le voci maligne sulla sua fuga potevano oscurare la reputazione conquistata durante l’attività rivoluzionaria nel 1848-49. Colpiva anche il suo aspetto fisico: alto, massiccio, energico ma di una semplicità a tratti infantile.
«La sua attività, la sua infingardaggine, l’appetito e tutto il resto», scrive Herzen, «al pari della sua statura gigantesca e del continuo sudare, tutto era fuori delle dimensioni umane, come lui stesso, ed egli era un colosso dalla testa leonina, dalla criniera arruffata».
Il forte carisma, oltre ad affascinare, attenuava alcuni difetti come l’assoluta mancanza di scrupoli in fatto di denaro, l’impetuosità e una certa petulanza. Bakunin rimane a Londra circa tre anni e, sebbene facesse visita a Marx, non sembra che abbia avuto un ruolo attivo nella creazione dell’Internazionale. Nel 1864 l’anno in cui si forma l’Internazionale, Bakunin si stabilisce in Italia e qui vive per tre anni prima a Firenze e poi a Napoli dove troverà i militanti più fedeli.

Nell’Italia del decennio 1860-70 il fascino dell’anarchismo rivoluzionario di Bakunin dovette in effetti rivelarsi notevole. Siamo in una fase di appannamento del pensiero di Mazzini che pure aveva tanto influenzato i repubblicani duri e puri, ma quel liberalismo che aveva profetizzato l’unità nazionale, è considerato dalle nuove generazioni un po’ troppo sterile. Al contrario Bakunin, infiamma come leader perché ipotizza una trasformazione totale da concretizzarsi nel momento della rivoluzione politica.
Inoltre, i giovani radicali napoletani con i quali Bakunin stringe rapidamente amicizia, sono fautori delle idee federaliste di Proudhon diffuse da Carlo Pisacane, in contrappo-sizione alla struttura istituzionale centralistica voluta dai Savoia.
Bakunin trova in Italia meridionale un contesto adeguato alla propria mentalità politica. Mentre per Marx la rivoluzione presupponeva l’esistenza della grande industria moderna e di un proletariato cosciente dei propri interessi di classe, per Bakunin le cose erano molto più semplici e si poteva tranquillamente organizzare una ribellione in un contesto poco industrializzato come quello italiano o russo. Bakunin è semplicemente convinto delle potenzialità rivoluzionarie di chi non ha niente da perdere e non del ceto operaio più istruito che in qualche modo si “imborghesisce”.
Nel periodo del soggiorno italiano, Bakunin riunisce un gruppo di militanti che sarà l’avanguardia dell’anarchismo in Europa. Sempre in Italia fonda la prima delle organizzazioni internazionali, la Fratellanza rivoluzionaria, e Marx, sebbene avesse già costituito a Londra l’Associazione internazionale dei lavoratori, non solo non la considera una seria concorrente, ma vede nell’attività italiana di Bakunin un mezzo per arginare e ridurre l’influenza di Mazzini.
Senonché, prima che il movimento in Italia mettesse solide radici, Bakunin, i cui spostamenti erano sempre determinati dalla situazione finanziaria, si trasferisce in Svizzera, e qui nel 1867, trascorre il periodo denso di attività politica. Nella Repubblica elvetica si trova al centro di innumerevoli complotti, intrighi e progetti insurrezionali. Il carattere esuberante, la passione per la congiura, la fede nelle potenzialità rivoluzionarie di alcune nazioni, il suo modo di vivere bohemien e i numerosi amici di cui si circonda, lo spingono in situazioni difficili. A differenza di Marx, è sicuro che la rivoluzione abbia maggiori possibilità di spuntarla nei paesi arretrati, con una buona guida e un’adeguata mentalità, senza aspettare lenti processi di educazione e consapevolezza.

L’affare “Necaev”. Nel 1869 accade un fatto curioso. In Svizzera arriva un giovane di ventidue anni, Sergej Gennadievic Necaev, il quale diceva di essere evaso da un carcere russo. Ex uditore dell’Università di San Pietroburgo, Necaev è in cerca di collegamenti internazionali per organizzare delle cellule insurrezionali in Russia. La storia della fuga dal carcere è una millanteria per accreditarsi come militante rivoluzionario di spessore. L’amicizia tra Bakunin e Necaev, ebbe una grande importanza nell’ambiente anarchico, ma fu per il primo fonte di amarezze e traversie politiche.
Nečaev era un rivoluzionario d’istinto, un nichilista puro, un uomo cupo, tortuoso e solitario, un po’ esibizionista, fanatico, idealista e malvivente. Di umili origini, visse in un periodo convulso della storia russa: il 4 aprile del 1866 Dimitri Karakozov aveva sparato alcuni colpi di pistola allo zar Alessandro II mancando il bersaglio. L’episodio fu impressionante per molti giovani dell’ambiente universitario estremista che leggevano gli scritti di Buonarroti.
A Mosca, Necaev aveva incontrato Petr Nikitin Tkacev, un duro dell’estremismo politico che proclamava la necessità di formare un’avanguardia di rivoluzionari professionisti e che sarà, più tardi, uno dei punti di riferimento di Lenin. Tkacev seppur ammiratore di Bakunin, era dell’idea che un movimento politico rivoluzionario dovesse dotarsi di una struttura efficiente e con Necaev, scrisse nel 1868 un Programma di azione rivoluzionaria, dove si conciliavano alcune idee anarchiche con l’esigenza di una forte disciplina interna. Soprattutto, era richiesto ai militanti uno spirito di sacrificio totale e l’abbandono dei legami troppo stretti che potessero distrarli dall’attività politica.

Quando Nečaev arriva a Ginevra, nella primavera del 1869, con una quantità di storie, per lo più inventate, sul suo passato rivoluzionario, trova Bakunin pronto a collaborare con lui e a mettersi alla testa della nuova generazione rivoluzionaria in Russia. I due probabilmente compilarono insieme il famigerato Catechismo del rivoluzionario e altri scritti, dove si fondevano tre elementi esplosivi: il disprezzo dei valori della società esistente, l’anarchismo e il sottofondo nichilista.

«Il rivoluzionario disprezza e odia la morale sociale attuale in tutti i suoi atti istintivi e in tutte le sue manifestazioni. Per lui, morale è tutto ciò che favorisce il trionfo della rivoluzione, immorale e criminale tutto ciò che la impedisce. Tutti i sentimenti affettivi, i sentimenti di parentela, di amicizia, di amore, di riconoscenza, devono essere spenti in lui dalla passione unica e fredda dell’opera rivoluzionaria. Notte e giorno egli deve avere un solo pensiero, un solo scopo: la distruzione implacabile».

E ancora:

«Poiché non ammettiamo nessun’altra attività che quella della distruzione, noi ricono-sciamo che le forme nelle quali deve esprimersi questa attività possono essere estremamente varie: veleno, pugnale, nodo scorsorio ecc. La rivoluzione santifica tutto senza distinzione. Così il campo è aperto!»

Un elogio così appassionato del terrore, in cui la violenza è accettata non solo come necessità politica, ma come un fine in sé, non si trova negli altri scritti di Bakunin, segno del grado di influenza di Necaev nella stesura finale. Tanto bastò per introdurre nel movimento anarchico un elemento destinato a permanervi e a suggerire quella dottrina della propaganda mediante fatti concreti, che sarà la molla segreta di tante azioni terroristiche nel trentennio successivo. Prima di rientrare in Russia, Nečaev ipotizzava un’azione immediata, personale e violenta:
«Senza risparmio di vite, senza arrestarci di fronte a nessuna minaccia, timore o pericolo, dobbiamo – con una serie di atti e sacrifici susseguentisi secondo un piano mediato e stabilito, con una serie di tentativi arditi per non dire temerari – buttarci nella vita del popolo, onde risvegliarne la fede in se stesso e in noi, la fede nella propria potenza, onde scuoterlo, unirlo e spingerlo verso il trionfo della sua causa. Abbiamo un piano unicamente negato, che nessuno potrà modificare: la distruzione completa».

Il curriculum rivoluzionario di Necaev non fu brillante. Rientrato a Mosca, uccide uno studente della sua organizzazione sospettato di tradimento poi, fugge di nuovo a Gine-vra. Qui prende contatti con la figlia di Aleksandr Herzen per sottrarle denaro e comin-cia a brigare contro Bakunin, finché nel 1872 viene consegnato alla polizia russa e muore dopo dieci anni di prigionia.
Bakunin si sfogherà in quel periodo con parecchi amici, ammettendo di essersi fatto prendere la mano e aver dato troppa fiducia a un losco avventuriero. La breve collabo-razione tra fece germinare il seme della lotta armata e del terrorismo individuale nel campo anarchico con risultati che si dimostreranno duraturi. Dal 1870 in poi ampi spezzoni del movimento saranno disposti a compiere una serie di attentati come gesto estremo di ribellione verso la società. In tutta Europa il terrorismo diventa un’arma politica riconosciuta e, in qualche caso – come quello della congiura che porta all’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando nel 1914 – si rifà all’esempio dato dagli anarchici.

L’incontro tra due rivoluzionari. L’affare Necaev, se assorbì molte delle energie di Bakunin nel bienno 1869-70, non fu però l’episodio più importante del soggiorno svizzero. Egli rimase implicato nella politica operaia locale e allo stesso tempo nei contatti con gli anarchici di molti paesi europei.
Proprio nella repubblica elvetica, avvenne un episodio curioso. Nel settembre 1867, si tenne a Ginevra il congresso di un’eterogenea organizzazione liberale detta Lega della Pace e della Libertà, con la partecipazione di Garibaldi, Victor Hugo e John Stuart Mill.
Bakunin era ormai una figura europea abbastanza nota, Garibaldi era leggendario e quanto sembra, i due nutrivano un’istintiva simpatia reciproca, dovuta alla devozione per le cause rivoluzionarie, nonostante le profonde divergenze di dottrina e tattica politica.
Un testimone oculare, l’anarchico austriaco Max Nettlau, ricorderà: «Quando, col suo passo pesante e lento, salì gli scalini della piattaforma dove era seduto l’ufficio di presidenza, vestito come sempre trascuratamente con un abito grigio sotto il quale si vedeva non una camicia ma una maglia, si gridò qua e là: Bakunin!
Garibaldi, il presidente, si alzò, fece qualche passo verso di lui e gli diede l’abbraccio. Questo incontro entusiastico di due vecchi e provati combattenti della Rivoluzione fece una straordinaria impressione. Sebbene ci fossero non pochi suoi avversari nell’immensa sala, tutti si alzarono e gli applausi entusiastici non finirono più».

Il rivoluzionario russo, spese gli ultimi anni in un continuo e incessante lavoro politico e fu testimone della convulsa rivolta di Parigi del settembre 1870 dove si impose la re-pubblica e dell’esperienza socialista della Comune di Parigi del marzo-maggio 1871 che lo lasciarono scettico, con tutto lo strascico di repressioni, polemiche e diatribe tra modi differenti di concepire l’attività politica rivoluzionaria.
Nel 1874 prese parte alla preparazione di un’insurrezione a Bologna, nella speranza di innescare una rivolta spontanea in tutta la Penisola, ma come altri tentativi, anche que-sto si rivelò disastroso. Costretto a fuggire in Svizzera travestito da prete, lì morì il primo luglio 1876. L’anno prima aveva scritto ad Elisée Reclus: «La rivoluzione per il momento è tornata nel suo letto: ricaschiamo nel periodo delle evoluzioni, cioè di quelle rivoluzioni sotterranee invisibili e, spesso inavvertite».
Il grande merito di Bakunin è stato quello di aver posto maggiore attenzione all’acquisizione di una mentalità rivoluzionaria, prima ancora di procedere alla formazione di un’organizzazione e fu questo il suo maggiore punto di contrasto con i marxisti.

 

La minaccia del TTIP

L’Unione Europea e gli Stati Uniti stanno conducendo negoziati per concludere un accordo di libero scambio. La Transatlantic Trade and Investiment Partnership (Tttip) ha come obiettivo rimuovere le residue barriere commerciali in una vasta gamma di settori per facilitare l’acquisto e la vendita di beni e servizi tra l’Europa e gli Stati Uniti. Questa è almeno la narrazione rassicurante offerta dalla maggioranza dei media.

Sul tavolo delle trattative ci sono questioni delicate: il cosiddetto market access (dazi doganali, regole per l’accesso agli appalti pubblici, misure contro le importazioni) e l’omogeneità delle regolamentazioni, soprattutto le “barriere non tariffarie” che poi sono la parte più consistente delle trattative. Per “barriere non tariffarie” s’intende tutte quelle norme e quei regolamenti difformi tra le due sponde dell’Atlantico: restrizioni sanitarie sui prodotti agroalimentari, particolari requisiti per la fornitura di merci e servizi, norme tecniche sui prodotti e le limitazioni della “sicurezza nazionale” (militare, energia).

Nel descrivere il Ttip si esagera furbescamente sui vantaggi e si minimizzano i rischi, nel contempo si sparano cifre a casaccio sui benefici economici. Il partenariato transatlantico si sta negoziando per lo più in segreto e le informazioni pubbliche sono poche e non aiutano a comprendere le finalità effettive dell’eventuale accordo. Lo scopo primario del TTIP non è di stimolare gli scambi attraverso l’eliminazione delle tariffe tra UE e USA peraltro già molto basse, ma è quello di consentire alle imprese multinazionali e al capitale finanziario di operare senza troppi fastidi, attraverso l’ennesima deregolamentazione, in settori delicati per la vita delle persone.



ORIGINE. L’idea di un accordo globale che comprendesse una sostanziale omologazione delle legislazioni è il risultato di una pressione lobbistica iniziata a metà degli anni Novanta. In principio fu il TransAtlantic Business Dialogue, un gruppo composto dagli amministratori delegati delle maggiori imprese europee e nordamericane, fortemente impegnate nella cancellazione di quelle regole considerate ostative per gli affari. Nel 2007 da questa lobby si forma il TransAtlantic Economic Council, altro strumento di pressione a favore di una zona di libero scambio basata sulla deregolamentazione dei mercati europeo e statunitense. Nel novembre 2011, funzionari europei e americani annunciarono la creazione di un gruppo di lavoro per “valutare le possibilità di un rafforzamento degli scambio USA-UE e le relazioni di investimento”. Poco tempo dopo la Commissione Europea ha organizzato 119 incontri a porte chiuse con singole compagnie e lobby aziendali per migliorare la loro posizione negoziale. Il primo ciclo di negoziati è cominciato nel luglio 2013 e l’auspicio, soprattutto da parte di Washington, è quello di terminare entro la fine dell’anno prima dell’elezioni di medio termine.

TROPPA RISERVATEZZA. Il TTIP deve essere interpretato non come una trattativa tra due partner commerciali concorrenti tra loro, ma come un attacco ai sistemi sociali (europeo e statunitense), provocato da società multinazionali desiderose di abbattere ogni ostacolo alle loro attività. In un documento riservato, sfuggito ai controlli e reso pubblico nel dicembre 2013, la Commissione Europea confermava che tra le norme a rischio ci sarebbe anche la legislazione primaria dell’UE (regolamenti e direttive). La cosa più preoccupante è che il TTIP sta cercando di conferire agli investitori stranieri un nuovo diritto di citare in giudizio i governi sovrani, dinanzi a tribunali arbitrali creati ad hoc per rifarsi di eventuali perdite di profitto causate da una decisione politica. Nel settembre 2013 la Commissione ha asserito che il TTIP non costituisce una minaccia per le norme sulla salute, la sicurezza sociale, l’ambiente o le garanzie finanziarie. In una lettera alla controparte americana del luglio 2013, il negoziatore capo europeo Ignacio Garcia Bercero ha confermato che la Commissione bloccherà l’accesso al pubblico a tutta la documentazione riguardante le trattative e lo sviluppo del TTIP per almeno trent’anni. Addirittura la Commissione ha chiesto ai parlamentari di sostenere la riservatezza delle trattative. Mentre tutto il lavoro di preparazione è caratterizzato da una riservatezza eccessiva, al limite dell’ossessionem la Commissione tiene sotto stretta sorveglianza i documenti più importanti e fornisce al pubblico solo notizie tranquillizzanti e poco dettagliate. Secondo i protocolli, sarà negato l’accesso a tali documenti anche a funzionari governativi degli Stati membri dell’Unione. Ancora più grave è che fino adesso ai deputati europei non è stato consentito visionare le richieste della controparte americana. Con una mossa che ricorda lo spionaggio di guerra, la Commissione ha apposto su alcuni documenti i contrassegni di segretezza per poter risalire all’origine di un’eventuale fuga di notizie. A riprova di quanto sia restrittivo il modo di gestire l’accesso alle informazioni, la Commissione europea ha riunito nel novembre 2013 i rappresentanti degli Stati membri dell’UE, con lo scopo di impartire istruzioni sul controllo e la coordinazione di tutte le comunicazioni future sul TTIP. Un documento interno della Commissione richiamava gli stati a collaborare e, al contempo, a contrastare il timore sempre più diffuso tra l’opinione pubblica, che il TTIP possa indebolire gli attuali standard di protezione in settori come la salute, la sicurezza e l’ambiente. A rendere noto il documento è stata la rivista danese Notat il 19 dicembre 2013.

IMPATTO MACROECONOMICO. Uno studio del Centre for Economic Policy Research sugli effetti del TTIP, voluto proprio dalla Commissione, nell’ipotesi più ottimistica ha previsto un aumento del PIL europeo del 0,5% entro il 2027. Ovvero briciole. Altri studi ufficiali si parlano di un incremento dallo 0.3 all’1.3% nel corso di un periodo di transizione di almeno dieci anni, mentre tutti rassicurano sulla stabilità dei livelli di occupazione. Un’analisi accurata dell’istituto austriaco Ofse (Österreichische Forschungsstiftung für Internationale Entwicklung) ha definito le stime irrealistiche, prevedendo un aumento della disoccupazione durante il periodo di transizione a causa della riorganizzazione d’interi settori produttivi.

EFFETTI COLLATERALI. L’eliminazione delle normative europee sulla sicurezza alimentare – comprese le restrizioni sugli organismi geneticamente modificati (OGM), sui pesticidi e sulla carne bovina trattata con ormoni – è uno degli obiettivi più importanti dei gruppi aziendali che fanno pressione per il TTIP. Al centro della disputa c’è il ricorso al “principio di precauzione” che stabilisce il livello minimo accettabile rispetto alla sicurezza alimentare. Secondo questo principio è possibile ritirare un prodotto dal mercato se sussiste il rischio che possa rappresentare un pericolo per la salute delle persone, anche se i dati scientifici sul rischio non siano sufficienti. A dimostrare che una sostanza non sia tossica deve essere l’industria e non l’autorità statale, in Europa la normativa REACH sulle sostanze chimiche ha rafforzato la protezione che è maggiore rispetto a quella americana.

ISDS. Il più grande pericolo rappresentato dal TTIP è la possibilità di garantire alle multinazionali il potere di citare in giudizio direttamente gli Stati, per un eventuale danno causato da una decisione politica. La clausola ISDS (Investor-State Dispute Settlement) è presente in un grande numero di trattati di libero scambio. Istituisce appositi tribunali internazionali per la risoluzione delle controversie tra uno Stato e un’impresa straniera. Questo diritto di aggirare un tribunale nazionale ha senso soprattutto nel rapporto con paesi che hanno un sistema giudiziario inefficace e inefficiente, come forma di protezione degli investimenti. La scelta di apporre la clausola ISDS contro nazioni affidabili dal punto di vista giudiziario, appare come un abuso, uno strumento di pressione politica contro le scelte dei governi. Attualmente la Commissione presieduta da Juncker sembra orientata a togliere l’ISDS dal testo dell’accordo anche non sono stati presi impegni precisi in tal senso.

(prima parte)

Appunti sulla Pop Art


New York. Alla galleria Leo Castelli è una fredda giornata di gennaio del 1958, e si sta preparando una mostra per il mese successivo dell’artista Robert Rauschenberg. Jackson Pollock è morto in circostanze drammatiche da poco più di un anno e l’ambiente dell’arte internazionale sembra in confusione. Qualcuno suggerisce la riprese del Dadaismo, coniando il termine New Dada, ma è un critico inglese, Lawrence Alloway, a proporre una nuova forma d’arte.
Sempre a febbraio pubblica un articolo su Architectural Design, intitolato The Arts and the Mass Media, dove utilizza l’espressione Pop, riferita a una cultura fatta di immagini banali legate al consumo di massa, di stereotipi, semplificazioni, in cui le merci hanno più rilievo degli oggetti d’arte e i fumetti offrono una narrativa migliore dei romanzi: è la cultura popolare di massa che diventa più rilevante della cultura “alta” e ufficiale.
La Pop Art è l’arte che nasce a partire da questa situazione. Da quel momento pop sarà utilizzato e abusato in mille modi.
Rauschenberg espone i combinepaintings, opere cui applica fotografie, brani di immagini pubblicitarie e soprattutto oggetti veri tratti dalla quotidianità, come un ombrello, la ruota di un auto o la bottiglia di una Coca Cola. Le cose sono inserite in opere dipinte con materiali colorati, con effetti gocciolanti, eseguiti con una tecnica brusca.
Sono ancora definiti quadri, ma somigliano più a degli assemblaggi impropri tridimensionali, in cui l’oggetto semplice si presenta per ciò che è, un brandello della vita comune dentro un’opera artistica, inserito senza una logica precisa.
Gli esiti di questa scelta sono particolari: il MoMa, il Museum of Modern Art di New York, tempio delle avanguardie storiche, in un primo momento rifiuta le donazioni di opere dell’artista perché realizzate con materiali deperibili dei quali non è in grado di garantire la conservazione. I lavori di Rauschenberg non sono una novità in senso assoluto ma si inseriscono in una consuetudine propria di alcune avanguardie artistiche del primo Novecento: il collage cubista, le composizioni futuriste fino al ready made dadaista, che consisteva nella manipolazione di oggetti concreti.
Rauschenberg è considerato il grande sintetizzatore di questi precedenti, tanto che alla Biennale di Venezia del 1964 viene proclamato il vero padre della Pop Art. Intanto la parola comincia a diffondersi e nuovi artisti si fanno largo.

Nel 1961 Claes Oldenburg presenta finti prodotti in un negozio autentico, un esercizio abbandonato nel Lower East Side riempito di 120 sculture riproducenti mercanzie con tanto di prezzo. Di lì a un anno lo scenario sarà completamente mutato, ad opera di artisti che portano i nomi di James Rosenquist, Roy Lichtenstein, Tom Wesselmann, George Sagal, Robert Indiana e Andy Warhol. Lichtenstein sceglie l’iconografia del fumetto e della grafica pubblicitaria per ingrandirla a dismisura e riportarla sulla tela senza mediazioni estetiche con una pittura secca, uniforme, il più possibile simile all’inchiostratura dell’editoria popolare, simile al retino tipografico. Rosenquist è un cartellonista e illustratore, mescola immagini quotidiane e pubblicitarie, spesso su supporti trasparenti, Segal gioca con il calco di gesso di persone reali, realizzando scene particolari. Oldenburg dopo i rifacimenti di oggetti e cibi, passa al loro ingrandimento esagerato, laccato, volgarmente splendente, con materiali molli o rigidi. Lo stile è kitsch: fette di torta, mozziconi di sigarette, utensili da lavoro, confezioni di cosmetici, cucchiai e macchine da scrivere, sono riprodotte in dimensioni abnormi.

Andy Wahrol, dopo una personale alla Ferus di Los Angeles basata su riproduzioni fedeli di scatole di minestra Campbell, presenta a New York ingrandimenti e ripetizioni seriali di oggetti comuni, come bottiglie di Coca Cola, oppure ritratti serigrafici di personaggi famosi come Mao Tze Tung e Marilyn Monroe. Nel giro di pochi anni diventa stesso una specie di personaggio-icona, circondato da un seguito di artisti disparati e tirapiedi in cerca di qualche minuto di celebrità.
La Pop Art è l’arte perfetta, elementare per un pubblico che accede al consumo di massa e vi si riconosce immediatamente; questi quadri attraggono perché riproducono i loro soggetti, perché ama la pubblicità e le merci.
Gli artisti Pop fanno irrompere una vitalità volgare e prepotente priva di alibi snobistici, l’orgoglio sciatto di chi si identifica culturalmente con una serie di immagini di rapido consumo. Il potenziale di questo messaggio “scandaloso” viene intuito da Wahrol che più di tutti è in grado di riassumere gli effetti profondi della cultura Pop.
Il suo talento è di non cercare di mettere alcun talento nella realizzazione di opere, ma di adattare i meccanismi dello star system, che dominano la cultura di massa permettendole di sognare, al mondo dell’arte.
Se Picasso è riuscito a diventare un punto di riferimento grazie a un talento inarrivabile, unito a una lucidità straordinaria, Wahrol ha dispiegato pari talento, pari lucidità e tenacia nel diventare l’artista più famoso: egli ha compreso che la questione non è essere considerato il nuovo Michelangelo o Tiziano, ma la nuova Marilyn Monroe, la Coca Cola vivente. Icone commerciali che diventano nuovi miti in grado di mobilitare l’attenzione e trasformare l’artista medesimo in un simbolo.
La strategia di Wahrol è di essere riconosciuto artista a prescindere e non in conseguenza del suo valore artistico. Qui sta la sua grande intuizione che parte da un semplice ragionamento: il destino delle opere dei grandi artisti del passato è trasformarsi in icone di tipo pubblicitario riprodotte in milioni di esemplari, come per esempio la Gioconda di Leonardo. Tanto vale scegliere soggetti della contemporaneità, trasformandoli in icone attraverso il marketing dell’immagine. È Warhol a sostenere, con genio da copywriter, che l’artista non deve possedere alcuna bravura tecnica, deve essere del tutto indifferente alle immagini che crea, e l’unica unità di misura del valore dell’arte è la fama che essa conferisce al suo autore, tale da farlo trattare al pari delle star della musica rock o del cinema, e il valore economico, in grado di garantire il rispetto e l’apprezzamento generali.
«La Business Art è il gradino subito dopo l’arte – scrive Warhol -. Dopo aver fatto la cosa chiamata arte, o comunque la si voglia chiamare, mi sono dedicato alla Business Art». E se qualcuno attribuisce all’arte un valore etico, di insegnamento o esempio o testimonianza, la nuova parola d’ordine sarà l’amoralità, l’indifferenza a qualsiasi aspettativa di messaggio del quale l’opera si faccia portatrice.
L’artista assume immagini patinate da rotocalco, oggetti da supermercato, per diventare egli stesso immagine da rotocalco, prodotto di massa. Così, il concetto di un valore specifico e autonomo implicito nella pratica dell’arte viene completamente ribaltato.
Tutto è disvalore, in sé, e si qualifica solamente qualora sia in grado di ottenere attenzione e amplificazione dai meccanismi mondani. Tra una lattina Campbell comprata in negozio e la stessa firmata da Andy Wahrol, c’è una differenza di valore attribuita in base a un codice di riconoscimento sociale e non all’oggetto lattina, di per sé identico. Prima è una semplice lattina, poi è la lattina firmata dal personaggio famoso e pertanto il suo valore è mutato. In effetti è ciò che accade in quegli anni negli ambienti della Pop Art.
Il MoMa acquista subito opere di Wasselmann, Oldenburg e Warhol e così fanno i grandi collezionisti. I prezzi aumentano velocemente passando da qualche centinaio di dollari ai 60mila pagati per un Warhol nel 1970. Ciò fa notizia, ciò fa dell’arte delle merci la merce culturale perfetta. Tale meccanismo mentale e mediatico di identificazione è ben spiegato da Andy Warhol: « … Mentre guardi alla televisione la pubblicità della Coca Cola, sai che anche il Presidente beve Coca Cola, Liz Taylor beve Coca Cola, e anche tu puoi berla. Una Coca è una Coca e nessuna somma di denaro ti può permettere una Coca migliore di quella che si beve il barbone all’angolo della strada. Liz Taylor lo sa, lo sa il Presidente, lo sa il barbone e lo sai anche tu».

La guerra e il conflitto interiore: i “cani di paglia” di Drieu LaRochelle


La guerra è stata per Drieu La Rochelle (1893-1945) un’esperienza decisiva. In lui coesistevano due atteggiamenti contrastanti: uno incline alla belligeranza e l’altro alla pace.
Per quanto viva fosse la disponibilità all’azione, la guerra è per Drieu un ricordo terribile e attraente perché l’esperienza della trincea gli ha consentito di separarsi da quello stile di vita “comodo” che tanto odiava, ma dal quale non riusciva mai a staccarsi.
Lo scrittore francese ha spazzato via tutti i luoghi comuni della letteratura bellica, egli considera il conflitto armato come la riscoperta dell’istinto originario e carnivoro dell’uomo, eccitato non dal sangue, ma dalla frenesia promessa dalla battaglia.
Nella guerra c’è un equilibrio tra coraggio e paura dominata, nelle descrizioni l’autore non cede mai alle storture proprie del combattente che scrive: la retorica patriottica lo disgusta quanto quella pacifista, le vicende sono narrate senza facili sentimentalismi.
Nel romanzo I cani di paglia, riproposto dalle Edizioni di Ar, la Seconda guerra mondiale fa da sfondo a una storia particolare. Durante l’occupazione tedesca Constant Trubert arriva in una proprietà situata nel nord della Francia, con il compito di sorvegliarla per conto del proprietario conosciuto a Parigi poco tempo prima. Constant entra in contatto con gli abitanti del paese, cogliendone caratteri e umori. Col tempo si accorge che tre personaggi, un gollista, un comunista e un collaborazionista, sono per motivi diversi, molto interessati a quella proprietà. Constant scoprirà la ragione di tanta attenzione: nella casa c’è custodito un deposito di armi e i tre vogliono impossessarsene quando la guerra entrerà nella fase decisiva.
Nella partita entra in gioco un quarto uomo: un giovane nazionalista che sogna una Francia indipendente da ogni ingerenza straniera. Constant è indeciso, da un lato vorrebbe partecipare all’intrigo ma una parte di sé gli suggerisce di sottrarsene. Alla fine, è il nazionalista a dover affrontare tutti i suoi avversari e solo Constant è dalla sua parte, affascinato da quell’idea pur nella convinzione della vanità della stessa. Vede nel giovane nazionalista un uomo coraggioso e nobile, seppur destinato al probabile fallimento.
I cani di paglia pone l’interrogativo tra la concretezza dell’azione e l’idealismo del gesto che tutto cancella. Il romanzo riguarda la storia recente della Francia, raccontata da un testimone degli anni dal 1940 al 1945.
La Rochelle non vuole proporre un analisi, ma evidenziare solo la sostanza morale del protagonista del racconto. Il titolo del libro è un richiamo a un brano del testo cinese Tao Te Ching (Libro della Vita e della Virtù): «Il cielo e la terra non sono indulgenti o benevoli al modo degli uomini: essi considerano gli esseri alla stregua di cani di paglia da impiegare nei sacrifici».

Odio il capitalismo perché …

Criticare il capitalismo non significa necessariamente propendere per una soluzione socialista in tutte le sue varianti. Già sarebbe un risultato fare questo salto mentale: essere anti-capitalisti senza immaginare utopie collettiviste che spesso mortificano gli individui. Il capitalismo è esecrabile non tanto perché crea disuguaglianze, ma perché fa prevalere un tipo umano mediocre, venale e spesso vanesio, con scarsa capacità di concentrazione.
Il capitalismo deforma la funzione del capitale che è prima di tutto un atto di fiducia e il suo carburante non è semplicemente il desiderio di proprietà e ricchezza, ma una pulsione alla vanità che non dipende da chi detiene il mezzo di produzione. È un sentimento che coglie anche l’operaio che con il suo lavoro alimenta tutto il ciclo. A testimoniarlo sono le file ordinate, talvolta degenerate in rissa, nei centri commerciali che si spiegano come un impasto di vanità e ricerca di felicità materiale, desiderio di sentirsi parte di uno stesso gruppo, tribù o clan: l’oggetto come segno di riconoscimento.

L’anticapitalismo classico come l’abbiamo conosciuto finora, fatica a comprendere questo sentimento, è troppo distratto nei suoi calcoli e nella progettazione di un migliore schema di distribuzione. Come Marx, avversa il capitale ma lo ammira considerandolo uno strumento indispensabile e formidabile. Il barbuto tedesco non ha sbagliato, ma se ribaltiamo il suo pensiero e cominciamo a spiegare il capitalismo partendo dal capitale, o meglio dalla sua perversione, riusciremo a comprendere meglio quel che accade oggi.

L’esito paranoico, stupido e omologante del capitalismo, non risiede tanto nel furto del lavoro, ma nella potenza sociale della vanità che fa assumere un’identità di sé diversa e quindi sovvertitrice.  William Tackeray nella Fiera delle Vanità ha saputo descriverlo meglio di qualunque economista: «La superiore condizione sociale delle giovinette che la circondavano facevano sentire a Rebecca i morsi dell’invidia».

Un vuoto che non si riesce a sopportare e che sperando di riempirsi, ritorna vuoto. L’inesausta crescita del capitalismo, la sua natura fittizia, l’ipnosi televisiva, l’estasi confusa del passeggiare in spazi chiusi, tra vetrine e musica assordante, si alimenta di questo sentimento pieno/vuoto. Annullando ogni altra gerarchia che non sia quella del denaro, si nutre d’invidia, pulsioni evanescenti e dell’illusione di poter comprare tutto a credito, compresa la spiritualità. Persino un’antica disciplina come lo Yoga è finita, nella sua variante a buon mercato, per confondersi con l’odore acre delle magliette sudate in palestra. Si è creata un’oligarchia venale, frenetica e grossolana, inseguita da un ceto medio sempre più povero e indebitato che sogna di diventare come essa. In un continuo precario equilibrio tra “noi” e “loro”, tutti sperano di acquisire una piccola quota di lusso. Un forte desiderio inappagato di sollazzo materiale richiede credito facile, immediato, disponibile: un debito venale che non si estingue mai, più potente di qualunque credito morale.

Il programma di acquisti della BCE è un altro regalo ai poteri marci della finanza

Il 9 marzo la Banca Centrale Europea ha attivato il programma di acquisto di titoli di stato, obbligazioni e titoli cartolarizzati sul mercato secondario dell’area euro.
L’operazione è stata presentata come una misura utile a immettere denaro nel sistema bancario per poi dirottarlo nell’economia reale e riattivare il credito per famiglie e imprese. Fino a settembre 2016 e per un importo di 1140 la Bce acquisterà attraverso le banche centrali nazionali titoli per 60 miliardi euro al mese.
Già dal qualche settimana è cominciato un bombardamento propagandistico finalizzato a presentare la scelta di Draghi come un rimedio alla fase economica stagnante, come se il problema fosse la liquidità e non la mancanza di investimenti e di politiche espansive che stimolino la domanda aggregata. I privati non hanno interesse a investire in una fase difficile la loro redditività sarebbe molto scarsa e si dovrebbe mettere in condizione gli Stati di poter fare investimenti in deficit, perché lo stimolo monetario non è sufficiente.
Negli anni passati, con strumenti tecnici diversi, la BCE aveva già immesso denaro nel sistema bancario, senza che questo producesse risultati concreti, se non quello di consentire alla banche piene di titoli tossici, di lucrare sul differenziale tra il tasso d’interesse dei soldi presi in prestito e quello dei titoli di stato acquistati in modo massiccio.
Interpretare il quantitative easing come uno stimolo per l’economia che potrà avere effetti positivi sull’occupazione, significa mentire spudoratamente. Il piano non è rivolto ai paesi in difficoltà, come sarebbe stato più logico, ma gli acquisti saranno effettuati in proporzione alle quote di capitale detenute dalla singole banche centrali degli stati dell’eurozona. Di conseguenza la parte più consistente dei titoli interessati dal QE è costituita da titoli della Germania che già pagano interessi irrisori.
Il risultato che si ottiene è quello di abbassare ulteriormente i titoli di stato dei paesi del nucleo più forte verso rendimenti quasi negativi per spostare le speculazioni verso il mercato azionario.
Infatti, il primo effetto positivo del QE è stato un rialzo dei listini di borsa tutto a vantaggio delle società quotate e dei loro azionisti. L’altro risultato prodotto dal QE è la svalutazione dell’euro rispetto al dollaro che incentiva le esportazioni concentrate principalmente nelle grandi imprese multinazionali. La BCE sta facendo l’ennesimo favore al sistema bancario per continuare a fare profitti e garantire ogni tipo di operazione finanziaria. Siamo in piena crisi strutturale e si consente tranquillamente al capitale finanziario di fare altri profitti per consolidare un modello basato su bassi salari e adeguate riserve di disoccupati pronti a tutto.

Una “rivolta viscerale”: alle origini del pensiero anarchico

Le idee anarchiche conservano una forte attrattiva e sono fonte d’ispirazione per uomini e gruppi politici eterogenei. Nonostante gli anarchici non abbiano al loro attivo nessuna rivoluzione vittoriosa, la loro dottrina continua a sollecitare una serie di interrogativi sulla natura della società, della democrazia e delle istituzioni.
Essa ha rivolto al concetto moderno dello Stato una serie interminabile di critiche attaccando ogni tesi politica e tutti quei concetti relativi alla nozione di autorità in senso ampio. Spesso con brutalità, l’anarchico affonda il coltello nel corpo dei valori e degli istituti della società e della morale. Fin dalle fasi iniziali, le proteste di cui il movimento anarchico si è reso interprete, hanno espresso un bisogno psicologico che la sua debacle come forza politica organizzata non ha cancellato.



L’anarchismo classico è un prodotto del XIX secolo, in parte è il riflesso dello scontro tra le macchine della rivoluzione industriale e una società artigiana e contadina. Si è alimentato con il mito della Rivoluzione Francese del 1789, ma ha rimesso in discussione i mezzi e i fini degli stessi rivoluzionari. La parola anarchia è antica, deriva dal greco antico ana e arché, e indica pressappoco assenza d’autorità o di governo. La consuetudine secondo la quale gli uomini non possono fare a meno della prima o del secondo, ha conferito al termine anar-chia, un significato dispregiativo, come sinonimo di disordine, caos e disorganizzazione. Fu Pierre Joseph Proudhon ad impadronirsi del termine anarchia. Grande creatore di battute (“la proprietà è un furto”), egli la intendeva proprio come il contrario del disordine. Secondo lui a favorire il disordine era proprio il governo e soltanto una società priva di esso, poteva ristabilire l’ordine naturale e restaurare l’armonia sociale. Per indicare questa terapia, convinto che il linguaggio non gli forniva altro vocabolo, volle restituire all’antica parola anarchia il suo stretto significato etimologico. Dopo di lui a utilizzare il termine anarchia fu Bakunin, con un furore polemico non privo di contraddizioni.
Proudhon e Bakunin si divertirono a confondere le acque: l’anarchia era, per loro, nello stesso tempo, il più gigantesco disordine, la disorganizzazione più completa della società e, dopo questo mutamento rivoluzionario abnorme, la costruzione di un nuovo ordine, stabile e razionale, fondato sulla libertà e la solidarietà. Un’elasticità che si prestava a generare equivoci e sospetti fastidiosi. Proprio questa duttilità estrema, spinse molti personaggi, uomini politici, uomini d’azione, poeti e avventurieri a riconoscersi con modalità differenti nelle idee anarchiche e libertarie. In Francia, alla fine del secolo, Sebastian Faure riprese un termine coniato, fin dal 1858, da un tal Joseph Déjacque, e ne fece il titolo di un giornale: Il Libertario.

Gli anarchici tentarono di demolire tutti quei valori che giustificano lo stato come struttura centralizzata sempre più potente nel XIX secolo, perché eretto sulla base di una di una crescente industrializzazione . Era quindi inevitabile che gli anarchici si creassero sempre più dei nemici: politici, latifondisti, preti, burocrati. Pur essendo un fenomeno dell’ultimo secolo e mezzo, quello anarchico rappresenta un tipo di rivolta con radici profonde in epoche remote. Molti anarchici sono fieri di questi precedenti storici e spesso rivendicano come precursori uomini che forse si stupirebbero di trovarsi in loro compagnia.

Zenone, gli stoici, le eresie gnostiche, sono tutti considerati come progenitori del moderno anarchismo e in generale tutto ciò che si pone in contrasto con l’idea di accentramento, politico, religioso, culturale e comportamentale. L’anarchismo si è insinuato nelle culture po-litiche più disparate, le più affini come quella socialista e comunista, ma anche le più distanti come il nazionalismo, il liberalismo e addirittura ha lambito il primo fascismo squadrista.
L’anarchismo è quel che si può definire una rivolta viscerale, da parte di un individuo ribelle che si sbarazza – affermava Max Stirner – di tutto ciò che è sacro, realizzando un’immensa sconsacrazione.
Come «vagabondi dell’intelligenza» «invece di considerare verità in-tangibile ciò che offre a migliaia di uomini la consolazione e il riposo, saltano oltre le barriere del tradizionalismo e si abbandonano senza freni alla fantasie della loro critica sfrontata». Per l’anarchico tra tutti i pregiudizi che accecano l’uomo dall’origine dei tempi, quello dello Stato è il più funesto. Stirner tuona contro colui che «da tutta l’eternità, è posseduto dallo Stato».
Proudhon non si tira indietro e ne smonta il meccanismo: «Ciò che ha mantenuto questa predisposizione mentale e ha per tanto tempo il suo fascino invincibile, è questo: il governo è apparso alle menti come l’organo naturale della giustizia, il protettore dei deboli». Sprezzante auspica il giorno in cui: «la rinunzia all’autorità avrà sostituito nel catechismo politico la fede nell’autorità».
Il principe Kropotkin si beffa di coloro che «giudicano il popolo come un agglomerato di selvaggi che si mangiano il naso appena il governo non funziona più». Malatesta, quasi precorrendo la psicanalisi, svela la paura della libertà che occupa il subconscio degli autoritari.
«Lo Stato ed io, siamo due nemici» – attacca Stirner – «Lo Stato ha sempre un solo scopo: limitare, legare, subordinare l’individuo, as-soggettarlo all’interesse generale». Proudhon gli fa eco con una tirata degna di Moliere: «Essere governato, significa essere guardato a vista, ispezionato, spiato, diretto, legiferato, regolamentato, incasellato, indottrinato, catechizzato, controllato, valutato, censurato, comandato, da parte di esseri che non hanno né il titolo, né la scienza, né la virtù (…)».

Questa furiosa requisitoria anti-statale continua con una celebre frase di Bakunin, per il quale lo Stato è una «astrazione divoratrice della vita popolare». Ribatte Malatesta: «Lungi dall’essere creatore d’energia, il governo saccheggia, paralizza e distrugge enormi forze, con i suoi metodi d’azione». In quel periodo questi autori osservano un altro fenomeno: l’aumento delle funzioni dello stato, delle burocrazia che rendono complessa la vita sociale.
Proudhon annuncia il flagello del futuro: «Il funzionarismo (…) spinge al comunismo di Stato, all’assorbimento di ogni vita locale e individuale nella macchina amministrativa, spinge alla distruzione di ogni libero pensiero. Tutti chiedono di ripararsi sotto l’ala del potere, di vivere a spese della comunità». Gli anarchici a metà Ottocento già avvertono un fenomeno presente in occidente: la mania di sorvegliare, classificare i comportamenti e analizzare al fine di evitare ogni forma di rischio, l’illusione di essere liberi in un ambiente super con-trollato. Essi denunciano aspramente la frode della democrazia rappre-sentativa. «La democrazia è solo un arbitrio costituzionale», dichiara Proudhon, mentre per Bakunin è solo «un gioco di bussolotti» che garantisce un potere permanente ad una élite.

Pierre-Joseph Proudhon, il rivoluzionario austero

Che cos’è la proprietà? La proprietà è un furto!

Questa frase, apparsa nel 1840 in un volumetto di Pierre Joseph Proudhon, diventerà uno dei più efficaci slogan rivoluzionari dell’Ottocento, mentre al suo autore, poco più che trentenne, garantì una certa fama. Le origini e la giovinezza di Proudhon sono importanti per comprendere le sue teorie. Nel corso dei decenni, il rivoluzionario francese, nativo di Besançon, troverà consensi trasversali. Visse tra Lione e Parigi, ma il suo orizzonte morale e politico rimase sempre quello del giovane puritano di provincia, sdegnato e inorridito dal lusso, dalla stravaganza e dalla corruzione della metropoli, questo centre de luxe et de lumières. La sua famiglia, di origine contadina, si stava inserendo nel ceto medio urbano e per questo Marx, prese a chiamarlo un “piccolo borghese” (come era lui del resto…). Suo padre dopo aver lavorato come bottaio, si era dato alla fabbricazione e allo smercio della birra nel capoluogo; ma non ebbe molta fortuna negli affari e la famiglia attraversò periodi frequenti di miseria. La madre invece, incarnava l’ideale contadino di frugalità e indipendenza, che dovette suggerire molte idee del figlio circa la società futura.
Delle sue origini, Proudhon era orgoglioso: «I miei avi erano contadini indipendenti, celebri per la loro audacia nel resistere alle pretese dei signori…Sono nobile io». La sua concezione del mondo, rimase fino all’ultimo di tipo rurale; la società ideale, composta di contadini solidi, liberi e autosufficienti. Nei suoi scritti, come in quelli di tanti anarchici successivi, corre una vena continua di nostalgia per le virtù scomparse (e spesso immaginarie) di una società semplice e agreste, quale esisteva prima che le macchine e i falsi valori di banchieri e industriali la deturpassero.


Proudhon era quello che oggi si definirebbe un self made man, e i suoi scritti traboccano di squarci disordinati ed imprevisti di cultura non sistematica. Prima fu un bovaro, poi divenne un’apprendista tipografo (mestiere che produrrà in futuro un nutrito ceppo di anarchici seri e riflessivi). Proudhon imparò il greco e il latino e lesse un gran numero di libri di filosofia e religione. Infine, nel 1838 vinse una borsa di studio a Parigi che l’accademia di Besançon aveva messo in palio. A questo consesso di accademici dedicò l’opuscolo Q’est-ce que la propriété? (Che cos’è la proprietà?), mentre un secondo libro, apparso due anni prima, sullo stesso argomento, era stato sequestrato per ordine del procuratore di un tribunale locale. Il suo successo e la notorietà procurata dalle diatribe con l’autorità giudiziaria, lo resero celebre e per il resto della vita fu un propagandista e un poligrafo instancabile, un critico spietato della società contemporanea. Come scrisse in un celebre passo del libro sopra citato, si era votato per sempre allo studio dei «mezzi per migliorare le condizioni fisiche, morali e intellettuali, della classe più numerosa e più povera».

Quel volumetto, come altre opere successive, per non parlare del processo intentatogli a Besançon, gli assicurarono una considerevole notorietà nei circoli radicali in Francia e all’estero ma non gli fecero guadagnare denaro. Negli anni che seguirono dovette lavorare per una ditta di trasporti fluviali a Lione e qui poté studiare sul campo i problemi dello scambio e della produzione di beni e servizi, e avere una prima esperienza diretta dei circoli militanti operai. Fece pure ripetute visite a Parigi, dove si stabilì definitivamente nel 1847 e in quegli anni conobbe Marx e Bakunin. I suoi scritti sulla proprietà lo avevano inquadrato come economista radicale; le sue idee erano già discusse largamente; ma lo furono ancor più quando egli le formulò in un’opera filosofica, il “Sistema delle contraddizioni economiche o filosofia della miseria”. Un libro che esprime bene la sua forma mentis; discorsivo, pieno di divagazioni, enciclopedico, che passa da discussioni sull’esistenza di Dio a critiche minuziose dei sistemi di controllo delle nascite, fino ad una concezione puritana del matrimonio e della famiglia.

Proudhon criticava qualunque forma di rigenerazione della società limitata al riordino degli elementi istituzionali: trasferire il potere da un gruppo all’altro, o togliere la proprietà del capitale ai suoi detentori per sostituirli con una nuova consorteria di monopolisti sfruttatori, non serviva a nulla. Egli è quindi avverso tanto alle grandi aziende industriali ipotizzate da Saint Simon come mezzo per abolire la miseria, quanto alla produzione e al consumo di massa nei falansteri ideati da Fourier; non guarda con simpatia né ai progetti di comunità utopistiche in cui tutto è di proprietà comune ma il lavoro è sottoposto a una rigorosa direzione centrale, né d’altra parte, alle dottrine dei liberisti, sulla libera circolazione dei capitali e l’abolizione delle tariffe doganali, pur avendo studiato sugli stessi testi dai quali avevano attinto Smith, Ricardo e Say.
Invece di società basate sull’accumulazione, sulla circolazione di capitale e sull’esercizio di un potere statale centralizzato, Proudhon, convinto federalista, sognava un’organizzazione della società poggiante sul lavoro effettivamente svolto dal singolo, mettendolo in rapporto diretto con i bisogni. Ognuno lavorerà per mantenere sé e la propria famiglia senza produrre un utile per il proprietario o l’imprenditore fannullone.

La proprietà (intesa sia come terra che come capitale) è furto, appunto perché il suo detentore si appropria di ciò che dovrebbe essere liberamente disponibile a tutti: «Sostengo che l’uomo può solo avere il possesso e l’uso, alla condizione permanente che lavori, lasciandogli per intanto la proprietà delle cose che produce». La prima condizione per stabilire un rapporto diretto fra ciò che l’uomo produce e ciò che consuma, è l’abolizione dell’intero sistema d’intermediazione di credito e scambio. Scomparsi i finanzieri, le banche e lo stesso denaro, i rapporti economici dovrebbero ritornare a una sana e naturale semplicità. Nel 1849, lo stesso Proudhon farà un breve e sfortunato tentativo fondando una Banca del popolo, che non avesse capitale né realizzasse profitti, ma in cui i clienti potessero accumulare credito in contropartita di beni consegnati, in modo da scambiare prodotto contro prodotto senza l’intermediazione del denaro.

«Bisogna distruggere la regalità dell’oro», scriverà dopo il fallimento dell’esperimento, «facendo di ogni prodotto del lavoro una moneta corrente». A Parigi, fu attraverso i contatti con gli emigrati tedeschi, che conobbe il pensiero della filosofia tedesca, soprattutto  di Hegel. Un anno dopo la pubblicazione del Sistema, Karl Marx criticò a fondo le teorie economiche di Proudhon, con un libro che parodiando il sottotitolo dell’opera, s’intitolava Miseria della filosofia.
Marx aveva il brutto vizio di celare dietro le divergenze teoriche, una profonda diversità di temperamento. Quando i due si conobbero, Proudhon era già conosciuto, Marx invece, non era altro che un povero e ignoto giornalista radicale. Comprese quanto il francese potesse essergli utile e gli propose di diventare il rappresentante parigino di una rete di corrispondenze organizzate, intese a collegare i socialisti di diversi paesi, primo embrione di quella Internazionale che Marx fonderà molti anni dopo. La proposta non fu accolta con entusiasmo, malgrado l’ammirazione nei confronti del tedesco, Proudhon intuiva quanto sarebbe stato difficile lavorare con lui.
In realtà l’attacco sferrato da Marx fu la conseguenza del tentativo fallito di assicurarsi la collaborazione di Proudhon e, se è vero che il barbuto, fosse migliore come economista e filosofo, avendo molte ragioni di critica nei confronti delle teorie dell’ex amico, non è forse priva di fondamento la risposta di quest’ultimo: «Il vero senso dell’opera di Marx è che egli si dispiace che dappertutto io abbia pensato come lui e l’abbia detto prima di lui».

L’importanza di alcuni scritti di Proudhon non stanno tanto nel loro contenuto teorico, per quanto affascinante e ricco di frasi ad effetto che entreranno nella retorica rivoluzionaria, ma soprattutto per il suo atteggiamento disincantato. Proudhon non crede nelle presunte virtù innate del popolo e della classe operaia, sa bene che ricchi e poveri hanno gli stessi difetti. Dirà, «il cuore del proletario è come quello del ricco, una figura della bollente sensualità, un focolaio della crapula e dell’impostura». La trasformazione delle istituzioni politiche non è sufficiente se non avviene un drastico cambio di mentalità. In altri termini, se le idee di Proudhon sull’organizzazione sociale si basano sulla fede nella possibilità di leggi economiche e sociali razionali, la sua concezione della natura umana tiene conto di tutti quegli elementi irrazionali e passionali che la contraddistinguono. Il nuovo ordine non è un’utopia semplice che si realizza con un impasto di soluzioni tecniche ed idealismo. Proudhon arriverà ad annotare nel suo taccuino queste parole: «Libertà, Eguaglianza, Fraternità!», Io direi piuttosto «Libertà, Eguaglianza, Austerità!». Questo richiamo al sacrificio colpirà non solo i teorici della violenza anarchica ma anche i pensatori della destra politica. Gli aspetti contraddittori della natura umana si riflettono anche nell’opera e nella personalità di Proudhon. La violenza del suo carattere non lo spinse mai a prendere parte attiva alle ribellioni che esploderanno in tutta Europa nel periodo storico in cui visse.

Durante la rivoluzione parigina del 1848 commentò: «Ascolto l’orrore sublime delle cannonate». La violenza è più personale e si esprime in allarmanti rampogne e, sebbene in alcune circostanze, egli contesti persino il diritto della società di punire, altre volte si esprime addirittura in favore della pena di morte. Nella sua vita e nella letteratura è sempre presente un miscuglio di moralismo puritano (soprattutto in campo sessuale) e una propensione alla violenza politica, come parte dell’istinto dell’uomo. Furono tuttavia, le esperienze della rivoluzione del 1848 a concentrare l’attenzione sul problema dell’organizzazione politica ed economica della società fino a formulare il doppio programma che egli stesso riassunse in questa frase: «La nostra idea dell’anarchia è lanciata; il non-governo matura come prima la non-proprietà». Questa duplice negazione del governo e della proprietà fa di Proudhon il primo vero pensatore anarchico.

Sebbene già noto come pubblicista rivoluzionario prima del ’48, egli non aveva mai avuto contatti con organizzazioni politiche attive, se si escludono le poche frequentazioni con il gruppo semiclandestino dei Mutualiste di Lione. Il suo istinto lo rendeva diffidente verso l’azione politica, guardava con scetticismo all’attività dei liberali e dei socialisti, pur tuttavia si gettò nella mischia, partecipando anche alla formazione delle barricate, durante alcune sommosse popolari.
Proudhon era pieno di contraddizioni, da un lato invocava la destituzione di Luigi Filippo e dall’altro criticava il movimento insurrezionale che secondo lui agiva su presupposti errati: invece di attuare una rivoluzione sociale e di procedere ad una radicale trasformazione del regime della proprietà, i politici francesi della Seconda Repubblica non facevano altro che annunciare riforme d’ordine costituzionale e politico.

Deluso dall’esperienza parlamentare, ebbe una reazione di pessimismo e successivamente si impegnò in una furiosa polemica anarchica, assumendo atteggiamenti e posizioni spesso incoerenti. Nel gennaio 1849, un violento attacco contro Luigi Napoleone, da poco eletto Presidente della Repubblica, gli costò un processo per sedizione. Per qualche mese riuscì a sfuggire alla polizia, ma in giugno fu arrestato e scontò tre anni di carcere, anche se in condizioni poco restrittive.
Trascorse il resto della vita come un pubblicista precario, con una reputazione di pensatore indipendente, che né la galera né l’esilio potevano intimidire. Il suo carattere passionale, il tenace rifiuto del compromesso, fecero di lui un giornalista molto popolare, sebbene la considerazione verso Luigi Napoleone fu ambivalente. Con il colpo di stato del 1851 egli salutò positivamente la nuova dittatura napoleonica, forse accarezzando il sogno di aver trovato un despota illuminato o forse un mezzo per sconfiggere i propri nemici e insieme il preludio di una rivoluzione.

Le critiche al sistema democratico, ebbero notevoli effetti sulla reputazione di Proudhon. Negli anni Trenta del Novecento, venne riscoperto da molti autori appartenenti al radicalismo di destra. Lo si è proclamato antenato di Maurras e dell’Action Française e negli anni della seconda guerra mondiale, durante il governo di Vichy con l’occupazione tedesca della Francia, furono molti a scorgere in Proudhon il portavoce del “vero” socialismo francese in antitesi alla variante russa del marxismo. Ecco perché in tanti considerano Proudhon non classificabile come un pensatore progressista in senso stretto per via della sua vena antimoderna e antidemocratica molto accentuata.

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