demagogia è il vocabolo usato dai democratici, quando la democrazia li spaventa (Nicolás Gómez Dávila)

REVOLVER

Mese: Aprile 2024

Conversazioni con James Joyce

 

 

Una fresca sera di primavera, siamo ad aprile del 1921. Arthur Power, giovane pittore e critico d’arte d’origine irlandese, incontra James Joyce al Bal Bullier di Parigi, dove stava festeggiando l’accordo con Sylvia Beach per la pubblicazione dell’Ulisse.

Nel decennio della loro amicizia, tra il 1921 ed il 1931, Power riuscì ad instaurare con Joyce una confidenza incentrata soprattutto sui temi letterari. Cinquant’anni dopo, nel 1974, vie-ne pubblicato un libro, , edito da Millington che uscirà in versione italiana solo nel 1980, con un’edizione curata da Editori Riuniti.
Si tratta di una rara intervista al grande scrittore irlandese, notoriamente insofferente a giornali e riviste, colto nella dimensione di una vita quotidiana molto semplice con un unico vizio: i ristoranti costosi dove gli piaceva mangiare.

Joyce viveva nella solitudine del suo appartamento con una scrivania ingombra di libri, appunti manoscritti e giornali. Era immerso in un perenne flusso di idee ed assorbito dal pensiero costante dei suoi scritti e delle opere da preparare. Power descrive la mente di Joyce costantemente impegnata su aspetti così rilevanti da escludere tutto il resto: il comporta-mento dell’uomo e il suo ambiente, con la prospettiva tipica di un dublinese.

“Chi avrebbe pensato che quell’uomo esile – scrive Power – dal fisico delicato, con quel viso liscio da impiegato, la barbetta a punta, quegli occhiali spessi, che davano un aspetto vitreo ai suoi deboli occhi, fosse il personaggio più rivoluzionario in questa epoca di rivoluzioni artistiche? Mi resi conto davvero che aveva molto del ribelle feniano: la stoffa scura del vestito, l’ampio cappello, il comportamento schivo, l’espressione intensa, proprio come un cospiratore letterario che fosse deciso a distruggere le strutture culturali, rispettabili ed oppressive, nelle quali eravamo stati educati e che allora si stavano sgretolando”.

Il libro di Power descrive un Joyce pervaso dalla volontà di mettere in discussione il mestiere dello scrittore in uno sforzo costante teso a ricomporre la frattura tra arte e vita, come cercherà di sviluppare in tutta la sua opera. È lo spirito di irrequietudine che troviamo nel romanzo autobiografico Dedalus, dove il protagonista è una sorta di paradigma dell’artista. E proprio in questa difficile mescolanza tra personaggio reale e ideale che sta la sua ricchezza.
Fin dalla prima conversazione, Power gli sottopone un problema: bisogna intendere la letteratura come fatto o come arte? Due risposte che Joyce riunisce, facendo un passo avanti: “Dovrebbe essere la vita e una delle cose che da giovane non riuscivo ad accettare era la differenza che riscontravo tra vita e letteratura”.
Non sono entrambe una forma di ebrezza? – incalza Power – non bisogna “essere sempre ubriachi, come si esprime Rimbaud, ubriachi di vita? Non è questo l’artista?”

“Questo è l’aspetto emotivo – dice Joyce – ma c’è anche l’approccio intellettuale, che disseziona la vita ed è quello che ora mi interessa di più, scendere giù fino a quel residuo di verità della vita, invece di gonfiarlo di romanticismo che è atteggiamento fondamentalmente falso. In Ulisse ho cercato di far nascere la letteratura dalla mia esperienza e non dalla formazione di un’idea preconcetta, o da un’emozione temporanea. […]

L’immaginazione e l’istinto sessuale – aggiunge più avanti – sono qualità eterne, mentre “la vita secondo regola” cerca di reprimerle, ma da questo conflitto nasce la sensibilità moderna.
L’invisibile che Joyce va delineando nelle Conversazioni si nutre di mistero, energie latenti e forze oscure: silenzio ed esilio, desiderio e violenza. Ne abbiamo testimonianza diretta in un’altra affermazione: “La vita è un problema complicato. È senza dubbio piacevole e lusin-ghiero vederla presentata in forma lineare, come presumono i classici, ma […] la letteratura classica rappresenta la luce diuturna della personalità umana, mentre la letteratura moderna si interessa al crepuscolo”.

Joyce scrive e affonda le mani nei fatti, nella realtà; si muove tra le ombre e le contraddizioni umane, al buio; affronta il rischio delle complessità sotterranee. La sua prosa non si are-na sulla distinzione tra fatto o arte – come se uno escludesse l’altra – ma diviene l’arte di descrivere i fatti della vita o, anche, la descrizione dell’arte di vivere. Joyce si sforza di de-scrivere sempre la sottile mescolanza tra vita reale e letteratura come forma di descrizione della vita.

Dice Joyce:
“In Ulisse ho cercato di mantenermi aderente ai fatti. C’è naturalmente dell’umorismo, perché la posizione dell’uomo in questo mondo, benché sia fondamentalmente tragica, può anche essere comica. La disparità tra ciò che si vuol essere e ciò che si è, risulta senza dubbio ridicola”.

Il contrasto e la dissociazione tra gli accadimenti che si affastellano sull’uomo e la sua rea-zione ad essi è il materiale dello scrittore. Ulisse è dunque l’uomo dell’esperienza che affronta la discesa agli inferi con l’arma dell’umorismo: una sola giornata – il Bloomsday – diventa la trama di uno sconfinato monologo interiore. Le vicende del libro si sviluppano tra le otto del 16 giugno 1904 (il giorno in cui Joyce incontrò Nora Barnacle, la sua futura compagna di vita) e le prime ore del giorno seguente, e tratta di persone ordinarie ritratte in un giorno di vita ordinario.
Joyce regalò una delle prime copie del libro al cameriere del suo ristorante preferito a Pari-gi. Gli interessava molto di più il punto di vista della gente comune rispetto a quello dei critici di professione. In questo senso, oltre alla complessità degli argomenti, Ulisse non è un uomo, ma ha l’ambizione di descrivere l’umanità. Un racconto di pura esistenza in cui ogni lettore può disegnare e vedervi la propria vita.

Per gli amici

Il dispotismo delle minoranze lamentose

Viviamo un periodo storico dove lentamente si impone una tirannia delle minoranze, vere o false che siano, nuove piccole e aggressive lobby sessuali, etniche, religiose, si sono impossessate di una “mandato sociale” e lo esercitano arbitrariamente in nome e per conto di una società civile, espressione di copertura di una miriade di gruppi che rivendicano la difesa e il riconoscimento di capricci individuali spacciati per diritti.

Gli acronimi LGBTQ, LGBTQI, LGBTQIA, LGBTQIA+, LGBTQQIA+ sono oggi utilizzati per designare sinteticamente l’insieme delle minoranze sessuali, cioè tutte le persone che per orientamento sessuale, identità e/o espressione di genere, caratteristiche anatomiche, non aderiscono agli standard del binarismo dell’eterosessualità – ossia alla netta divisione della specie umana in maschi e femmine, con corrispondenza dell’identità di genere al sesso biologico e, con desiderio verso le persone di sesso opposto al proprio. L’uso di queste sigle conferisce coesione ai movimenti e alle comunità delle minoranze sessuali, veicolando l’idea che esse abbiano esigenze comuni, tanto da costituire un unico gruppo sociale.

La storia ci chiama

L’attuale congiuntura geopolitica apre delle finestre di opportunità, ma per coglierle dobbiamo mutare il nostro rapporto con il mondo e smetterla di pensarci destinati all’eteronomia. Le intemperie del presente ci obbligano a pensare diversamente, cullati da troppi decenni sulla certezza che a garantire la nostra sicurezza sarebbe stato qualcun altro, specialmente l’amico americano, adesso che la superpotenza si sta lentamente disimpegnando in certe aree, tocca a noi cambiare mentalità. Essere “amici di tutti e nemici di nessuno”, ci condanna a una rassicurante irrilevanza. L’Italia produce ancora un pensiero tattico-strategico?

La domanda non riguarda qualcosa di astratto. Occorre interrogarsi su come la nazione si muove nell’arena internazionale, specialmente nel Mediterraneo. La strategia non è un elemento arbitrario, non va creata ex novo, ma è data dalla combinazione di vari fattori che rispondono a una necessità: cosa fare per sopravvivere a partire dall’elemento geografico. L’Italia deve cercare di aumentare la sua profondità difensiva, influenzare di più i territori limitrofi per evitare che altre potenze li utilizzino per attaccarci o più realisticamente, costringerci a muoverci in una determinata direzione. A che punto siamo?

La cifra dell’attuale momento politico si caratterizza per la mancanza di certezze. Gli Stati Uniti, potenza sovraestesa e in preda a una sconvolgente crisi d’identità, sembra non essere più disposta a fare il gendarme del mondo occidentale, almeno non nella misura in cui siamo stati abituati negli ultimi decenni. Washington chiede a tutti gli alleati di assumersi maggiori responsabilità, si sgancia gradualmente da alcune zone del pianeta e si occupa del dilemma principale: come gestire contemporaneamente le tensioni con la Russia in Europa e quelle con la Cina nell’Indo-Pacifico, con i suoi strateghi convinti che la partita più importante e decisiva sia quest’ultima.

Intanto l’Europa, frastornata dinnanzi alla guerra russa contro l’Ucraina iniziata il 22 febbraio 2022, è sotto attacco su più fronti e mostra più di una crepa tra ripensamenti e riposizionamenti delle nazioni più forti che la compongono.

In Germania le difficoltà si avvertono: la rottura traumatica del vincolo con la Russia mette Berlino in una situazione complicata, tra svolte epocali annunciate ma senza quel ritmo veloce che l’epoca impone. La Francia ha perso quote di potere in Africa e probabilmente la Françafrique è più un richiamo romantico all’interno di una grandeur che resiste ma si indebolisce. In estrema sintesi, siamo in quella che si definirebbe una fase di transizione egemonica. Il vecchio sistema è ancora lì e il nuovo ordine fatica a prendere forma.

Da quando sono state inventate la morale e la polvere da sparo…

 

“Da quando sono state inventate la morale e la polvere da sparo, il principio della selezione naturale è andato sempre più perdendo il suo significato per il singolo. Si può seguire con precisione il modo in cui il significato di questo principio è stato gradatamente attribuito all’organismo dello Stato che, sempre più privo di scrupoli, limita le funzioni del singolo a quelle di una cellula specializzata.

Già da molto tempo un individuo non conta più per il valore che possiede di per sé, ma solo per quello che gli appartiene in relazione allo Stato. Attraverso la sistematica eliminazione di tutta una serie di valori di per sé molto significativi, vengono generati uomini che, da soli, non sarebbero più capaci di vivere. Lo Stato originario, in quanto somma di forze pressoché equivalenti, possedeva ancora la capacità di rigenerare forme di vita elementari: se veniva scisso, le singole parti ne pativano un danno minimo. Presto si ritrovavano per ricostituire nuove forme di connessione e creavano nella figura del capo il loro centro fisico, in quella del mago il loro centro spirituale.

Una grave lesione dello Stato moderno, invece, minaccia anche l’esistenza di ogni singolo individuo, almeno di coloro che non vivono direttamente delle risorse del suolo e dunque della maggior parte. Ogni comunità costituita da uomini affidati gli uni agli altri si sviluppa secondo le leggi della natura organica”.

 

(estratto da Ernst Jünger – Il Tenente Sturm)

chi sceglie la libertà…

Chi sceglie la libertà, sceglie il deserto

(Carmelo Bene)

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