In questi anni la discussione sulle classi dirigenti ha avuto grande popolarità e alcuni analisti si sono spinti a teorizzare uno scontro tra élite e popolo per decifrare i cambiamenti della politica. È una visione troppo semplice e convenzionale perché come i classici del pensiero ci ricordano, a governare è prima di tutto, la dura legge delle oligarchie. Di solito un ciclo finisce e un altro comincia e le fasi di transizione, brevi o lunghe che siano, sono sempre intricate.
La storia è “un cimitero delle aristocrazie” scriveva Vilfredo Pareto ed il tempo, si è incaricato di dimostrare la ragionevolezza dell’assunto. La legge di conservazione della massa fisica parte dall’assunto di Lavoisier che spiegava come nelle reazioni chimiche “nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si trasforma”. In politica vale lo stesso ed è arduo comprendere le nuove forme del mutamento. Certamente, una nuova “aristocrazia venale” sta prendendo il controllo dentro il sistema del capitalismo della sorveglianza. Al suo interno esistono posizioni e orientamenti diversi sui percorsi della globalizzazione ma resta intatta un’unità di fondo.
Molti miti dell’ordine politico occidentale sono caduti o sono stati sfatati dalla storia negli ultimi trent’anni. La crisi finanziaria del 2008 ha certificato che molte cose non stavano funzionando. Il rapporto tra popolo e istituzioni è deteriorato in buona parte dell’occidente: i tradizionali partiti interclassisti maggioritari sono finiti sotto l’assedio delle forze politiche e dei movimenti più capaci di intercettare malessere, rabbia e paura. L’instabilità politica è la cifra caratterizzante di molte democrazie e mentre si correva ai ripari per capire cosa non funzionasse nel popolo, ben presto si è compreso che qualcosa era andato in cortocircuito nelle alte sfere della società.
Il “cosmopolita globale”, architetto del sovranazionalismo e del linguaggio politicamente corretto assiste alla lenta erosione della propria legittimità. Il progetto dell’uomo sovranazionale, felice e giusto perché integrato, tollerante, multietnico e globale scricchiola dapprima sotto i colpi dell’instabilità economica e poi sotto il fuoco incrociato di migliaia di outsiders delusi e amareggiati.
Quel che oggi si rappresenta come establishment è quell’individuo che lo studioso Michael Lind definisce anywhere (ovunque), il quale grazie alla sua formazione internazionale e alla sua mentalità globale può vivere e lavorare ovunque, senza patria né tradizione. Può scansare la comunità d’origine e costruire la propria vita in metropoli extraterritoriali o in quartieri blindati, dove incrocia quasi esclusivamente i suoi simili. Fuori da questo spazio privilegiato, poco distante dal centro delle metropoli o dispersa in tante periferie, c’è la classe dei lavoratori, i somewhere (da qualche parte). Sono ancorati a un modello e una forma mentis “tradizionale”, secondo la definizione del ceto progressista, vivono nelle province, credono maggiormente nella famiglia, nella proprietà immobiliare e coltivano miti popolari. Non sono semplicemente “poveri”, artigiani e piccoli imprenditori sono forse più ricchi di qualche creativo patinato, ma diversa è la loro cultura.
Siamo entrati nell’era della delegittimazione politica e culturale degli anywheres, la gran parte della popolazione radicata sui territori prova a dare fiducia e consenso a quei leader e movimenti politici che interpretano meglio la rivolta dei somewheres. Lind nel libro dal titolo emblematico “The New Class War” spiega come il sistema premi il merito solo se ci sono determinate condizioni di partenza e se l’individuo è disposto ad accettare i valori del ceto tecnocratico fatto di identità blanda, diritti individuali, mobilità lavorativa ed ecologismo come posa intellettuale. L’ideologia della classe tecnocratica è un’ipocrita sintesi di individualismo esacerbato e ammaestramento autoritario. Sfumano le diversità e si afferma la “mediocrazia”. Il soggetto che vuole farsi tecnocrate deve slegarsi da ogni legame comunitario, accettare le “cose buone e giuste” della classe tecnocratica e disprezzare quello che sta fuori. Lind ipotizza una nuova forma di lotta di classe, tra globalizzati e radicati. Una collisione tra anywhere e somewhere . Sarà così?
A nostro avviso, lo scontro lascia inalterati i rapporti di produzione capitalistici, base di tutte le dinamiche sociali e li trasferisce solo su un altro piano simbolico quello della rete digitale.
Il futuro disegnato dalle élite ha smesso di funzionare e sedurre. Il fuoco sotto la cenere del conflitto politico è divampato mostrando diverse fiamme: nazionalismo, sovranismo, comunitarismo, socialismi vari. Il regno depoliticizzato della tecnocrazia europea è finito sotto il mirino dei cittadini adirati, il processo di integrazione sempre più stretta tra paesi europei, la dottrina economica che lo sottende, non sono più qualcosa di indiscutibile.
Torniamo alla domanda iniziale: chi sta lentamente scalzando la vecchia élite indebolita? Sicuramente la nuova oligarchia digitale che concentra la maggioranza del capitale e scatena forze difficili da contenere. In contrapposizione dovrebbe formarsi una classe politica-economica in grado di sovvertire la mentalità che ha dato forma e sostanza a questa globalizzazione: idee liberiste troppo spinte e un approccio etico troppo aperto.
Non tutte le nuove forze in campo hanno mostrato idee chiare e un profilo definito con cui intendono sostituire il vecchio, né la strategia per attraversare il XXI secolo. Riportare la politica in una dimensione territoriale, comprendere che la contrapposizione è tra grandi sistemi-civiltà, addomesticare il capitalismo, individuare nuove forme di cooperazione municipale, sono sfide che non si affrontano con la testa rivolta al passato, al bel tempo che fu, se mai c’è stato e tantomeno con qualche slogan rassicurante. Lagnarsi è facile, diventare avanguardia è difficilissimo.
Il politologo americano Samuel Huntington scriveva: “se le élite istituzionalizzate non competono tra loro per organizzare le masse, saranno le élite dissidenti ad organizzarle per rovesciare il sistema. Nel mondo che si modernizza, chi organizza la politica controlla il futuro”.