demagogia è il vocabolo usato dai democratici, quando la democrazia li spaventa (Nicolás Gómez Dávila)

REVOLVER

Mese: Novembre 2020

La lunga transizione

 

In questi anni la discussione sulle classi dirigenti ha avuto grande popolarità e alcuni analisti si sono spinti a teorizzare uno scontro tra élite e popolo per decifrare i cambiamenti della politica. È una visione troppo semplice e convenzionale perché come i classici del pensiero ci ricordano, a governare è prima di tutto, la dura legge delle oligarchie. Di solito un ciclo finisce e un altro comincia e le fasi di transizione, brevi o lunghe che siano, sono sempre intricate.

La storia è “un cimitero delle aristocrazie” scriveva Vilfredo Pareto ed il tempo, si è incaricato di dimostrare la ragionevolezza dell’assunto. La legge di conservazione della massa fisica parte dall’assunto di Lavoisier che spiegava come nelle reazioni chimiche “nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si trasforma”. In politica vale lo stesso ed è arduo comprendere le nuove forme del mutamento. Certamente, una nuova “aristocrazia venale” sta prendendo il controllo dentro il sistema del capitalismo della sorveglianza. Al suo interno esistono posizioni e orientamenti diversi sui percorsi della globalizzazione ma resta intatta un’unità di fondo.

Molti miti dell’ordine politico occidentale sono caduti o sono stati sfatati dalla storia negli ultimi trent’anni. La crisi finanziaria del 2008 ha certificato che molte cose non stavano funzionando. Il rapporto tra popolo e istituzioni è deteriorato in buona parte dell’occidente: i tradizionali partiti interclassisti maggioritari sono finiti sotto l’assedio delle forze politiche e dei movimenti più capaci di intercettare malessere, rabbia e paura. L’instabilità politica è la cifra caratterizzante di molte democrazie e mentre si correva ai ripari per capire cosa non funzionasse nel popolo, ben presto si è compreso che qualcosa era andato in cortocircuito nelle alte sfere della società.

Il “cosmopolita globale”, architetto del sovranazionalismo e del linguaggio politicamente corretto assiste alla lenta erosione della propria legittimità. Il progetto dell’uomo sovranazionale, felice e giusto perché integrato, tollerante, multietnico e globale scricchiola dapprima sotto i colpi dell’instabilità economica e poi sotto il fuoco incrociato di migliaia di outsiders delusi e amareggiati.

Quel che oggi si rappresenta come establishment è  quell’individuo che lo studioso Michael Lind definisce anywhere (ovunque), il quale grazie alla sua formazione internazionale e alla sua mentalità globale può vivere e lavorare ovunque, senza patria né tradizione. Può scansare la comunità d’origine e costruire la propria vita in metropoli extraterritoriali o in quartieri blindati, dove incrocia quasi esclusivamente i suoi simili. Fuori da questo spazio privilegiato, poco distante dal centro delle metropoli o dispersa in tante periferie, c’è la classe dei lavoratori, i somewhere (da qualche parte). Sono ancorati a un modello e una forma mentis “tradizionale”, secondo la definizione del ceto progressista, vivono nelle province, credono maggiormente nella famiglia, nella proprietà immobiliare e coltivano miti popolari. Non sono semplicemente “poveri”, artigiani e piccoli imprenditori sono forse più ricchi di qualche creativo patinato, ma diversa è la loro cultura.

Siamo entrati nell’era della delegittimazione politica e culturale degli anywheres, la gran parte della popolazione radicata sui territori prova a dare fiducia e consenso a quei leader e movimenti politici che interpretano meglio la rivolta dei somewheres. Lind nel libro dal titolo emblematico “The New Class War” spiega come il sistema premi il merito solo se ci sono determinate condizioni di partenza e se l’individuo è disposto ad accettare i valori del ceto tecnocratico fatto di identità blanda, diritti individuali, mobilità lavorativa ed ecologismo come posa intellettuale. L’ideologia della classe tecnocratica è un’ipocrita sintesi di individualismo esacerbato e ammaestramento autoritario. Sfumano le diversità e si afferma la “mediocrazia”. Il soggetto che vuole farsi tecnocrate deve slegarsi da ogni legame comunitario, accettare le “cose buone e giuste” della classe tecnocratica e disprezzare quello che sta fuori. Lind ipotizza una nuova forma di lotta di classe, tra globalizzati e radicati. Una collisione tra anywhere e somewhere . Sarà così?

A nostro avviso, lo scontro lascia inalterati i rapporti di produzione capitalistici, base di tutte le dinamiche sociali e li trasferisce solo su un altro piano simbolico quello della rete digitale.

Il futuro disegnato dalle élite ha smesso di funzionare e sedurre. Il fuoco sotto la cenere del conflitto politico è divampato mostrando diverse fiamme: nazionalismo, sovranismo, comunitarismo, socialismi vari. Il regno depoliticizzato della tecnocrazia europea è finito sotto il mirino dei cittadini adirati, il processo di integrazione sempre più stretta tra paesi europei, la dottrina economica che lo sottende, non sono più qualcosa di indiscutibile.

Torniamo alla domanda iniziale: chi sta lentamente scalzando la vecchia élite indebolita? Sicuramente la nuova oligarchia digitale che concentra la maggioranza del capitale e scatena forze difficili da contenere. In contrapposizione dovrebbe formarsi una classe politica-economica in grado di sovvertire la mentalità che ha dato forma e sostanza a questa globalizzazione: idee liberiste troppo spinte e un approccio etico troppo aperto.

Non tutte le nuove forze in campo hanno mostrato idee chiare e un profilo definito con cui intendono sostituire il vecchio, né la strategia per attraversare il XXI secolo. Riportare la politica in una dimensione territoriale, comprendere che la contrapposizione è tra grandi sistemi-civiltà, addomesticare il capitalismo, individuare nuove forme di cooperazione municipale, sono sfide che non si affrontano con la testa rivolta al passato, al bel tempo che fu, se mai c’è stato e tantomeno con qualche slogan rassicurante. Lagnarsi è facile, diventare avanguardia è difficilissimo.

Il politologo americano Samuel Huntington scriveva: “se le élite istituzionalizzate non competono tra loro per organizzare le masse, saranno le élite dissidenti ad organizzarle per rovesciare il sistema. Nel mondo che si modernizza, chi organizza la politica controlla il futuro”.

Il rapporto tra sapere politico e competenza tecnica

In questi tempi difficili, dove si accende lo scontro tra “esperti”, torna alla ribalta il tema del rapporto tra competenza tecnica e sapere politico. Il problema non può essere descritto con semplificazioni. Mettiamo da parte la dura realtà, il livello rasoterra di buona parte della classe dirigente e riportiamo la discussione nella giusta direzione.
Aristotele, Weber, Schmitt, Pareto e altri pensatori, nelle loro elaborazioni teoriche hanno sempre precisato come la politica abbia il compito di prendere decisioni di carattere generale sugli obiettivi e i valori della comunità. La competenza tecnica è richiesta per questioni particolari, dove è richiesta l’applicazione di un sapere specifico, mentre tempi, modi spettano alla politica che per definizione non può essere imbrigliata in una conoscenza tecnica perché attinge a quello che Max Weber definì il politeismo dei valori.

A partire dal Diciottesimo secolo, con l’accrescersi dei diritti e della rappresentanza degli interessi particolari e con il rapido processo di innovazione e industrializzazione, la politica si è mossa su due livelli: da una parte le decisioni prese dai governanti e dall’altro lo sviluppo di una burocrazia neutrale con il compito di tradurre in pratica l’indirizzo politico. I burocrati, infatti, non scelgono, ma applicano il proprio sapere indipendentemente da quale sia la decisione della politica, non possono e non dovrebbero, anche se a volte lo fanno, oltrepassare quel limite. Come ha spiegato Pareto, la tecnica elimina forse il problema della competenza, ma non quello della decisione a carattere generale e della rappresentanza di interessi.
La politica è il regno della decisione, mentre la burocrazia è il dominio della competenza. Le decisioni generali prese da governo e parlamento vengono tradotte dalla burocrazia in norme di dettaglio che riguardano gli interessi in gioco.

Il politico deve scegliere l’orizzonte della società, indicare la direzione, ordinare valori e preferenze. La tecnica è neutrale, si nutre di dettagli e specializzazioni, la politica pensa alla dimensione più vasta. Tecnici e politici non sono assimilabili, le continue sovrapposizioni dei ruoli, sono causa di decadimento della funzione politica.
L’epistocrazia, il governo dei sapienti, è un’utopia affascinante originata dal “governo dei filosofi” di Platone o nelle visioni della Nuova Atlantide di Francis Bacon. Portare la decisione politica all’interno di una dimensione tecnocratica significa depotenziarla, si riduce il potere di controllo e si rischia di formare classi dirigenti sempre più tentate ad imporre una pedagogia massificante.

Felice Beato, fotografo e avventuriero

 

Il 2 febbraio 1870 il Japan Weekly Mail di Yokohama pubblicava un curioso annuncio: “Signor F.Beato, “ha il piacere di annunciare al pubblico di Yokohama e ai viaggiatori in visita in Oriente di avere appena completato una bella collezione di album di varie dimensioni, con la descrizione delle scene, degli usi e dei costumi della gente; realizzato dopo aver visitato tutti i luoghi più interessanti del Paese durante un soggiorno di sei anni”. In basso, l’indirizzo dello studio fotografico dove acquistare i souvenir.

Felice Beato era un veneziano con passaporto britannico, un gaudente pieno di talento, il precursore di un’arte che ha cambiato il mondo di vedere il mondo. Nato nel 1832, in Giappone dal 1863, di professione fotoreporter di guerra, uno dei primi al mondo in un’epoca nella quale la tecnica fotografica muoveva i primi passi. Avventuriero, giocatore d’azzardo, Beato è uno dei tanti le cui vite furono segnate dall’epopea bella e dannata dell’espansione coloniale inglese.

Nessuna biografia ufficiale, non ha lasciato diari o corrispondenze che possano aiutarci a cogliere pienamente la sua personalità. Anne Lacoste, curatrice nel 2010 di una mostra fotografica sulle sue opere presso il Getty Museum di Los Angeles ha confermato questo difficoltà, stesso discorso fatto dallo scrittore Sebastian Dobson: “Beato è un soggetto al tempo stesso interessantissimo e frustrante: le fonti primarie scarseggiano”.

La storia del veneziano può essere ricostruita per lo più attraverso la sua attività di fotografo e viaggiatore. Quanto sappiamo di lui è spesso desunto da lettere e citazioni di personaggi che l’hanno conosciuto e ci raccontano qualche aneddoto.

 

Nella piccola comunità straniera di Yokohama era diventato un personaggio in vista. Amante della compagnia e del buon cibo, racconta il capitano Sydney Henry Jones-Parry che lo aveva conosciuto durante la guerra in Crimea e ritrovato dopo una sosta a Yokohama. Beato dopo averlo insistentemente invitato presso il club che gestiva, gli aveva fatto conoscere degli amici. “Sono stato presentato a un russo come uno che ha trucidato centinaia di suoi connazionali a Sebastopoli e insieme abbiamo concordato che bere buon champagne con Beato fosse meglio che combattere in Crimea”.

Questo è uno dei tanti aneddoti che aiutano a dissipare la nebbia che avvolge la vita del fotografo che sappiamo da ragazzo visse a Corfù e nel 1844 era con la famiglia a Costantinopoli dove c’è stata la prima importante svolta della sua vita. In mezzo all’opulente decadimento dell’Impero Ottomano, Felice Beato aveva conosciuto l’inglese James Robertson, impiegato alla Zecca imperiale turca che si dilettava nella fotografia.  Tra i due si consolida un’amicizia rafforzata dal matrimonio della sorella di Beato con l’inglese. Felice, insieme al fratello Antonio, iniziano come apprendisti nello studio fotografico del cognato che si trovava a Pera, il quartiere fondato dai mercanti genovesi e frequentato dagli occidentali, dove aveva sede il distretto finanziario della capitale.

Negli anni ‘50 dell’Ottocento cominciano una serie di viaggi in Grecia, a Malta e a Gerusalemme. Ormai l’Oriente era tornato a suscitare il fascino per molti europei e se nei decenni passati erano i pittori a descrivere e riprodurre quei luoghi fantastici, adesso con la fotografia i ricchi europei potevano avere un’istantanea di quelle terre senza lasciare il salotto di casa.

La svolta nella carriera di Beato arriverà con il conflitto in Crimea, iniziato nell’ottobre del 1853 che vedeva contrapposta la Turchia sostenuta da Francia e Inghilterra e la Russia imperiale.

Robertson e soci, di base a Costantinopoli, aveva colto l’occasione per trasformarsi da semplici ritrattisti a testimoni della Storia. Nel 1855 Felice era a Balaklava, e lì assistette alla caduta di Sebastopoli, documentando le devastazioni della guerra. Mentre le immagini turistiche erano tutte folclore e monumenti, la fotografia di guerra si rivolgeva soprattutto ai soldati sopravvissuti e ai loro ricordi drammatici.

Forti dell’apprendistato ricevuto, Felice e il fratello Antonio, decideranno di affrancarsi dalla tutela di Robertson. Il primo parte verso l’India, dove giunge nel 1858 a Calcutta. Visiterà Dehli, Benares e Agra, ammirerà le grandi opere del passato, ad Amristar, sarà il primo a immortalare il Palazzo Perduto che all’epoca era ancora un edificio religioso prima di essere convertito a funzioni civili dagli inglesi. Nel periodo indiano si troverà coinvolto in qualche rivolta, sempre a stretto contatto con i militari britannici, si spingerà verso zone dove si stavano accendendo i nuovi conflitti.

In Cina, la dinastia Qing aveva tentato di bloccare l’offensiva commerciale degli occidentali, con una politica di restrizioni. A parte Macao sotto controllo portoghese, gli scambi marittimi erano consentiti solo attraverso il porto di Canton. Un’Europa ingorda di tè, porcellane e sete aveva scarse opportunità di piazzare sul mercato cinese i suoi prodotti. Con un gioco politico fatto di pressioni, i Britannici avevano deciso di esportare grandi quantità di oppio indiano in Cina e, quando le autorità di Pechino inasprirono i divieti sulla droga, la prima guerra dell’oppio fu inevitabile. Il Celeste Impero ne fu colpito duramente, dovette cedere Hong Kong alla Gran Bretagna e aprire il porto di Shanghai. Quando Felice Beato era con gli inglesi in Cina nel 1860, anche la seconda guerra dell’oppio stava terminando e l’altra sconfitta cinese permise agli occidentali di ottenere risarcimenti e la libera circolazione nel territorio.

Durante questa spedizione, Beato scattava le prime fotografie della Pechino imperiale. Il reportage di guerra attestava la maturità professionale raggiunta ma anche la sua crescente capacità di realizzare foto sempre più scenografiche. Tutto ciò non bastava, era necessario allargare la clientela ed è così che decise di contattare Henry Hering, uno dei maggiori fotografi inglesi dell’epoca con studio in Regent Street, a Londra, al quale offriva 400 immagini da stampare e vendere al pubblico di massa.

Nello stesso periodo, entrava in contatto con un’altra persona importante nella sua vita: Charles Wirgman, artista e illustratore anch’egli al seguito delle truppe britanniche, con il compito di documentare i conflitti per The Illustrated London News.

Mentre Beato era a Londra per vendere le sue foto, Wirgman decise di recarsi in quel misterioso Giappone che solo da qualche anno aveva aperto le porte ai primi gaijin (stranieri) e forse, su suo invito che Beato decide di raggiungerlo, imbarcandosi su un nave che dopo alcune tappe intermedie lo farà sbarcare a Yokohama nel 1863. Qui Wirgman, allegro e buontempone aveva fondato il The Japan Punch, il primo giornale nipponico di lingua inglese, ricco di caricature e cronache umoristiche. I due fotografi diventarono soci d’affari. Della Beato e Wirgman, Artists & Photographers si ha notizia già dal 1864, su un bollettino pubblicato a Hong Kong.


Il Giappone si presentava agli occhi dei primi viaggiatori occidentali in tutta la sua esotica maestosità, accentuata anche dalla presenza di figure originali e insolite per ruoli, costumi e abbigliamento. In un terra ancora diffidente nei confronti dei ritratti fotografici – si temeva che l’apparecchio potesse sottrarre all’individuo l’ombra e l’anima – Beato era in grado di riuscire a muoversi tra la gente, conquistando la fiducia di geishe, mercanti, venditori di sake, suonatori ambulanti e monaci. Non fu tutto semplice, non mancarono i pericoli e i tentativi di aggressione.

Le foto di Beato hanno un valore storico ed etnografico notevole, testimoniano lo stile di vita del Giappone della seconda metà dell’Ottocento. Stimolato e pieno di meraviglia, aveva reclutato alcuni disegnatori nel suo studio per aggiungere una leggera colorazione alle sue immagini. Molte foto avevano la perfezione formale di un quadro e lasciavano intuire un lungo allestimento di una scenografia a partire dalla scelta della posa più appropriata.

Negli anni la sua attività proseguirà tra alti e bassi, neanche l’incendio del 1866 che devastò il suo archivio lo fece scoraggiare. Nuove idee come gli album personalizzati per i viaggiatori che visitavano il Giappone gli consentirono di ottenere soddisfazioni e buoni risultati economici, tanto da investire in altri settori come il riso, la seta e l’argento. Beato resterà in Giappone ancora parecchi anni fino al 1877 quando cedette lo studio e l’archivio al fotografo austriaco Raimund von Stillfried. Ormai la concorrenza era agguerrita.

Nuovi viaggi lo porteranno a Mandalay e a Ragoon, in Birmania, dove si dedicherà al mercato dell’antiquariato. Poi nel 1885 in Sudan al seguito di un’altra spedizione britannica. Dopo quest’esperienza abbiamo informazioni vaghe, sappiamo di un suo arrivo in Italia dove sulla base dei documenti ritrovati qualche anno fa, sarebbe morto a Firenze il 29 gennaio 1909.

Gli accelerazionisti: chi sono, cosa vogliono e perché vanno presi sul serio

Negli anni Sessanta la parola “accelerazionista” si riferiva a un gruppo di rivoluzionari che voleva trasformare la mentalità con la quale la società approcciava alla tecnologia. A ispirarli, un romanzo di fantascienza, Lord of Light di Roger Zelazny, pubblicato nel 1967.

Molti anni dopo a riprendere quel termine, sarà Benjamin Noys analizzando le teorie eccentriche di Nick Land, filosofo e animatore del CCRU, Cybernetic Culture Reserach Unit che a partire dal 1995 si riuniva all’Università di Warwick in Inghilterra. Il gruppo informale si occupava soprattutto di intelligenza artificiale e dell’impatto dominante della tecnica sugli individui. I resoconti delle riunioni e delle conferenze del CCRU sembrano usciti da un romanzo: musica elettronica, proiezioni, anfetamine in un clima poco accademico. Quell’esperienza durerà qualche anno tra confronti dialettici e rotture insanabili, ma quelle idee non sono scomparse, hanno trovato un terreno fertile tra i ceti dell’economia digitale e gruppi disparati come nuovi reazionari e utopisti rivoluzionari.

Difficile fare una genesi filosofica dell’accelerazionismo, più semplice è partire dalla figura di Nick Land e dalla sua rielaborazione del pensiero dei francesi Lyotard, Guattari e Deleuze. Questi avevano individuato l’irreversibilità del processo storico di accelerazione della modernità capitalistica e l’impossibilità di cambiare con lo sguardo rivolto indietro a un’idealistica società pre-industriale. Sulla scia di questo ragionamento, Land vuole sganciare ancora di più il capitalismo dalle briglie della politica per sprigionare tutto il potenziale tecnologico e poco importa se il rischio è quello di un collasso e di esperimenti sociali pericolosi.

Land considera il capitalismo come qualcosa in continua espansione rivoluzionaria, priva di qualsiasi contenuto morale o ideologico che non riconosce altro obiettivo se non la propria emancipazione. Con le sue crisi cicliche, il capitalismo definisce un disordine controllato, dove tutto è sacrificabile alla sua volontà oscura. Il futuro è una fusione uomo-digitale e automazione, tutto il resto conta poco. E ancora, l’uomo deve smetterla di controllare i processi economici connessi all’innovazione tecnologica.

Rileggendo alcune affermazioni di Nietzsche decontestualizzate, Land spiega come l’uomo sia un animale da superare e proprio il movimento spiraliforme del capitalismo può agire in tal senso passando per una transizione fatta di automazione e robot. È da qui nasce l’idea di intensificare i meccanismi di conflitto scatenati dal capitalismo per liberarsi dalle componenti “troppo umane”. Sembra uno dei racconti di Lovecraft sui miti di Cthulhu, divinità-mostro immaginaria, una creatura che dorme nelle profondità degli abissi in attesa di essere svegliata per soggiogare il mondo. Forse il nuovo Cthulhu è il grande sistema nervoso dell’intelligenza artificiale? Chissà…

Un altro concetto chiave dell’accelerazionismo definito da Land è quello di iperstizione: un elemento della cultura effettuale che si fa realtà, attraverso una massa immaginaria funzionante come potenzialità che viaggia nel tempo. Definizione astrusa che cerca di spiegare come certe finzioni diventino concrete in un futuro immaginario, provate a pensare quello che è scritto nei libri di fantascienza, molte di quelle cose domani saranno realtà o ambiscono a diventarlo. Land considera il capitalismo un potente generatore di iperstizioni perché trasforma semplici operazioni economiche nella forza motrice del mondo. Allo stesso tempo spezza e poi ribadisce i propri limiti: è un sistema schizofrenico.

Il periodo all’Università di Warwick è stato un cocktal di nichilismo, marxismo cibernetico, numerologia, fantascienza e tante altre cose. Dopo la conclusione di quella esperienza, Nick Land si è trasferito a Shangai provando una forte ammirazione per quel sistema dove convivono autoritarismo e corsa produttiva verso le innovazioni. Con il passare del tempo, indipendentemente dalla sua volontà, Land è diventato un riferimento per quell’ambiente reazionario che critica la democrazia. Con il saggio intitolato The Dark Enlightenment, il tono è decisamente critico verso la democrazia che Land considera incapace di governare molti processi perché è intrappolata nel breve periodo delle scadenze elettorali che la spingono verso timide politiche riformiste. Essa riduce e semplifica le decisioni difficili e rende il disastro sociale più accettabile nella misura in cui può attribuirlo ai propri avversari politici. La deliberazione democratica è lenta rispetto alla velocità del capitalismo e le innovazioni siccome distruggono vecchi stili di vita creandone nuovi, non possono attendere ulteriori correzioni giuridiche o morali ma necessitano di una politica decisionista tout court.

Negli Stati Uniti una parte minoritaria dell’alternative right si è lasciata sedurre dalle tesi di Land e attinge confusamente a molte idee di questo strano contenitore ideologico, uno su tutti, Moldburg (pseudonimo di Curtis Yarvin) che considera: “la modernità ingegneristica e la grande eredità storica del pensiero pre-democratico antico, classico e vittoriano”. Insomma si mescolano forme di anarchismo capitalista e la convinzione di un futuro di città stato sul modello di Singapore o Hong Kong. La rottura del discorso egualitario farebbe spazio a politiche più realistiche che mettono in evidenza le contraddizioni del progressismo e del capitalismo socialdemocratico. Tra i ricchi sostenitori di alcune di queste tesi c’è Peter Thiel, il fondatore di paypal. Thiel è impegnato insieme a Curtis Yarvin nel Seasteading Institute, un’organizzazione fondata da Patri Friedman (nipote del famoso economista Milton), impegnata nella progettazione di città permanenti in acque internazionali, fuori dalla giurisdizione di governi democratici.

L’accelerazionismo ha fatto presa pure sugli ambienti di Sinistra cercando di definire un’ideologia più spendibile e pervasa di ottimismo, rispetto all’orizzonte tenebroso di Land. Quest’altro orientamento è rappresentato da Nick Srnircek e Alex Williams, autori del Manifesto accelerazionista e del più recente libro Inventare il Futuro. L’antesignano è stato il teorico Mark Fisher morto nel 2017 autore nel 2009 di Realismo capitalista e di una serie di articoli sul suo blog K Punk.

La critica di Fisher non perdona nemmeno la Sinistra, colpevole di aver ignorato le potenzialità della tecnologia e di non essere in grado di offrire risposte ai nuovi problemi sociali, se non ricorrendo a vecchie formule. Srnicek e Williams, definiscono un mondo in cui la tecnologia e l’automazione siano in grado di liberare l’uomo dalle gabbie del turbocapitalismo che ha creato un mondo del lavoro nevrotico. L’accelerazione dovrebbe guardare a una prospettiva più utopistica puntando ad intensificare l’automazione del lavoro lasciando che siano i robot a occuparsi dei lavori più duri e alienanti così da arrivare gradualmente a una società del post-lavoro, in cui si sia liberi di scegliere solo quelli più adatti, accompagnando questa grande trasformazione con il ricorso al reddito universale di base. Superamento del capitalismo o una versione più umana? L’interrogativo resta sospeso. Snircek e William non si perdono in vaniloqui, criticano aspramente tutti i tentativi di sanare localmente i problemi creati dal sistema capitalistico e si sforzano il più possibile a definire un’attuazione concreta delle loro idee.

Tutti questi teorici sono convinti che il processo di distruzione sia positivo e invece di cadere nella fossa oscurantista, apocalittica di Land, vorrebbero traghettare l’accelerazionismo verso obiettivi più rassicuranti, verso un progetto di sana collaborazione tra uomo e macchine. Mentre Land è convinto che si debba procedere senza troppe preoccupazioni assumendo ogni rischio, Snircek e Williams sognano di condurre il processo di liberatorio delle macchine dal lavoro verso una maggiore giustizia sociale. In mezzo tutti questi contrasti, esiste un equilibrio, una forma di conciliazione? No a nostro avviso. L’idea di fondo che sottostà a tutte le versioni, è che la compenetrazione tra uomo e tecnologia, sia una forma di aggiornamento dell’uomo inteso come qualcosa di difettoso da perfezionare.

Jean Braudillard a proposito di questi fenomeni già osservati negli anni Ottanta commentava con sarcasmo: “La cosa triste, a proposito dell’intelligenza artificiale, è che le manca l’artificio e quindi l’intelligenza”.

Siamo davvero disposti in nome della sicurezza e di un po’ di benessere consumistico ad affidare totalmente il controllo della nostra vita ad algoritmi e dati che catalogano nelle memorie cloud i nostri gusti, le nostre idee e i luoghi che frequentiamo? Stiamo andando in quella direzione senza accorgerne e saranno sempre più pochi coloro in grado di opporre almeno forme di resistenza interiore. I nostri desideri non possono coincidere totalmente con i padroni del silicio e il futuro sarà pieno di lotte per il controllo dei mezzi digitali e di tutto quello che c’è intorno. É la nuova fase del capitalismo della sorveglianza. Per questa ragione non possiamo liquidare queste teorie come le fantasie di qualche ricco smanettone della Silicon Valley. Noi crediamo ancora negli uomini, nei popoli, nelle identità che si incontrano e si scontrano, sappiamo che morte, tragedia, gioia, bellezza e felicità sono irrevocabili e non si possono calcolare con qualche formula matematica.

Il Populismo come riappropriazione del Politico

Nel lessico e nell’immaginario politico da qualche anno è ricomparso il populismo. Parola non nuova, fenomeno e sentimento che si manifestano in momenti di forte crisi o di passaggio verso qualcosa di nuovo. Illusione, minaccia, deriva, tentazione autoritaria, sono alcune delle espressioni che ricorrono maggiormente nel discorso pubblico dominante quando si parla di populismo. La descrizione del piccolo diavolo tentatore che stimola i cattivi comportamenti dei ceti popolari, serve alle classi dirigenti per stigmatizzare chi rimprovera loro di aver confiscato il potere utilizzandolo senza freni. Si vorrebbe gettare il populismo nella pattumiera della storia, definirlo come un corpo estraneo per evitare di fare i conti con il sostanziale fallimento della democrazia rappresentativa liberale, ridotta a semplice sequenza procedurale che si adatta per inerzia all’interesse economico-finanziario dominante.

A partire dallo schianto finanziario del 2008–2009, il forte desiderio di contestazione del sistema di rappresentanza è aumentato sempre di più. E quando il popolo ha espresso un parere deviando dal percorso definitivo e gradito dalle classi dirigenti, è iniziato lo stato d’agitazione.

Messa in tutte le salse, la parola populismo perde ogni significato, sfugge alla diagnosi e alla corretta definizione del fenomeno. Coloro che accusano i partiti populisti di genericità o demagogia, sono i primi a comportarsi allo stesso modo perché utilizzano il populismo come una parola passepartout che apre le porte a qualsiasi interpretazione, il più delle volte peggiorativa. Sembra di assistere ad un’attività tesa a scoraggiare ogni teoria del populismo, quindi è più semplice oltraggiarlo che studiare la natura del fenomeno.

Roger Eatwell e Matthew Goodwin nel saggio intitolato “National Populism — The Revolt Against Liberal Democracy, rimproverano questo atteggiamento: “molti di noi hanno troppa fretta nel condannare più che nel riflettere rimanendo aggrappati agli stereotipi che corrispondono al loro punto di vista più che affrontare le rivendicazioni basandosi su prove concrete”.

Il termine populismo per le classi dirigenti è sinonimo di patologia, siccome se ne dà sempre una definizione poco chiara, si ricorre a termini medici come “cura” o “rimedio” per inculcare sempre qualcosa di negativo, suscitare repulsione morale e alzare il muro del recinto dove segregare i cattivi e proteggere i bravi cittadini. Concretamente, si è sviluppato una specie di cordone sanitario che permettesse di separare nelle menti e ai seggi elettorali, i partiti “perbene” e quelli “infrequentabili”. Una tattica “morale” che ha fatto cilecca. Il populismo ha spezzato il recinto e ha costretto gli altri a mettere in discussione molte certezze.

Nella maggior parte dei paesi occidentali, ha prevalso la concezione liberale della democrazia, dove la sovranità parlamentare si sovrappone e sostituisce a quella popolare. La società liberale è aggregativa nel senso che vede il campo politico come un spazio di interessi per lo più economici, dove si presume che gli individui e i gruppi cerchino solo di massimizzare i propri vantaggi con scarse o del tutto assenti, preoccupazioni per il bene comunitario.

Le attuali istituzioni allontanano e dissuadono il maggior numero di persone dal partecipare agli affari pubblici, il motivo risiede nella decisione di sostituire alla decisione popolare la gestione delle cose, la sovranità dei mercati finanziari, l’autorità degli esperti e il governo dei giudici. Così il ceto politico assume una fisionomia oligarchica e non è più responsabile davanti alle comunità, ma solo agli interessi privati che lo sostengono.

La democrazia implica normalmente il primato del politico sull’economico, non si può diluire nella semplice procedura e soprattutto è migliore quando conserva una caratteristica agonistica: il dibattito deve esserci, lo scontro non deve mancare, poi si può discutere sulle modalità, ma non si può chiedere l’estinzione del conflitto alla ricerca di un consenso sempre più largo che riduce le differenze tra i partiti politici, a dettagli programmatici. I fenomeni di disaffezione anche verso il Politico e forme di diserzione civica, si sviluppano a partire dal riconoscimento di questa destrutturazione del discorso politico, della formulazione di programmi sempre più generici e poco ambiziosi.

Il populismo non ha una natura anti-democratica, al contrario, esprime la necessità di incidere di più sulle scelte, di riannodare il filo con la comunità, chiede una ripresa del controllo politico nei settori decisivi. Il primo errore da non commettere, è cercarvi un’ideologia o identificarlo con una dottrina precisa. La diversità degli uomini politici e dei partiti che sono stati definiti populisti e la polisemia del termine, dimostrano come esso possa combinarsi con idee molto diverse. Alla base di tutto c’è l’esaltazione di forme di autonomia contro una democrazia fasulla e svuotata da una classe apolide che disegna una società ridotta a poltiglia. Ecco spiegato la capacità di ampliare il consenso oltre le categorie destra/sinistra.

Nessuno può dirsi fuori dalla storia o dall’identità cui appartiene. Una citazione di Carl Schmitt, aiuta a comprendere la crisi in corso: “la nozione di democrazia è il popolo e non l’umanità. Se la democrazia deve restare una forma politica, ci sono solo democrazie del popolo e non una democrazia dell’umanità”. Classi dirigenti sempre più autoreferenziali sognano di sbarazzarsi del demos, ma non hanno il coraggio di dirlo apertamente, si limitano a conservare una serie di forme apparenti per far credere che esista ancora qualche possibilità di decidere e incidere.

Il politologo Marco Tarchi propone di definire il populismo “come una specifica forma mentis, connessa a una visione dell’ordine sociale alla cui base sta la credenza nelle virtù innate del popolo, di cui rivendica il primato come fonte di legittimazione dell’azione politica e di governo”

In questa definizione si può individuare anche un difetto della mentalità populista, il riconoscimento spesso ingenuo di una innata bontà popolare. Tuttavia alla necessità di instaurare una relazione più diretta tra popolo e governanti, senza troppe intermediazioni, si possono associare altri elementi: il riferimento al popolo come un aggregato omogeneo depositario di valori permanenti; la volontà di restituirgli più potere, una visione molto idealizzata della comunità nazionale.

Il popolo vede il “Politico”, inteso come categoria soggettiva, sommerso dall’economia, dal giuridicismo procedurale e dall’espertocrazia e dalla morale ed esige, un ritorno del Politico nel suo significato migliore, contro le vecchie idee di Saint-Simon che voleva sostituire il governo degli uomini con l’amministrazione delle cose. È falso dire che il populismo esprime un disgusto o un rifiuto della politica. In realtà, esso manifesta un’ostilità verso la classe politica cui si rimprovera di essere poco presente nelle questioni decisive. Interrogarsi sul populismo costringe tutti a riflettere su ciò che intendeva Arthur Moeller van den Bruck negli anni Trenta quando scrisse: “La democrazia è la partecipazione di un popolo al suo destino”.

 

Borderless di Lauren Southern

Lauren Southern è una giornalista canadese e attivista politica dell’ambiente conservatore-identitario.

Lo scorso anno ha realizzato un documentario intitolato Borderless, sul tema scottante dell’immigrazione come forma di sradicamento. Southern ha percorso l’Europa, non ha risparmiato critiche alla gestione del fenomeno da parte delle ong, ha raccontato le incertezze dell’integrazione e delle problematiche riguardanti il governo del fenomeno migratorio.

Qui potete vedere il documentario con i sottotitoli in italiano (se non si attivano cliccate in basso a destra del video)

Buona visione.

Omero, l’Iliade e l’Odissea, il nucleo dell’essenza europea

François Jullien, filosofo e sinologo famoso per gli studi comparatistici sul pensiero europeo e cinese, anni fa dichiarò: “Mi sono sempre più convinto che se cerchiamo le categorie decisive del pensiero europeo, è in Omero che occorre farlo, molto prima di Platone”. L’Iliade e l’Odissea sono il nucleo della civiltà europea, della nostra letteratura e parte del nostro immaginario. Passano i secoli e le domande esistenziali sull’essere e sul senso della vita sono ancora lì e Omero, offre una prospettiva all’uomo europeo, aiuta a distinguere la nostra civiltà dalle altre. Se vogliamo ritrovare la fonte originaria dell’identità europea, la troviamo nell’Iliade e nell’Odissea. Siamo confusi e turbati dai cambiamenti provocati dal dominio della tecnica, dalla mutazione degli stili di vita, della religione, vediamo il decadimento e mentre degradiamo verso un mercantilismo senz’anima, Omero è la bussola arcaica che ci consente di orientarci in mezzo al disordine. Iliade e Odissea esprimono l’originalità del nostro stare nel mondo, il nostro modo di essere uomini e donne, di fronte alla vita e alla morte, in rapporto con la comunità e il destino. Insomma, il contenuto della nostra esistenza. Le storie di questi antenati così lontani e così affini, mostrano un’ideale di vita che agisce sulla parte migliore di tutti i popoli europei: greci, latini, celti, germani, slavi. Ci dicono tutto su coraggio, speranza, gioia e dolore. L’avventura in un mondo bello e inquietante, il coraggio stoico dinnanzi all’ineluttabile, il fascino di ciò che è nobile e bello, il disprezzo per la bruttezza. Omero non illustra teorie, mostra esempi concreti, insegna le qualità giuste per essere uomini e donne, dotati di forza d’animo e coraggio. Saggi e attenti, giovani e talvolta impetuosi. Le azioni dei personaggi non sono valutate sulla base di categorie astratte, come di un bene o di un male morale assoluto, ma secondo coordinate come generosità, equità, astuzia, indegnità, abiezione. Da Omero ricaviamo il rispetto per la sacralità della natura, l’eccellenza come ideale di vita, la bellezza come orizzonte. In un celebre passo dell’Iliade, il poeta descrive la falange achea: “Come siepe stipando ed appoggiando, scudo a scudo, asta ad asta, ed elmo ad elmo, guerriero a guerriero”. Non è la semplice descrizione di una formazione militare, ma l’espressione di quella comunità solidale e organica, in cui ogni individuo può contare sull’altro, dove la diserzione altera quell’unità indissolubile. Non uno sciocco contratto sociale materiale, ma un patto tra uomini liberi che accettano dei doveri in funzione di un ideale più grande, con la tribù, la polis e la falange. Al centro dei poemi omerici ci sono l’armonia degli uomini con l’ordine cosmico, lo sforzo di ricongiungersi con la propria parte divina, il contare principalmente su stessi e le proprie forze. Immagini potenti, parole di un suono che sono in grado di comprendere solo gli europei di antica tradizione.

Il gesuita che scrisse il primo trattato sul Giappone del XVI secolo

Il 25 luglio 1579 nel porto di Kuchinotsu in Giappone, un uomo sbarca con un seguito di persone, è un gesuita che conosce bene l’Asia, si chiama Alessandro Valignano, è stato inviato in missione da Everardo Mercataro, terzo successore di Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù.

Tre anni dopo, sarà il responsabile di tutta l’attività di evangelizzazione a Est del Capo di Buona Speranza: l’Africa, l’India, Malacca (odierna Malesia), la Cina e il Giappone sono sotto la sua giurisdizione “spirituale”.

Nato a Chieti nel 1539 da una nobile famiglia di origine normanna, destinato a entrare nella Curia romana, si reca a Padova per studiare giurisprudenza e nel 1557, consegue la laurea in utroque jure (ovvero in diritto canonico e diritto civile). Tra Padova e Venezia, conduce per qualche anno una vita spericolata, tanto che il 28 novembre del 1562 viene arrestato proprio a Padova con l’accusa di aver ferito una donna con un coltello. Proclamatosi innocente, resta in carcere per 18 mesi, fino a quando il Quarantia criminal, il tribunale supremo della Repubblica di Venezia, lo condanna all’esilio. Il suo rilascio sarà possibile grazie al risarcimento ricevuto dalla vittima e, soprattutto, per l’intervento del cardinale di Milano, Carlo Borromeo.

Nel corso degli studi presso il Collegio romano scopre gli Annales Ecclesiastici di Cesare Baronio, che gli offriranno una chiave di lettura del metodo con cui il Cristianesimo si era diffuso nei primi secoli mediante un adattamento flessibile alle culture preesistenti, greco-romana e siro-giudaica.

Legge affascinato le lettere dall’India e dall’Estremo Oriente di Francesco Saverio, il primo missionario gesuita a mettere piede in Giappone e a quel punto, decide di fare richiesta al superiore generale per andare nelle “Indie orientali”. Passa solo qualche mese e, nel 1573, Mercuriano lo invia in Oriente come Visitatore, cioè suo delegato personale. Passa da Lisbona (le colonie asiatiche sono soggette al Portogallo) e si imbarca il 21 marzo dell’anno successivo per una missione che durerà tutta la vita, fino alla morte a Macao nel 1606.

Il coraggio contro le illusioni

Nel racconto di questa strana storia della pandemia, governi e burocrazie sanitarie hanno rimosso un fatto semplice, una verità elementare: la vita è pericolosa. L’illusione che una soluzione tecnica possa sempre toglierci dai guai è qualcosa di intossicante e si basa su un mito profano.

Esiste un timore ancestrale della morte ma chi dovrebbe essere forgiato dalla cultura classica, sa che la vita richiede individui coraggiosi, consapevoli della presenza del rischio e della necessità di affrontarlo e non subirlo passivamente. A meno che non si voglia consumare la propria esistenza nella chiusura domestica e rassicurante. Abbiamo bisogno di muoverci, toccarci, litigare, respirare liberamente, essere comunità, non individui nevrotici e polverizzati.

L’assenza di pericolo non è la condizione abituale e necessaria della vita, il mondo della natura è straordinariamente complicato, bello e pericoloso, l’uomo è sempre esposto al pericolo di essere colpito nel corpo e nella psiche. Non può essere questa atmosfera repressiva-depressiva la nuova stupida normalità.

Andrebbe rimessa al centro una virtù necessaria, quella del coraggio.

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