demagogia è il vocabolo usato dai democratici, quando la democrazia li spaventa (Nicolás Gómez Dávila)

REVOLVER

Mese: Aprile 2015

Figure e figuri della cultura psichedelica prima dell’arrivo del Sessantotto

Gli apologeti della cultura psichedelica la definiscono “la storica giornata del 1943”. Tutto era cominciato nella severa Svizzera, nei laboratori della Sandoz di Basilea, quando il dottor Albert Hoffman stese il resoconto dell’assunzione involontaria in corpore vili, cioè il suo, di una dosa minima di una sostanza che già aveva sintetizzato anni prima e che per la sua struttura molecolare e le proprietà fisiche aveva denominato “Acido dietilamidico dextro tartrato 25, dove venticinque era il numero di registro in una serie di composti sintetici della Sandoz. “Nel pomeriggio del 16 aprile 1943 fui costretto a interrompere il mio lavoro di laboratorio e a tornare a casa. Ero stato preso da una strana agitazione insieme con una leggera vertigine. Giunto a casa, mi stesi e caddi in una specie di delirio che non era affatto spiacevole e che era caratterizzato da una grande attività della mia immaginazione. Fui invaso da una serie ininterrotta di immagini fantastiche di un’intensità straordinaria, accompagnate da colori caleidoscopici della maggiore vivacità”. 

 Facciamo un salto fino al 1961. Aldous Huxley e Timothy Leary partecipano al quattordicesimo congresso internazionale di psicologia applicata a Copenhagen. Da qualche anno, sempre il dottor Hoffmann, era riuscito a sintetizzare in laboratorio la psylocibina, l’alcaloide dei funghi allucinogeni. Da anni, in alcuni centri di psichiatrici, si sperimentavano queste sostanze per il trattamento di alcune forme gravi di psicosi e dipendenza da alcol.

Huxley non era uno psichiatra ma un romanziere e saggista che aveva descritto le sue esperienze allucinogeni. Autore di molti libri, come storico aveva investigato sul rapporto tra esperienza mistica, teologia e potere. Due testi particolari, il primo, “L’eminenza grigia”, dove si narrano le vicende di François Leclerc du Tremblay, un aristocratico francese entrato nell’ordine dei Cappuccini con il nome di padre Giuseppe e divenuto celebre come ministro degli esteri e capo del servizio segreto sotto il governo di Richelieu nella Francia del Diciassettesimo secolo. L’altro libro controverso,“I Diavoli di Loudun” ricostruiva la vicenda di una presunta possessione che nel Seicento aveva coinvolto un prete, Padre Urbain Grandier e un intero convento di Orsoline.

«La comunicazione teologica di una visione o anche di un’esperienza mistica spontanea è “grazia gratuita”. Queste cose sono una grazia, esse ci sono date, noi non facciamo nulla perché ci arrivino e sono gratuite, il che significa che non sono sufficienti per la salvazione o l’illuminazione, comunque vogliamo chiamarla. Ma se sono usate in modo giusto, se sono assecondate, se il ricordo di esse è considerato importante e chi le ha vissute lavora secondo le vie che gli stono state indicate, esse possono essere di grande importanza nel cambiare la vita di una persona”. Così Huxley chiudeva il suo discorso al congresso danese, convinto che le esperienze mistiche attingessero a una regione del nostro cervello non in contatto con la realtà quotidiana.

Molto più mondano e pop, fu l’intervento di Leary, professore di Harvard che Richard Nixon ebbe a definire “l’uomo più pericoloso d’America”. Una vita controversa: nel 1965 si becca un’assurda condanna a trent’anni di reclusione per possesso di marijuana, evade nel 1970 con la complicità del gruppo radicale armato dei Weather Underground. Latitante prima ad Algeri, ospite di Elridge Cleaver, capo del cosiddetto governo in esilio delle Black Panther e poi da lì entrato in Svizzera dove sposa una donna ricca. Fuggito dalla terra elvetica, viene arrestato da agenti americani dopo essere atterrato a Kabul, dove un manipolo di giovani in fuga dall’Occidente l’aspettava per festeggiarlo al Siegi’s il bar dove per farsi una canna bastava raccogliere l’hashish rimasto nelle venature consunte dei tavoli di le-gno.

Timothy Leary da anni si vantava, senza aver provato nulla, dei suoi trattamenti con droghe psichedeliche agli alcolizzati e ai criminali. Erano esperimenti che all’inizio venivano tollerati dall’Università di Harvard e dalla stessa CIA che in quegli anni diffondeva queste sostanze. Leary in un primo momento non aveva un afflato mistico, poi quando la psylocibina e l’LSD vennero inclusi nell’elenco degli stupefacenti, fondò una specie di chiesa denominata League for Spiritual Discovery, solo per utilizzare legalmente a scopo di culto le sostanze psichedeliche che la legislazione statunitense garantiva alla chiesa nativa americana.

Il progetto che illustrò a Copenhagen nel 1961 era basato sullo scardinamento dei modelli di pensiero e di comportamento che secondo lui imprigionavano i sistemi di vita occidentali e orientali. Occorreva espandere la coscienza, per mettere in moto quella misteriosa parte del cervello inutilizzata e promuovere la liberazione da certi condizionamenti culturali. In Europa dove non ci sono grandi spazi, di lì a pochi anni questi impulsi liberatori si sarebbero prima diffusi nel costume sociale e poi sarebbero stati declinati in chiave politica: semplificazione dei classici della rivoluzione e lotta di classe fino all’estreme conseguenze. In America terra di spazi enormi e disabitati gli esiti furono differenti. Non era in quel continente che erano fioriti e falliti gli esperimenti di società perfette immaginate da molti utopisti occidentali? Negli Stati Uniti erano presenti storicamente  molte comunità che si sottraevano alla pressione della vita moderna, sperimentando modelli sociali alternativi o fortemente tradizionali. Leary secondo alcune stime, incoraggiò più di un milione di americani a provare le droghe psichedeliche, ma limitò a trecentocinquanta i membri della sua “chiesa laica”.

Il 17 gennaio 1967, all’Human Be-In al Golden Gate Park di San Francisco, Huxley non poté assistere al trionfo di Timothy Leary. Era morto da tre anni. Ad ascoltare il celebre slogan del professore psichedelico “Turn on, tune in, trip out”, c’erano circa trentamila persone. Non era un caso.

San Francisco si era guadagnata la fama di città molto “progressista”. Dal 1953, tra Chinatown e North Beach, apriva i battenti una piccola libreria, la prima in America che vendeva solo paperback. In onore di Charlie Chaplin, interprete di molti personaggi vagabondi, il fondatore, Lawrence Ferlinghetti l’aveva denominata City Light Bookshop. Ferlinghetti aveva ascoltato Allen Ginsberg leggere Howl e si era offerto di pubblicarla in uno dei fascicoli della sua collana poeti. “Howl” era stato sequestrato e processato per immoralità, perché parlava senza pudori di droga ed esperienze sessuali. Assolto in virtù del Primo Emendamento, non solo aveva avuto un successo immediato e duraturo, ma aveva aperto la strada alla pubblicazione di romanzi come “L’amante di Lady Chatterly” di Lawrence o i libri di Henry Miller che in America circolavano solo in edizioni semi-clandestine e vendute sottobanco.

Henry Miller viveva ancore nel distretto di Big Sur, un paradiso sulla costa situato a 300 km a sud di San Francisco. Lì risiedeva, quando riusciva a stare fermo, Jack Kerouac l’autore di “On the Road”. Il nomadismo senza altra meta che quelle dell’irrequietudine e del cuore è un altro mito celebrato in quegli anni. Sempre a Big Sur, cinque anni prima, un gruppo di eccentrici aveva fondato l’Esalen Institute. Il programma prevedeva lo sviluppo armonico della persona, il recupero di tutte quelle conoscenze che attingevano all’irrazionalità e che venivano bandite e ridicolizzate in ambito accademico.

Alan Watts aveva aperto le attività con un dotto seminario sulle meraviglie del buddismo, Huxley ci aveva raccontato le sue esperienze con la mescalina e una giovane Joan Baez aveva tenuto un corso sulla nuova musica folk americana. Tra le donne e gli uomini dell’Esalen spiccava con la sua bella faccia Gregory Bateson che diffondeva quella che definiva l’ecologia della mente, la sua idea cibernetica e le sue teorie olistiche insieme alla moglie, l’antropologa Margaret Mead. Nel piccolo cosmo allucinogeno, c’erano tutti i beat. Tra loro, con l’impeccabile tre pezzi grigio e la pistola alla cintura con cui si divertiva a sparare sulla porta di casa, c’era William Borroughs che alla liberazione attraverso le droghe psichedeliche, preferiva il vizio oscuro dell’eroina.

Le note di Charlie Parker virtuoso del jazz be pop con il suo sax e Max Roach con la batteria, le chitarre folk di Guthrie, Sieger e Dylan, facevano da colonna sonora. In questa babele troviamo il principe indiano Mahavira Vardhaman, il fondatore dello jainismo. Insegnava la pietà verso tutti gli esseri, piante comprese e per questo motivo, imponeva una dieta a base di semi e frutta. Tutti personaggi convinti di portare la pace nel mondo con la forza della coscienza e dell’amore. Saranno travolti dal radicalismo politico del Sessantotto e dalle motociclette nichelate, le teste rasate e i giubbotti di pelle nera della teppa di Sonny Barger e i suoi Hells Angels.

Il mistero di Fulcanelli

Nell’autunno 1926 uscì a Parigi in tiratura limitata un libro dal titolo accattivante: Il mistero delle cattedrali, l’autore si firmava Fulcanelli. Il testo era stato scritto da un uomo che si dichiarava un alchimista e si rivolgeva a lettori di un certo spessore intellettuale e potenziali seguaci. La tesi portante del libro era che le grandiose cattedrali gotiche non sono semplici luoghi di culto della religione cristiana, ma anche dei simbolici “libri di pietra”, dove si possono rintracciare gli elementi di una sapienza antica che usa come riferimento la simbologia alchemica. Secondo Fulcanelli, la parola gotico non deriva dall’antico popolo germanico dei Goti, ma dalla parola “argot” che significa gergo.

Arti gotiche deve intendersi come argotiques, dove argot è il linguaggio segreto usato da coloro che si rivolgono a un pubblico di iniziati, gli unici in grado di interpretare correttamente quei messaggi. Il libro contiene una descrizione delle più importanti cattedrali gotiche, da Notre Dame de Paris, Amiens fino a Bourges. La prefazione della prima edizione era firmata da un certo Eugene Canseliet, il quale dichiarava che l’autore, ora scomparso, era stato il suo “maestro”. “Fulcanelli non è più”, dichiarava Canseliet e proseguiva ringraziando l’artista Julien Champagne a cui lo stesso autore avrebbe affidato il compito di illustrare il testo.
Con una tiratura di appena trecento copie, il libro acquisì un’enorme notorietà legata soprattutto al mistero intorno allo scrittore. Nel 1957 venne proposta un’edizione con una nuova prefazione di Canseliet, dove si chiariva che Fulcanelli non era altro che lo pseudonimo utilizzato dal suo maestro per celare la sua vera identità e non si doveva ipotizzare altro.


La leggenda del maestro si è ingrossata molto con la citazione di un episodio tratto da Il mattino dei maghi (1960) di Louis Pawels e Jacques Bergier, libro a cui si deve il revival dell’occultismo.
Stando a quando riferito da Pauwels, l’amico Bergier dal 1934 al 1940, aveva collaborato con il fisico Andrè Helbronner, che tra i suoi collaboratori annoverava vari personaggi, ma uno di questi in particolare aveva colpito la sua attenzione, un tipo cordiale e riflessivo che all’improvviso era sparito dalla circolazione. Bergier era convinto che quell’uomo fosse Fulcanelli e di averlo incontrato nuovamente nel 1937 nel laboratorio della Direzione del Gas di Parigi, su richiesta dello stesso professor Hellbronnes. L’uomo misterioso parlò dei risultati della ricerca del professore francese e l’aveva messo in guardia sui potenziali pericoli della radioattività, ma una frase lo colpì su tutte: «Il segreto dell’alchimia è questo: esiste un modo di manipolare materia e energia capace d produrre quello che in termini moderni definiamo un “campo di forze”. Questo campo ha il potere di agire sull’osservatore e lo mette in una condizione privilegiata di contemplazione diretta dell’universo. Da qui, da questa postazione privilegiata, egli ha la possibilità di accedere a delle realtà normalmente precluse dal tempo e della spazio, dalla materia e dall’energia. Ecco quella che gli alchimisti definiscono la “Grande Opera”».

Un’altra storia interessante è quella fornita da Robert Ambelain (1907-1997), uno studioso di esoterismo, autore di numerosi saggi e in contatto con l’editore Jean Schemit, che pubblicava Fulcanelli.
Schemit gli rivelò che nei primi mesi del 1926 era andato a trovarlo un signore elegante e demodé con dei grandi baffi. Lo sconosciuto aveva cominciato a parlargli dell’architettura gotica, dicendo che in realtà si trattava di un sorta di codice, noto anche come “linguaggio verde” (per inciso, nel romanzo di Meyrink, “Il viso verde” si trovano richiami in tal senso). Qualche settimana dopo nell’ufficio dell’editore si era presentato Eugene Canseliet, con in mano il famoso manoscritto di Fulcanelli e Schemit, ci mise poco a riconoscere nella scrittura, il modo di esprimersi del personaggio che aveva conosciuto qualche tempo prima. Successivamente Canseliet era ritornato con Jean Julien Champagne, l’illustratore del libro “Il mistero delle cattedrali” e l’editore riconobbe l’uomo che si era presentato molto tempo prima. L’atteggiamento deferente di Canseliet e il rivolgersi al disegnatore come “maestro”, lo convinse del fatto che Champagne e Fulcanelli, fosse la stessa persona.

La trama si infittisce. Il giornalista francese Jean Boucher, sembrava confermare la supposizione tanto da riportare ad Ambelain un particolare su Champagne. Pare che l’uomo non si separasse mai da una scatoletta di latta contenente quella che all’apparenza sembrava resina di gomma. Ogni tanto prendeva un pizzico e la inalava profondamente, spiegando a Boucher che quella polverina aveva delle proprietà straordinarie che gli consentivano di raggiungere una conoscenza “intuitiva e profonda”.

L’ultima compagna di Champagne raccontò sempre ad Ambelain che lui e Canseliet, condividevano delle stanze di un grande attico al numero 59 di rue de Rochechouart, confermando l’atteggiamento di profondo rispetto di Canseliet e che lo chiamava maestro. Da qui la deduzione che fosse il suo “maestro alchemico” e quindi, Fulcanelli.
Queste e altre tracce non conducono a una verità accertata. Ovviamente Canseliet ha sempre negato tutto e, addirittura, avrebbe incontrato Fulcanelli a Siviglia, rimanendo stupito dalle fattezze dell’uomo che aveva l’aspetto di un cinquantenne, pur avendo 113 anni. Sono decenni che si cerca d’identificare il misterioso alchimista, spuntano tanti nomi e nessuna certezza. Persino il grande musicista americano Frank Zappa scrisse un brano intitolato, But who was Fulcanelli?

http://www.youtube.com/watch?v=isqlsZ1LEGk

John Dillinger: la vita breve di un rapinatore cortese


La domanda è sempre la stessa: fondare o sfondare una banca? Per John Dillinger era sufficiente entrarvi pistola in pugno e svuotare le casse senza fare troppo baccano. Il più simpatico dei rapinatori dell’America degli anni Trenta aveva uno stile che dispiaceva alle signore. “Mi passeresti i soldi tesoro?”, era il modo educato con cui si rivolgeva, sfoderando un bel sorriso, alle cassiere. Donnaiolo impenitente, alla fine sarebbe stato tradito per le assidue frequentazioni dei bordelli. Figura popolare, come altri gangster cresciuti zappando la terra ci teneva all’eleganza: abiti di sartoria, camicie perfettamente stirate e l’immancabile Borsalino sulla testa. Sui giornali lo paragonavano al personaggio di Tom Sawyer, il ragazzo povero di campagna dei romanzi di Mark Twain o al bandito gentiluomo Jesse James.
Dillinger era un divo, esaltato persino dagli adolescenti, assai distante dal contemporaneo zoticone malvestito alla Gomorra. Famoso il caso del boy scout in visita agli uffici del governatore dell’Indiana che, interrogato dai cronisti su cosa pensasse del fuorilegge, aveva risposto: “Io sto con lui …”, poi di fronte all’imbarazzo generale, tentò di correggersi: “Intendo dire che sto dalla parte degli underdog, di chi è svantaggiato”.
Una rivista specializzata, Detective, condusse un sondaggio tra i gestori delle sale cinematografiche americane su chi fossero i personaggi più popolari tra quelli che passavano sullo schermo nei notiziari proiettati prima dei film. Dillinger era il più applaudito, molto più di Roosevelt e Lindbergh.
Siamo tra il 1933 e il 1934 nei tredici mesi in cui si concentrò l’attenzione sulle sue imprese criminali e l’FBI si affannava in una spasmodica ricerca per acciuffarlo. Ogni settimana i quotidiani nazionali si sbizzarrivano nei resoconti e le persone che si trovarono coinvolte nelle rapine, non facevano altro che confermare la reputazione di “bandito cortese”. Specie con le donne. Tuttavia, non bisogna credere che ogni assalto di Dillinger e dei suoi complici fosse indolore. Durante le fughe rocambolesche accompagnate dal suono metallico dei proiettili, non mancarono i morti anche se la tendenza era di incolpare i poliziotti. A confermarlo è l’ironia di un cronista del Chicago Times: “Avevano circondato Dillinger, ed erano pronti a sparargli, ma vennero fuori prima gli ostaggi e spararono a loro. Forse la prossima volta riusciranno a beccare anche Dillinger, se gli capitasse accidentalmente di trovarsi in mezzo ai passanti innocenti”.
Formalmente fu accusato di un solo omicidio diretto, quello dell’agente di plizia William O’Malley, ma non fu nemmeno condannato. Leggenda vuole che la più famosa delle evasioni si realizzò prendendo in ostaggio 17 agenti con una pistola finta. Per essere precisi, Dillinger intagliò un pezzo di legno a forma di pistola che annerì con del lucido di scarpe; con questo trucco minacciò il primo poliziotto e si fece consegnare la sua pistola e con quella si fece strada verso la libertà.

Buono o cattivo che fosse, di sicuro Dillinger non era uno stratega del crimine. Le rapine in banca non rendevano molto, quando andava bene racimolava qualche decina di migliaia di dollari che finivano presto. Infatti i soldi erano appena sufficienti per pagarsi qualche lusso e il suo esoso e fantasioso avvocato Louis Piquett, al quale deve la celebrità e la possibilità di sfuggire alla giustizia e fuggire dalla prigione.
Piquett oltre alla dimestichezza con il diritto, fu quello che costruì l’immagine pubblica di Dillinger, trasformando ogni azione giudiziaria in processo mediatico. Una sorta di portavoce e responsabile della comunicazione.
Le foto che lo ritraggono mentre abbraccia calorosamente lo sceriffo che l’aveva arrestato e il procuratore che avrebbe dovuto accusarlo, sono un capolavoro della comunicazione. Era impossibile non spopolare sui cinegiornali. Piquett arrivò a proporre all’American Chicago un’intervista esclusiva al suo assistito latitante per 50mila dollari. Il giornale rifiutò.
A Dillinger a un certo punto era venuta l’idea di farsi filmare. Aveva un’autentica passione cinematografica. L’avvocato propose l’acquisto di una cinepresa per filmare una “lezione” del gangster insieme al suo più stretto collaboratore Van Meter, ma tra i due ci furono contrasti perché pare che Dillinger non volesse mostrare un profilo esaltante, ma volesse sconsigliare i giovani dal percorrere la strada del crimine. Ci fosse stata la televisione, sarebbero stati ospiti fissi in qualche talk show.
Dopo la rocambolesca fuga del 3 marzo 1934 dalla prigione di Crown Point nell’Indiana, riuscì ancora una volta a far perdere le tracce. Dillinger fu identificato e ucciso a tradimento con cinque colpi d’arma da fuoco da alcuni agenti dell’FBI mentre si trovava all’esterno di un cinema di Chicago, dal quale usciva assieme alle prostitute Polly Hamilton e Ana Cumpanas dopo aver assistito alla proiezione del film poliziesco Manhattan Melodrama con Clark Gable. Era il 22 luglio 1934, aveva appena 31 anni.
A tradirlo fu proprio Ana Cumpanas, conosciuta nell’ambiente dell’epoca anche come Anna Sage e in seguito nota come la “Donna in Rosso” (per via del colore sgargiante dell’abito indossato per farsi riconoscere dalla polizia). Fu lei a passare le informazioni alla polizia in cambio della permanenza negli Stati Uniti per evitare l’espulsione in Romania, sua terra d’origine. Dopo aver tradito Dillinger fu ingannata dall’ufficio federale che confermò il provvedimento di espulsione. Fatti a fidare degli sbirri.

Dalla parte del torto

decima mas

“Alle nature volgari tutti i sentimenti nobili e magnanimi appaiono sproporzionati al loro fine e, perciò appunto, quasi sempre inverosimili; esse sogghignano quando n’odano discorrere e sembrano voler dire: “Bisogna pure che là vi sia un qualche piccolo utile, poiché non ci è dato di scrutare oltre ogni parete”
(Friedrich Nietzsche)

Il 25 aprile non è la mia festa. Io sto dalla parte sbagliata, con quelli che scelsero di non abbandonare i camerati della prima ora e di proseguire fino in fondo, consapevoli di andare verso una sconfitta sicura. Molti non lo fecero in ossequio a una disciplina d’apparato, ma per riscattarsi dal disonore sparso dai tanti voltagabbana.
Decisero di rischiare, di non restare accucciati in casa in attesa che passasse la tempesta per battere le mani ai vincitori. Stavano dalla parte del torto? Può darsi, sono valutazioni. Non c’è, da parte mia, una tiepida compassione “democratica” ma una sincera solidarietà, un’identità di sentimenti. La lealtà appartiene a uno stile di comportamento più importante di ogni giudizio morale.

La repubblica dei ceti ministeriali

Il potere è spesso qualcosa di evocato, nominato come un’entità astratta che vive “altrove” oppure all’opposto, qualcosa di identificabile con il volto e il corpo dei potenti. Sono due interpretazioni contrapposte di una sola realtà: potere visibile e potere remoto sono due luoghi con confini non sempre definitivi.
La condizione di degrado politico ed economico dell’Italia, fa interrogare sulla responsabilità del potere, visto che da da anni assistiamo all’incapacità di organizzarlo stabilmente. La retorica linguistica europea utilizza l’espressione “sovranità condivisa”, significa che non siamo totalmente padroni in casa nostra (semmai lo fossimo stati) e il governo deve sempre confrontarsi con poteri extranazionali: quello dei palazzi di Bruxelles o quelli assai più potenti dei centri finanziari, i famigerati “mercati”. Tralasciando per adesso, la dialettica problematica tra poteri nazionali e internazionali, resta l’interrogativo su chi oggi realmente comanda il Belpaese.
Individuare tutto il potere nel parlamento, nei politici con tutto l’armamentario retorico della casta da colpire e abbattere, significa allinearsi all’idea dell’italiano medio che considera ancora il singolo parlamentare come un “potente”. Invece, è nota la ridotta influenza dei parlamentari nel processo legislativo, segnata dal ricorso continuo alla decretazione d’urgenza. Più della metà delle leggi viene fatta con decreto, laddove per dettato costituzionale dovrebbe essere uno strumento eccezionale. Il motivo di questa scelta va individuato nella precarietà delle alleanze politiche che sorreggono il governo costretto quasi sempre a puntare la pistola sui deputati della maggioranza.

A questo si associa il terrore del voto che per molti parlamentari significherebbe restare fuori dai giochi. Se il parlamento conta poco, i partiti hanno ancora potere? Si, soprattutto nelle realtà locali, il famoso “territorio” di cui tutti blaterano. Le nomine nelle Asl, nei consorzi, nelle fondazioni bancarie e nella pletora innumerevole di società controllate, sono ancora decise dai dirigenti di quelle entità sempre più fumose che sono i partiti. L’ultimo decennio è anche la storia dell’estensione delle responsabilità regionali e di conseguenza della spesa, secondo un meccanismo autogestito che ha arricchito e garantito la sopravvivenza a ceti politici e professionali, non sempre capaci ed efficienti.
In Italia, la Banca centrale europea di Draghi svolge lo stesso ruolo che ha nel pensiero aristotelico il motore immobile, causa ultima del divenire dell’universo. La Bce piaccia o meno, è quella che controlla l’erogazione di denaro che contribuisce al potere dello Stato. Attraverso la Bce, un’Italia politicamente indebolita e quindi facile a subire influenze esterne, si confronta con le grandi capitali, Washington e Berlino su tutte.
Nell’epoca maledetta del dominio dei mercati finanziari, se sei amministratore di un hedge fund, le parole che determinano le tue decisioni sull’Italia vengono da Draghi e non da Matteo Renzi. In questo strano perimetro del potere ci sono anche il Quirinale e la Banca d’Italia, ma c’è un ceto potente di cui poco si parla ed è quello dei grandi burocrati dei ministeri.
La forza dei ministeri si incrocia con il nuovo potere dei magistrati. Non si tratta di offrire una narrazione complottistica, ma di rilevare come in un paese dove la politica non ha più spina dorsale per manifesta incapacità culturale, emergano poteri più solidi e uniti. Quella che una volta era la repubblica dei partiti si sta trasformando nelle repubblica dei pretoriani degli uffici ministeriali. L’attenzione non va concentrata sulle figure che occupano lo spazio mediatico, ma sulla macchina statale dove consiglieri, avvocati e giuristi di varia natura fanno il bello e il cattivo tempo.Tanto per essere chiari gente come Daniele Franco, capo della RGS (Ragioneria generale dello stato) ha un potere enorme che il Presidente del Consiglio si sogna. Dagli uffici del Ministero dell’Economia e delle Finanze si irradia un potere tecnico spaventoso, celato dietro la dizione burocratica di “certificazione”. Da qui si può rinviare nel tempo o sabotare ogni iniziativa politica.
Molti si affannano a descrivere i retroscena del gruppo Bilderberg o del Forum di Davos, ma si dimenticano del ragioniere Franco e dei suoi collaboratori che non vanno da nessuna parte ma governano l’epoca del contenimento della spesa. Decreti ministeriali, regolamenti, decreti applicativi e provvedimenti vari, sono parte di un processo di complicazione normativa che assegna un potere smisurato alle burocrazie dello Stato. Una politica del rinvio che porta ambiti rilevanti dalle strutture politiche alle amministrazioni centrali statali.

L’Italia in declino è in parte demolita anche da questo ceto burocratico, come il gigante Titios che, secondo il mito, giace nell’Acheronte divorato dai rapaci. Il poeta romano Lucrezio commentava con macabro sarcasmo che difficilmente potrebbero trovare molto da frugare nel suo corpo per il resto dell’eternità. Prima o poi del cadavere non resterà nulla.

Georg Simmel, il primo a descrivere lo spirito metropolitano

Lo scrittore tedesco George Simmel, nel 1903 pubblicava La metropoli e la vita dello spirito, sorprendentemente attuale nel descrivere la vita degli uomini nei grandi agglomerati urbani. Quando noi “pensiamo” la metropoli, secondo le forme architettoniche, letterarie e cinematografiche che l’hanno descritta per tutto il Novecento, pensiamo in realtà attraverso Simmel.
Honoré de Balzac è stato il primo a descrivere i soggetti che popolavano le grandi città, ma non ha avuto il tempo di osservare la trasformazione provocata dall’avanzamentotecnologico. Cinquant’anni dopo, Simmel comprende innanzitutto che la metropoli provoca un’intensificazione della vita nervosa che contraddistingue il carattere dell’uomo metropolitano: distaccato e a tratti indifferente, indicato con il termine francese blasé. «La base psicologica su cui si erge il tipo delle individualità metropolitane è l’intensificazione della vita nervosa, prodotta dal rapido e ininterrotto avvicendarsi di impressioni interiori ed esteriori».

L’uomo blasé è una conseguenza della vita alienata della grande città, dove il susseguirsi frenetico di stimoli e immagini colpiscono il suo sistema nervoso, causando una diminuzione della capacità di reazione. Simmel non da una connotazione negativa, non è un nostalgico della vita rurale, si limita a descrivere quel definisce spirito metropolitano.
La metropoli accentua gli stimoli modificando la percezione sensioriale nell’individuo con l’aumento di due fattori: velocità e quantità. Il passaggio dal piccolo al grande centro mina il precedente equilibrio mentale e per adattarsi ai nuovi stimoli, l’individuo potenzia un organo che Simmel chiama intelletto, inteso come una zona psichica molle e dinamica. L’intelletto cattura e neutralizza gli impulsi, si adegua meglio alla vita metropolitana, in contrapposizione alla sentimentalità, una modalità di percezione alle sollecitazioni esterne incapace di adattarsi ai cambiamenti. Il contrasto intelletto/sentimentalità suggerisce un’altra dicotomia tra intenzione morale e intenzione allegorica.

La differenza tra metropoli e piccola città consiste nella velocità di adattamento alle abitudini: nel contesto urbano ridotto esse si conservano e si ripetono, mentre nella grande città,  si creano e si sfaldano rapidamente. A questo rapido susseguirsi corrisponde una trasformazione di ordine psichico: alla precedente intenzione morale – fondata sulla conservazione e ripetizione delle abitudini – il tipo metropolitano sostituisce una nuova intenzione allegorica – fondata sulla rapida e incessante costruzione e distruzione di abitudini. Come già detto, il risultato dello spirito metropolitano è il tipo blasé: «L’essenza dell’essere blasé consiste nell’attutimento della sensibilità rispetto alla differenza fra le cose, non nel senso che queste non siano percepite – come sarebbe il caso per un idiota – ma nel senso che il significato e il valore delle differenze, e con ciò il significato e il valore delle cose stesse, sono avvertiti come irrilevanti. (…)
Il blasé è il tipico soggetto metropolitano, perché in esso si condensa e si riflette la molteplicità degli stimoli che si attivano. Nell’individuo, l’euforia dovuta alla moltiplicazione delle sollecitazioni esterne si rovescia nel suo opposto: nella sensazione che tutto sia stato vissuto, effimero, vano e illusorio. In questa condizione l’individuo vive le proprie esperienze quotidiane non tanto attraverso il filtro del dovere e della morale, ma attraverso il desiderio.

Nella vita della metropoli è sempre attivo questo particolare stato psichico “desiderante”, pieno di cose concrete e di illusioni. Il rapporto tra abitanti nella metropoli  è più riservato e meno intenso. Simmel spiega come il continuo contatto con le persone non può corrispondere a un avvicinamento interiore della stessa intensità dei piccoli centri, dove più o meno ci si conosce tutti. Nella metropoli un contatto così stretto rischia di portarci a una condizione psichica precaria e persino quella sottile “antipatia” che sembra caratterizzare l’individuo metropolitano rappresenta una forma di difesa necessaria per l’equilibrio vitale.
«Tutta l’organizzazione interna di un sistema di relazioni così estese riposa su una gerarchia altamente differenziata di simpatie, indifferenze, avversioni, a volte fugaci, a volte durature (…) Da questi pericoli tipici della metropoli ci preserva l’antipatia, lo stadio latente e preliminare dell’antagonismo pratico, che produce quelle distanze e quel voltar le spalle senza cui la forma di vita metropolitana non potrebbe affatto esser praticata: le misure e le miscele dell’antipatia, il ritmo del suo apparire e scomparire, le forme in cui viene appagata – tutto ciò forma un’unità inscindibile nella condotta di vita metropolitana con i motivi che, in senso stretto, tendono a uniformare gli individui: così ciò che in questa forma di vita appare immediatamente come dissociazione è in realtà soltanto una delle forme elementari di dissociazione».
Questa “distanza” è utile alla sopravvivenza individuale e alla convivenza sociale. Essa permette di catturare e dimenticare al tempo stesso gli sguardi incrociati, di accettare i comportamenti degli altri senza reazioni emotive eccessive. Più difficile nella città piccola, dove non si passa “inosservati”, mentre nella metropoli si è “osservati” e subito dimenticati. La maggiore brevità e rarità degli incontri metropolitani, impone una maggiore attenzione al modo di presentarsi e modifica le modalità di formazione della fiducia, dovendosi quest’ultima dilatarsi in un tempo molto più ampio rispetto alla città piccola, dove la frequenza e la durata degli incontri offre un ritratto più nitido della personalità dell’altro.
Simmel vede nella metropoli una maggiore libertà. In provincia le ridotte dimensioni dei gruppi sociali impongono all’individuo ruoli più definiti e istituzionalizzati, all’interno si è più sorvegliati e di conseguenza si riduce la propria libertà d’azione. Nella metropoli è concesso un genere e un grado di libertà maggiore come spiega Simmel: «Nella misura in cui il gruppo cresce – nel numero, nello spazio, per importanza e contenuti di vita – la sua unità interna immediata si allenta, la nettezza dei suoi confini originari viene mitigata da relazioni e connessioni con altri gruppi; e contemporaneamente l’individuo guadagna una libertà di movimento che va ben oltre i vincoli posti dapprima dalla gelosia del gruppo (…)».

L’esperienza del Surrealismo

I fuochi della prima guerra mondiale si sono spenti da poco e a Parigi vivono la maggior parte degli animatori dell’arte più eversiva. Francis Picabia, Tristan Tzara, Max Ernst, Marcel Duchamp, Man Ray. È a loro che guardano con ammirazione due giovani intraprendenti, Andrè Breton e Philippe Soupault.

Siamo in pieno sviluppo di quella vita metropolitana, caratterizzata da una moltiplicazione esponenziale degli stimoli sull’individuo, ben compresa e descritta da Simmel, anni prima.
Il mondo dell’arte non resta immune. La fondazione della rivista Littérature, con il contributo decisivo di Louis Aragon, diventa il laboratorio attraverso il quale maturano le esperienze che porteranno al Surrealismo. All’inizio l’obiettivo è ancora quello di un’arte “totale” ovvero di un atteggiamento comune a tutte le discipline, dal teatro alla pittura, in grado di sminuire le singole tecniche e i relativi linguaggi in favore di una creatività legata all’umore dell’individuo che sceglie di volta in volta lo strumento per esprimersi.
La parola deriva da sur-réalisme, contenuta nel programma di sala di Parade, spettacolo di Guillaume Apollinaire, andato in scena il 17 maggio 1917 al teatro dello Chatelet.
Littérature promuove e organizza delle serate sull’esempio di quelle futuriste e del Cabaret Voltaire di Zurigo che diede origine al movimento Dada. Da lì parte tutto. Breton è prima una “dadaista” ma poi si distacca progressivamente perché vuole strutturare il movimento e i dadaisti rifiutano per principio questa idea. L’incontro e poi lo scontro con Tristan Tzara è decisivo per Breton. I due, insieme a Marinetti sono l’esempio tipico dell’uomo dell’avanguadia artistica: sradicato, deviante, ironicamente critico verso il sistema di valori della società.

Tra il 1920 e il 1925 succede di tutto: serate folli a teatro, conferenze, manifestazioni di disturbo all’interno di occasioni ufficiali (far notizia e balzare agli onori della cronaca è una strategia ispirata al Futurismo italiano), congressi programmatici, volantini e interventi provocatori su riviste, al limite dell’arroganza.
Di Dada, il nascente Surrealismo prosegue l’idea di voler essere un modo di vivere a agire radicale più che un orientamento creativo in senso stretto: di Dada rifiuta, come emerge dalla rottura tra Tzara e Breton che avviene nel 1922 tra roventi polemiche, il sottofondo troppo nichilista vagamente apocalittico.
Breton è affascinato dagli eventi della rivoluzione sovietica e scorge nell’arte un altro modo di intervenire nelle realtà sociale. Almeno fino al 1925, si trasforma nel custode di un rigorismo rivoluzionario e di una proclamata ortodossia surrealista che lo porterà a decretare molte scomuniche verso De Chirico, Artaud, Aragon e persino a Soupaul.
L’interesse preminente delle ricerche del primo Surrealismo è verso i linguaggi intesi come meccanismi in cui il senso, anziché essere manifestato, viene mistificato. Si riscoprono in questo ambito alcuni versi di Rimbaud, Ducasse e Roussel, in cui la chiarezza della forma lascia il posto al suono oscuro, al significato ambiguo delle parole, alla dissoluzione della struttura del discorso.
Si affrontano temi come la psicoanalisi, l’esoterismo, l’ipnosi, il sonno, tutte quelle situazioni di “sospensione della razionalità”, in cui si ritiene che l’individuo esprima la singolarità più autentica senza il filtro della consuetudine. Ancora, su un piano più legato alle modalità e alle tecniche del linguaggio, molta importanza si attribuisce al calembour, al paradosso verbale, allo humor.
Si legge nel “Manifesto del Surrealismo” redatto da Breton nel 1924: “Automatismo psichico puro mediante il quale ci si propone di esprimere sia verbalmente, sia per iscritto o in altre maniere il funzionamento reale del pensiero, è il dettato del pensiero con l’assenza di ogni controllo esercitato dalla ragione, di là da ogni preoccupazione estetica e morale”.
La scrittura automatica viene descritta da Breton e Eluard nel Dictionnaire abrégé du surréalisme: “Gioco consistente nel far comporre una frase, o un disegno, da più persone senza che alcuna di esse possa tener conto della e delle collaborazioni precedenti (…)”
L’esempio classico di questa tecnica è il “cadavre exquis”, che da nome al gioco: “il cadavere squisito berrà il vino nuovo”. Sullo stesso livello, l’esperienza di Robert Desnos che nel 1922 compone una serie di aforismi e giochi verbali in condizione di sonno ipnotico.
Per quanto concerne le ricerche sull’arte in generale, la svolta avviene alla fine del 1924, con l’uscita del primo numero della rivista La Révolution Surréaliste e la creazione del Bureau central de recherches surréalistes, aperto l’undici ottobre 1924 al 15 rue de Grenelle, una specie di centrale ideologica del movimento. La rivista ha tra i suoi esponenti principali: éluard, Crevel, Artaud, Duchamp, Masson, Ernst e altri.
L’anno successivo Breton captando le mutazioni avvenute nella ricerca artistica, inizia a teorizzare il surrealismo nella pittura che prende forma in una mostra alla galleria “Pierre” con de Chirico, Klee, Ernst, Arp, Mirò, Picasso, Man Ray e Pierre Roy. In verità Breton si limita a registrare una tendenza artistica che si stava delineando in modo autonomo e cerca anche in questo caso di definire una serie di regole da osservare, ma il confine è sottile, come si può imbrigliare in un’ideologia una pittura legata a stati alterati della psiche, alla sospensione del razionale?
Da un lato come guardiano della “fede”, Breton può bollare come segno di compromissione mondana le scenografie di Ernst e Mirò per i Balletti Russi. Per altro verso, comincia un attività di proselitismo attraverso nomi come Mesens, Magritte, Dalì, Tanguy, Delvaux, per ottenere quel successo e quella diffusione del Surrealismo, com’era stato per il Futurismo negli anni precedenti. Il duro lavoro porta a risultati concreti: nel 1926 apre i battenti la Galerie Surréaliste, luogo di mostre e manifestazioni. Da quel momento il Surrealismo è una realtà riconosciuta e rispettata nel mondo dell’arte.
Sogno, zone oscure della coscienza, automatismo psichico, allucinazione, confusione di segni e parole. Tutti elementi che ritroviamo nelle opere surrealiste, soprattutto nelle arti visive dove una serie di deroghe alle regole classiche, trovano una pedissequa applicazione con eccessi al limite del kitsch.
È il caso di due surrealisti della prima ora, Ernst e Mirò. Il primo, già esponente del Dada tedesco, è artefice di collages con inserti oggettuali ed esperto del frottage, una tecnica di disegno e pittura, basata sullo sfregamento e già nota nell’antica Grecia. L’immaginario di Ernst è composto da visionarietà nordica, incline al mostruoso e all’angoscioso con riferimenti all’esoterismo rinascimentale. Mirò invece, utilizza una tecnica stilistica omogenea e classica, ma dipinge forme e segni riferiti a elementi primitivi, ricchi di colori per ottenere un effetto cromatico potente.
Proviene dal Dada anche Man Ray, che in questi anni prosegue la pratica dei “raygraphs”, basati sulla tecnica della stampa a contatto, con l’uso sapiente del fotomontaggio e delle solarizzazioni. Il tutto per dimostrare come la tecnica fotografica non si riduca alla semplice riproduzione di immagini catturate nella realtà visibile, ma possiede infinite possibilità. In quel periodo, Ray è attivo in una serie di sperimentazioni cinematografiche: nel 1923 realizza Retour à la raison, l’anno successivo partecipa con Duchamp, Picabia e Satie a Entr’acte di Renè Clair, nel 1926 sempre con Duchamp e Marc Allégret fa Anémic cinéma e poi realizza un’altra pellicola Emak Bakia. Nel 1929, lo stesso anno del Chien andalou, di Bunuel e Dalì, gira Les Mystéres du château de dé.
Tali sperimentazioni hanno tutte un solo filo conduttore: nulla vogliono né significare, né esprimere, rendendo omaggio al caso, all’assurdo, agli inciampi della ragione e del linguaggio. Caso a parte è quello di Salvador Dalì. Inviso agli altri esponenti del movimento per il suo esibizionismo e per la spasmodica ricerca di notorietà, egli è il teorico della “paranoia critica”, che definisce «metodo spontaneo di conoscenza irrazionale basato sull’associazione interpretativo-critica di fenomeni deliranti». Infatti tutte le immagini e le figure, sono forme che si agitano nell’inconscio dell’artista catalano che riproduce sulla tela ciò che l’irrazionale fa apparire e che Dalì chiama “paranoia”. Così si spiega il contesto onirico in cui si combinano figure simboliche e allusive.
Alla fine del decennio, l’irrequieto gruppo surrealista si sfalda definitivamente. La scelta di Breton di passare a una politicizzazione del movimento, che lo porterà a chiudere La Révolution Surréaliste e a pubblicare, tra il 1930 e il 1933, Le Surréalisme au service de la Révolution, allontana autori come Bataille, Limbour, Masson, Vitrac, più interessati a temi come l’antropologia e il sacro che affrontano nella rivista Documents.
Nel 1933, poi, la rivista Minotaure, fondata dal Albert Skira, aggregherà il gruppo stretta-mente artistico: Tanguy, Dalì, Duchamp, Mirò, Arp, de Chirico, Bellner.
Nel gennaio 1938 si tiene alla Galerie des Beaux-Arts di Georges Wildenstein, a Parigi, l’Exposition Internationale du Surréalisme, celebrazione del movimento proprio nella fase della sua crisi definitiva.

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