demagogia è il vocabolo usato dai democratici, quando la democrazia li spaventa (Nicolás Gómez Dávila)

REVOLVER

Mese: Giugno 2015

Immigrazione, sradicamento e ipocrisia dell’accoglienza

È più facile evitare gli argomenti che si giudicano “scottanti”, con tutto il carico di emotività che si trascinano, piuttosto che affrontarli direttamente. È una variante della politica dello struzzo. Taci e tutti sono ben disposti intorno a te. Il tema dell’immigrazione è un argomento che può scatenare risse interminabili, soprattutto se si esprimono posizioni intransigenti. Essenzialmente si confrontano sul problema due approcci che si differenziano solo sul grado di intensità dell’accoglienza: il primo rigido e legalista, il secondo aperto e più cedevole. I due approcci condividono il medesimo assunto di fondo: l’ineluttabilità del fenomeno migratorio, secondo le dimensioni attuali. Si tratta di una posizione che considera quella dell’emigrazione solo una problematica legata al numero delle presenze e alle risorse disponibili. Le posizioni radicalmente critiche verso l’immigrazione non hanno diritto di cittadinanza, il perché è fin troppo semplice spiegarlo: si finisce subito per essere impregnati da una caligine di razzismo e xenofobia, pietre dello scandalo nel paesaggio contemporaneo. Tertium non datur.


Il fenomeno viene per lo più avvertito in chiave emotiva, senza una politica organica in grado di far fronte efficacemente all’aumento dei flussi migratori. Non a caso si parla sempre di “emergenza” e prevale la logica del provvedimento tampone, come a certificare la mancanza di strumenti legislativi idonei e di una visione d’insieme del fenomeno. A prevalere è l’umore del momento, condizionato dall’ennesimo caso delle morti in mare aperto. Tutto si confonde: il dovere di soccorrere dei disperati lascia sullo sfondo la questione cruciale di chi può restare sul nostro territorio, a che condizioni e con quale impatto nella società. I sostenitori delle “porte aperte” al migrante mescolano con furbizia e sapienza la retorica dei diritti umani e la logica del mercato. Un elenco sommario degli argomenti che sovente capita di leggere e ascoltare in rapporto all’immigrazione, sono di una pochezza desolante:
– le emigrazioni ci sono sempre state,
– noi siamo stati un paese di emigranti e quindi abbiamo un obbligo (morale? giuridico?) nei confronti dei nuovi arrivati;
– gli immigrati ci arricchiscono culturalmente e sono una risorsa economica e fanno i lavori che gli italiani rifiutano.


Innanzitutto, i grandi spostamenti di popoli avvenivano in territori poco popolati. Le tribù germaniche che si mossero a partire dal II-III secolo d.c. trovarono spazi e risorse, oppure se li conquistarono con la spada. Se invece, facciamo una comparazione con l’emigrazione dall’Europa verso gli Stati Uniti, non dobbiamo dimenticare anche in quel caso l’abbondanza di risorse e di spazi disponibili. Gli USA sono una nazione formatasi in questo modo, che si è costruita una propria identità non senza tensioni, violenze interne e con un equilibrio sempre precario. Gli attuali flussi migratori interessano l’Italia e altre nazioni europee già densamente popolate e in difficoltà nel garantire adeguati livelli di protezione sociale. L’accoglienza non è un obbligo, soprattutto in una fase economica così difficile. 
Gli immigrati sono effettivamente una risorsa al servizio del capitalismo per quei settori produttivi dove avviene una continua compressione del costo del lavoro, sfruttando una manodopera poco incline alle rivendicazioni sul salario e la sicurezza. Un immigrato è sempre disposto a fare un lavoro “sottopagato”, cosa che è avvenuta in molti paesi generando un forte conflitto sociale dentro un contesto di perversa competizione al ribasso.

Adesso che siamo giunti alla seconda generazione, siete convinti che si accontenteranno di un “basso profilo” socio-economico? D’altronde perché dovrebbero? Si invocano le differenze identitarie come elemento di arricchimento, quando si tratta di legittimare l’immigrazione, ma con spregiudicata disinvoltura si definiscono una “finzione” o addirittura indice di razzismo quando ci si appella allo loro difesa per criticare il fenomeno migratorio. Sull’arricchimento culturale, le parole di Geminello Alvi compendiano bene quel che pensiamo: «(…) Sono la plebe cosmopolita, che veste in blue jeans come una volta vestivano solo i contadini americani. E come oggi vestono tutti. Ascoltando lo stesso rumore finto musica. Anche perciò la società multiculturale è un’idiozia. Il collante tra l’immigrato e le nazioni che l’ospitano anche in Europa non è né la cultura dell’immigrato né quella di chi lo ospita: è la sciatta cultura delle plebi americanizzate da abiti, tv, dischi, computer. Scriveva Miller che la vita è ormai un incubo ad aria condizionata; aggiungerei che parla l’inglese». (1)


L’immigrato errante, come il capitale e le merci, è parte di un processo di sradicamento epocale e funzionale solo alla globalizzazione finanziaria. Si impoveriscono intere aree del pianeta, costringendole ad assumere un modello mercantile estraneo alle loro tradizioni, creando così le premesse materiali all’emigrazione. Si spingono le popolazioni a venire da noi prospettando loro un avvenire che però, guarda caso, si è del tutto disinteressati a favorire nelle loro terre. In ultimo in Occidente, un senso di colpa collettivo, incentiva il business dell’intervento umanitario con organizzazioni caritatevoli pronte a intervenire nelle zone più povere per raddrizzare le “storture” del Sistema di cui esse sono parte integrante.
Il contrasto all’immigrazione è un banco di prova decisivo, se non verrà affrontata, da adesso, con fermezza e rigore, non ci saranno futuri provvedimenti restrittivi in grado di bloccarla. Ogni processo storico, infatti, ha un punto di non-ritorno, scavalcato il quale la reversibilità, ossia la concreta possibilità che di individuare alternative, si rovescia in irreversibilità.


NOTE
1. Di globale vedo solo l’impero americano (Corriere della Sera, 16 luglio 2001)

Gli Usa non vogliono combattere l’Isis

Un documento della DIA (Defence intelligence Agency) degli Stati Uniti, datato 12 agosto 2012 e all’inizio classificato “Secret/Noform”, è stato reso pubblico lo scorso 18 maggio, su richiesta della fondazione Judicial Watch. Il documento dimostra come gli Stati Uniti disponessero di adeguate informazioni sul campo rispetto alla consistenza dell’ISIS e sulle capacità militari dell’organizzazione terroristica. Tuttavia l’organizzazione terroristica viene considerata non come una minaccia ma una “risorsa strategica” per isolare la Siria e mettere in crisi il suo governo. Infatti, non viene esclusa la possibilità di formare uno stato di matrice ideologica salafita (funzionale agli interessi statunitensi nella regione mediorientale).


Al punto 8.C: “Se la situazione degenera c’è la possibilità di dichiarare un principato salafita aperto o segreto nella Siria orientale (Hasaqa e Dayr al-Zur, questo è esattamente ciò che le potenze che sostengono l’opposizione vogliono per isolare il regime siriano, considerato una profondità strategica dell’espansione sciita (Iraq e Iran) (…)”


In un altro paragrafo si segnala che il governo di Assad continuerà a mantenere il controllo dei punti strategici del territorio e pertanto, si raccomanda la creazione di una zona di sicurezza a ridosso del confine siro-iracheno, per continuare la “guerra per procura” e mantenere un elevato livello di tensione. Quello che emerge dai documenti dell’intelligence americana è proprio la scarsa volontà di contrastare lo Stato Islamico, perché come Al Qaida in passato, agitare lo spauracchio dei terroristi pronti a colpire in ogni angolo del pianeta è utile per consolidare le proprie posizioni di potere. D’altronde chi ha liberato nel 2007 da Camp Bucca, il sedicente califfo Al Baghdadi? Continuano a mentirci.


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