demagogia è il vocabolo usato dai democratici, quando la democrazia li spaventa (Nicolás Gómez Dávila)

REVOLVER

Mese: Febbraio 2015

Cina e Russia unite dal gas.

Il 21 maggio 2014 la Russia ha siglato un accordo per fornire alla Cina 38 miliardi di metri cubi di gas all’anno per trent’anni. L’accordo con la Cina ha fornito alla Russia l’ossigeno a est per tentare un contrattacco a ovest in difesa dei propri interessi: l’Ucraina è il campo di battaglia, il corral dove avviene la sparatoria tra russi e americani, con tedeschi e francesi nel tentativo disperato di fare la parte degli sceriffi. 
L’accordo tra Russia e Cina è arrivato dopo trattative durate anni ma giunte allo snodo decisivo l’anno scorso, quando Gazprom e Cupe (China National Petroleum Corporation) siglarono un memorandum d’intesa che poi ha portato alla firma, chi ama le coincidenze sospette noterà che la lunga trattativa russo-cinese si è esattamente svolta il parallelo con il negoziato affrontato dall’Ucraina per arrivare alla firma (27.06.2014) dell’accordo di associazione e cooperazione economica con l’Unione Europea.

Fino a che punto sono coincidenze?

Secondo la terza legge della dinamica fisica a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. Principio applicabile alla politica reale delle due super-potenze. Quello tra Russia e Cina mette per la prima volta a stretto contatto il maggior detentore, estrattore ed esportatore di risorse energetiche con il maggior consumatore delle stesse. A questo dato possiamo aggiungere che la Cina, il paese più popoloso, si aggancia alla Russia, il paese più vasto del mondo e dotato del 10% delle terre fertili del pianeta e del sottosuolo più ricco. Tutto questo avviene tra due nazioni che si sono a lungo guardate in cagnesco, nonostante un confine di oltre quattromila chilometri. Occorre tuttavia definire le giuste proporzioni. In primo luogo, il volume relativamente ridotto delle consegne: 38 miliardi di metri cubi di gas l’anno, ma solo a partire dal 2018 e solo dopo il completamento del gasdotto diretto che comporterà una spesa di 50 miliardi di dollari per Mosca e 20 per Pechino. Poca roba di fronte ai 160 miliardi di metri cubi che in media negli ultimi quattro anni la Russia ha venduto all’Europa che genera il 40% degli incassi di Gazprom.

Niente di nuovo?

Da decenni la politica energetica e la politica estera, sicurezza degli approvvigionamenti e sicurezza tout court sono diventati sinonimi. Il patto siglato tra Putin e Xi Jinping ha provocato una scossa molto forte, perché incide sulla cosiddetta “politica di contenimento” degli Stati Uniti.

La Cina ha un problema di vulnerabilità delle sue linee di rifornimento energetico, oggi basate su quella che viene definita la “collana di perle”. Si tratta di una serie di basi commerciali e militari che Pechino ha impiantato sul proprio territorio (Hong Kong, Isola Hainan), su territori contesi (Isole Spratly , Isole Paracel) oppure in seguito ad accordi con paesi come Cambogia, Thailandia, Myanmar, Bangladesh, Sri Lanka, Pakistan, Kenya fino a Port Sudan (Sudan del Nord). L’obiettivo è di proteggere i collegamenti con il Medio Oriente e con l’Africa che sono tuttora la più importante provvista energetica cinese perché circa il 70% del suo petrolio arriva da lì. Sono rotte lunghissime, dove bisogna infilarsi in piccoli spazi marittimi come gli Stretti di Hormuz (Golfo Persico), Bab El-Mandab (Mar Rosso e Oceano Indiano), Malacca (tra Indonesia e Malesia) e Lombok (tra Mar di Giava e Oceano Indiano). Acque turbolente, agitate, politicamente critiche e spesso militarizzate.

Ecco perché un accordo trentennale a prezzi ragionevoli e un solido collegamento via terra con la Russia rappresentano una soluzione conveniente. L’accordo è una risposta a tutti i tentativi americani di creare tensioni e destabilizzazioni negli stati che più direttamente si connettono a Mosca e Pechino. La prima ha tenuto una certa presa sull’Asia centrale e nello spazio ex sovietico, la seconda ha lavorato fino a garantirsi, oltre a una certa penetrazione commerciale, anche collegamenti energetici importanti con Turkmenistan (quarto paese al mondo per riserve di gas naturale), Uzbekistan e Kazakistan.

Gli Stati Uniti hanno continuato con la strategia di contenimento (leggasi “rompere le scatole”), cercando di creare una barriera all’espansionismo cinese, utilizzando il Giappone, l’Indonesia e in parte il Vietnam. Il più stretto legame tra Russia e Cina è un ostacolo notevole.

Accanto alle implicazioni di medio e lungo periodo, il patto energetico siglato tra Mosca e Pechino potrebbe avere conseguenze più immediate. Il gasdotto dovrebbe consegnare 38 miliardi di metri cubi di gas a partire dal 2018, un secondo impianto puntato verso le province occidentali della Cina, potrebbe far arrivare altri 61 miliardi di metri cubi l’anno. A sollecitare le inquietudini americane è il tracciato che dovrebbe raggiungere Blagovescenk per congiungersi al tratto cinese delle condotte e poi proseguire di nuovo in territorio russo fino a Vladivostok per rifornire di gas un grande impianto di liquefazione che la Russia dovrebbe costruire a partire dal 2018, destinato a sostenere le ambizioni del Cremlino per il mercato asiatico del gas naturale liquefatto (gnl).

Tutta questa manovra apparentemente complicata renderebbe il prezzo del gas russo più competitivo e se a questo aggiungiamo l’intenzione manifestata dalla Cina di acquisire una partecipazione importante nell’impianto di liquefazione russo in costruzione a Vladivostok, è facile capire come il gas sia alla base di un’operazione politica temeraria. Si tenta così di ridimensionare il progetto degli Usa di invadere il mercato mondiale di gas derivato da argille, ricavate dalla tecnica delle fratturazione idraulica (fracking). A Washington sognano di trasformarsi nell’Arabia Saudita del cosiddetto shale gas per sganciarsi almeno in parte dalla dipendenza e dalle turbolenze dell’oriente arabo.

Cosa c’entra tutto questo con gli spari nell’est ucraino? I gasdotti che attraversano l’Ucraina forniscono buona parte del gas che la Russia vende ai paesi europei. Ritrovarsi un governo ostile a Mosca, per di più freddo esecutore delle direttive statunitensi, ha innescato un conflitto locale con implicazioni internazionali. L’Europa, con l’azione di Germania e Francia, cerca non senza contraddizioni, di spegnere questo incendio.

Secondo voi Putin può accettare che Obama controlli i rubinetti del gas russo verso l’Europa?

Al cinema la vita straordinaria di Gertrude Bell


Il deserto è un luogo molto amato dal cinema, solo un regista come Werner Herzog si è spinto a sacrificare ottiche e macchine da presa per girare dentro una vera tempesta di sabbia. Il suo nuovo film, Queen of the Desert, è un ritratto dal tono epico di una donna poco conosciuta, Gertrude Bell, molto popolare fra i beduini del Medio Oriente agli inizi del XX secolo. Soprannominata Al-Khatun, La signora del deserto, è stata un’esploratrice di quel mondo e poi una spia dell’intelligence britannica, archeologa e una personalità politica notevole. Nel film è interpretata da Nicole Kidman.

Architetto della “pax britannica” in Medio Oriente oppure l’origine delle tensioni di quell’area strategica nel pianeta? Questione di punti di vista. Gertrude Bell è un nome che ai più dice poco, oscurata dal più famoso Thomas Edward Lawrence (Lawrence d’Arabia), ma la sua attività politica ha lasciato un segno indelebile. Nasce nel 1868 in una famiglia di “vittoriani eminenti”, industriali dell’acciaio: la nuova nobiltà del denaro contrapposta a quella del rango. A diciotto anni è la prima donna inglese a laurearsi in storia moderna a Oxford. A ventidue ha già trascorso vari mesi in Romania, in Germania, Persia e Turchia, ospite di uno zio diplomatico. A venticinque anni è l’autrice di Ritratti persiani, un libro recensito come un capolavoro. Parla cinque lingue oltre alla sua: tedesco, francese, italiano, turco e persiano. Grande cavallerizza, nuotatrice e alpinista. Alta e seducente, Gertrude ha tutti gli uomini ai suoi piedi, ma non è una donna da sposare e passa da una passione all’altra senza raggiungere un equilibrio. Il sogno di un matrimonio con dei figli pare irrealizzabile. A 30 anni, si rifugia in Medio Oriente, va in Egitto, Palestina e Siria. Scrive libri e articoli, si dedica all’archeologia e alla politica. Dal 1905 il mondo arabo diventa la sua patria, e il lavoro la sua ragione di vita. Bell visita molti territori arabi, studiandone le rovine archeologiche e risiedendo talora tra i Drusi e i Beni Sakhr, incontrando un gran numero di loro capi. Le sue osservazioni sono contenute nel libro Desert and the Sown del 1907 dove descrive il viaggio nelle città della Grande Siria (bilas al-Sham): Damasco, Beirut, Antiochia documentandolo con foto. Le vivide descrizioni di Bell fecero conoscere i deserti arabi al mondo occidentale, che di essi ignorava pressoché ogni cosa e molti di questi resoconti finirono nelle pagine del Times. Nel gennaio 1909, si sposta nell’antica Mesopotamia. Visita la città ittita di Carchemish , disegnandone l’area e descrivendo le rovine del sito preislamico  lakhmide di Ukhaydir; visita anche Babilonia e Najaf. Nel 1914 Gertrude è a Londra, in Europa si sta innescando la miccia della prima guerra mondiale, l’Impero Ottomano puzza di petrolio e sta cadendo a pezzi, francesi e britannici decidono di mettere da parte i contrasti e allearsi per evitare che la Germania prenda il controllo di quelle regioni. Due anni prima ha conosciuto Thomas E. Lawrence al Cairo, dove si sta organizzando l’Arab bureau per definire la strategia politica nei territori arabi. Lei è una celebrità: ha scoperto le rovine della mitica Ukhaidir e stampato un altro libro Da Amurath ad Amurath. Si racconta che cavalchi nel deserto in abiti principeschi, ceni ogni sera sotto la tenda a una tavola finemente imbandita e fumi tanto. Il giovane Lawrence ne rimane affascinato, più tardi lei lo chiamerà “il mio caro ragazzo”. Accomunati dall’amore per il Medio Oriente e dal patriottismo, hanno lo stesso obiettivo: convincere gli arabi a ribellarsi contro la Turchia con la protezione diplomatica della Gran Bretagna.

Nel 1916 lavora nell’Intelligence britannica al Cairo con Lawrence: è lei in un rapporto a indicare nel leader ribelle Ibn Saud e in Sharif Hussein, guardiano della Mecca, i due uomini più potenti d’Arabia sui quali puntare. Il Foreing Office la manda a Bassora come ufficiale di collegamento. Di là proseguirà per Baghdad. Da quel momento fino alla Conferenza del Cairo del 1921, dove sarà l’unico delegato donna, Gertrude Bell si trova al centro della politica mediorientale. Il suo mentore, Sir Percy Cox, l’emissario della Corona, la nomina Oriental Secretary, la massima carica dei servizi segreti.  L’impero ottomano si sgretola, la Gran Bretagna ne occupa gran parte dei territori, Germania e Turchia si ritirano sconfitte. In un altro saggio, “Arabi della Mesopotamia”, cui fa seguito un Libro Bianco, che rappresenterà la base del futuro equilibrio del Medio Oriente, Gertrude Bell caldeggia la nascita dell’Iraq e della Giordania accanto alla Siria, e preme affinché i figli di Sharif Hussein, Abdullah, il primogenito e Faisal, il secondo, ne siano proclamati re sotto la tutela britannica. L’avventura di Gertrude Bell termina qui. Dopo promesse e tradimenti, il tormentato Faisal accetta il trono iracheno, mentre il fratello diventa il primo monarca giordano. Londra è padrona del Medio Oriente e del suo petrolio, ma già è in arrivo un altro problema: la questione sionista. Per Lloyd George, il premier inglese, Gertrude è “il nostro uomo a Bagdad”. La “regina del deserto” resta nella capitale irachena come interlocutrice di Faisal, ma è stanca e depressa, comincia a isolarsi fino alla tragica fine: il suicidio con massicce dosi di sonnifero.

Chi era davvero il conte di Saint Germain?

Il conte di Saint-Germain è un misterioso personaggio vissuto nel secolo XVII in Europa. Molti cultori di scienze esoteriche lo considerano un maestro, altri alimentano il mito dell’Immortale al punto da considerarlo ancora vivo. Sulla vita e le avventure del Conte, esisteva un corposo dossier redatto dalla polizia al tempo di Napoleone che venne distrutto nel 1871 dal governo rivoluzionario della Comune di Parigi. Questa circostanza non ha fatto altro che accrescere la leggenda a scapito della verità storica.

La prima volta che il Conte di Saint Germain (nome falso) comparve in Francia era nel 1756. Brillante intrattenitore, appena cinquantenne ma dall’aspetto giovanile, si fece notare per le sue conoscenze di medicina e come alchimista. Non molto alto, i testimoni lo descrivono vestito con abiti sobri e non troppo vistosi come era moda nel Settecento.
Prima di approdare in Francia, Saint Germain era stato a Vienna dove conobbe il generale e di-plomatico francese Fouquet de Belle Isle che aveva contratto una malattia durante la guerra nei territori germanici. Il conte lo aveva guarito e come atto di gratitudine, il generale l’invitò a Parigi dove venne chiamato al capezzale di una donna di corte avvelenata da funghi non commestibili. Saint Germain, dopo averla guarita, entrò nel salotto della favorita di re Luigi XV, Madame de Pompadour. Le donne di corte lo trovavano affascinante e spesso lui si divertiva a sostenere che fosse in vita da qualche secolo. Straordinario affabulatore, fece spaventare una contessa del salotto, Madame Von Gergy, il cui marito era stato ambasciatore a Venezia.
La donna sosteneva di ricordare chi fosse realmente Saint Germain e gli chiese se in quel periodo fosse stato in Laguna. Alla risposta affermativa del conte, la donna ribatté: «Impossibile, signore, l’uomo da me conosciuto aveva all’incirca la vostra età». Saint Germain sorridendo, le disse di essere molto vecchio e descrisse una serie incredibile di dettagli sui luoghi veneziani citati dalla contessa che presa dallo spavento gridò: «Ma allora voi siete il diavolo!»

Un’altra traccia di Saint Germain si trova a Londra dove nel 1745 conobbe lo scrittore Horace Walpole che annotò nel suo diario: “(…) l’altro giorno mi è stato presentato un singolare indi-viduo che dice di chiamarsi conte di Saint Germain. Si trovava qui da due anni e non aveva mai rivelato la sua identità né da dove giungesse … Canta, suona il violino in modo sublime, compone; potrebbe trattarsi di un folle o di una persona eccessivamente sensibile. Lo ritengono tanto un italiano, quanto uno spagnolo o un polacco; qualcuno dice abbia fatto fortuna nel lontano Messico e abbia raggiunto Costantinopoli; altro lo dicono un imbroglione, un prete, un nobiluomo. Il principe di Galles ha cercato di soddisfare la propria curiosità sul suo conto, ma non ha cavato un ragno dal buco …”
La peculiarità del personaggio, unita a un incontestabile simpatia trova conferma nelle parole rivolte a Madame de Hausset, un’altra del giro di Madame Pompadour: «Ci sono volte in cui mi diverto non tanto a convincere la gente a credermi, ma a lasciarla credere che io sono al mondo da tempo immemorabile».

Cosa sappiamo di Saint-Germain? In una lettera autografa datata novembre 1735 lo troviamo all’Aja, in Olanda, ma non ne conosciamo il motivo. Dal 1735 al 1745 era in Inghilterra, dove fu arrestato ingiustamente come spia, riuscendo poi a dimostrare la propria innocenza. Come già detto nel 1755 si era trasferito a Vienna e su invito del maresciallo Belle-Isle andò a Parigi, diventando una delle attrattive dei salotti della capitale. Diceva di vivere grazie ad un elisir da lui stesso brevettato e molti testimoni ricordano che mangiasse pochissimo e spesso si intratteneva con i commensali senza toccare cibo.
Il suo interesse più grande era la chimica e la sua specialità era di ripulire i gioielli dalle impurità, tanto che alla fine il re di Francia decise di aprire un laboratorio al Trianon nella speranza che le tecniche di Saint-Germain risolvessero il problema della cronica mancanza di denaro a corte. Luigi XV nel 1760 lo inviò segretamente in Olanda in missione diplomatica, con lo scopo di son-dare la possibilità di un’alleanza con l’Inghilterra. Per pura combinazione Saint-Germain alloggiava nello stesso albergo di un altro avventuriero, Giacomo Casanova, anch’egli sul posto per conto del governo francese. I due si erano conosciuti e il veneziano ebbe l’impressione che si trattasse di un millantatore come riporta nelle Memorie: “Un uomo straordinario, nato apposta per il re degli impostori e degli imbroglioni specie quando, parlando in tutta tranquillità, come se niente fosse, dice di essere nato trecento anni fa, di conoscere i segreti della medicina universale, di poter padroneggiare le forze della Natura, di saper lavorare e fondere i diamanti … Eppure, nonostante la sua bonaria, la sua sfacciataggine, il suo volto da bugiardo incallito, il suo palese eccentrico modo di fare, eppure, dicevo, non posso proprio affermare che si tratti di un uomo maleducato oppure offensivo”.
Nel frattempo in Francia, il duca di Choiseul ministro del re contrario alla pace con l’Inghilterra, venuto a conoscenza della missione aveva tramato contro Saint-Germain per farlo arrestare. Fu l’ambasciatore olandese a salvare il conte avvisandolo in tempo e consentirgli di scappare a Londra. Saint-Germain invece di starsene tranquillo in Inghilterra cominciò a calarsi nei panni dell’agente in missione segreta e chiese di incontrare l’ambasciatore di Prussia nella speranza di essere accolto alla corte di Federico il Grande. Terrorizzato, l’ambasciatore si era affrettato a scrivere al segretario di stato prussiano per metterlo in guardia dal conte e dal suo fascino ipnotico che avrebbe potuto incantare il re. A questo punto Saint-Germain dovette rientrare segretamente in Olanda, dove acquistò una proprietà sotto falso nome. A corto di denaro, non fu abbandonato dalla fortuna trovando un altro protettore nel ministro dell’Olanda austriaca, Coblenz. Il politico rimase talmente infatuato da scrivere una lettere piena di entusiasmo al cancelliere Kaunitz sulle capacità di Saint-Germain di lavorare i metalli e i tessuti. Coblenz intuendo il potenziale commerciale dei processi industriali brevettati dal conte, aprì uno stabilimento nei pressi di Tournai. Saint Germain si fece anticipare centomila fiorini e sparì consegnando solo una parte dei brevetti e dei segreti pattuiti. Ad ogni buon conto, gli stabilimenti di Tournai funzionarono bene, fecero guadagnare denaro, prova della buona fede del conte.

Gli spostamenti di Saint Germain nei dieci anni successivi non sono noti, sebbene disse di essere stato in India. Certamente era andato a San Pietroburgo diventando amico del conte Alexei Orlov ammiraglio e importante uomo politico russo. Per motivi ignoti il conte si ritrovò a essere nominato generale dell’esercito russo. Nel 1774 è in Germania a Schwabach, sotto la protezione di Carlo Alessandro margravio del Brandenburgo che rimase colpito dal conte e fu testimone della sua grande amicizia con Orlov. Due anni dopo riprese a viaggiare: Lipsia, Dresda, Berlino dove sperava di farsi ricevere da Federico il Grande e poi di nuovo verso nord ad Amburgo. L’ultima dimora conosciuta di Saint-Germain è un laboratorio nei pressi del castello dei Eckenforde, nella regione dello Schleswig-Holstein, ospite del principe Carlo Hesse-Cassel e dove morì nel febbraio del 1784.
Saint-Germain era morto da qualche mese quando cominciarono a circolare le voci su presunte ricomparse e apparizioni. Madame de Genlis era sicura di averlo visto a Vienna nel 1821. Nel 1836 in un libro intitolato Souvenirs, l’autrice, la contessa d’Adhémar, disse di averlo incontrato cinque volte dopo la sua presunta morte e di averlo visto la prima volta a Versailles nel 1793 negli ultimi giorni della monarchia. Nel 1845 Franz Greffer dichiarò nelle sue Memorie di aver visto il conte di Saint-Germain che gli aveva annunciato che sarebbe ricomparso sui monti dell’Himalaya verso la fine del secolo. Un cumulo di menzogne e mezze verità di personaggi in cerca di visibilità. Misterioso fu senza dubbio Richard Chanfray che nel 1972 comparve alla televisione dichiarando di essere il conte di Saint-Germain e mostrando in diretta televisiva un esperimento di mutazione del metallo in oro con un semplice fornello da campo.

Avventuriero carismatico? Maestro custode di una sapienza segreta? L’enigma di Saint-Germain non è stato risolto. Solo l’ambasciatore prussiano a Dresda seppe cogliere un elemento della personalità del conte conforme alla società del Settecento: “una sorta di disordinata vanità sembra costituire il meccanismo del suo modo di essere”.

Sparare o non sparare? L’Italia e il rompicapo libico

In Libia non esiste nessuna forza politica o tribale, nessuna milizia o gruppo organizzato in grado di esercitare la sovranità nazionale. È la conseguenza della scellerata e ipocrita scelta della Francia e della Gran Bretagna, di bombardare il paese con la copertura della Nato per rovesciare Gheddafi. L’Italia riluttante dovette adeguarsi e ora il fantasma del rais ci tormenta, mentre vediamo le tribù armate in lotta e le bandiere nere del sedicente califfato sfilare per le strade.
Ve lo ricordate cosa disse Muhammar? «La scelta è tra me o Al Qaeda L’Europa tornerà ai tempi del Barbarossa».
La Libia è un caso disperato, spaccata tra il governo di al-Tinni che opera a Est tra al Bayda e Tobruk nei pressi del confine egiziano e le milizie “rivoluzionarie” di Misurata e i loro alleati che controllano Tripoli nella parte ovest. Prima del 2011 il territorio era governato con il pugno di ferro del colonnello Gheddafi che per quarantadue anni, grazie alla sua sperimentata abilità nel contrattare il consenso con le varie tribù e i poteri locali informali delle tre macroregioni: Cirenaica, Tripolitana e Fezzan.
Oggi è tutto fuori controllo e quella che ancora identifichiamo come Libia sulla mappa geografica è solo un guazzabuglio di territori controllati da milizie armate in lotta e tutte con uno sponsor esterno. In palio c’è il controllo dei pozzi e il relativo flusso di petrodollari. Le milizie dello Stato Islamico si sono inserite a pieno titolo nella battaglia e ogni tentativo di mediazione nei mesi scorsi dell’Onu e dell’Italia è fallito. Roma deve fronteggiare una situazione disastrosa, si invoca una soluzione diplomatica e un dialogo tra le parti. Ma con chi e con quali interlocutori?
In Libia i miliziani del Califfato si sono insinuati nelle fratture create dalla guerra civile, tanto da riuscire ad erodere il potere decisionale dei capi tribù e dei loro consigli tribali. L’IS ha arruolato sempre più militanti delusi dalle filiali nordafricane di al-Qaida facendosi largo con la propaganda e la ferocia. I soldati di Abu Bakr hanno bombardato pozzi di petrolio e linee di collegamento, secondo una precisa tattica di guerra finalizzata a circondare e prendere il controllo di Tripoli, isolando e assediando i centri urbani che la circondano. Parte di questa strategia è anche nella comunicazione mediatica: sotto questo aspetto va interpretato l’orrendo video diffuso su internet il 14 febbraio sullo sgozzamento di 21 egiziani copti catturati e le minacce all’Italia “crociata”.

L’onda lunga del terremoto libico ci investe in pieno. Per la prima volta, da quando nel 1911 ci fu il primo sbarco a Tripoli che entusiasmò anche il mite Pascoli tanto da scrivere “la grande proletaria s’è mossa”, torna attuale la possibilità di un invasione militare. L’Italia deve decidere come riaffacciarsi sulla quarta sponda ma il suo retaggio culturale e la sua Costituzione che retoricamente all’art.78 ripudia la guerra come strumento d’offesa, impedisce di affrontare il discorso con la franchezza e la sincerità (amara se vogliamo) che il caso richiede.
È una cultura nazionale diffusa che rende difficile l’assunzione di responsabilità, che fa perdere di vista la dimensione politica del problema di fronte a una guerra reale per uccidere nemici combattenti. Il ricorso al camuffamento lessicale dell’inglese, con parole rassicuranti tipo “peacekeeping” non muta la sostanza del problema.
Il governo italiano può impostare un’azione politica e militare improntata al realismo e prendere atto che nessun governo è possibile a Tripoli in queste condizioni, con nessuna coalizione. Detta in altre parole, è necessaria l’occupazione militare di tutti i luoghi più importanti della Libia: città, pozzi, pipelines e vie di comunicazioni che collegano una costa di oltre 1700 chilometri. Da un punto di vista operativo oltre ai mezzi corazzati adeguati, occorrono almeno centomila uomini che però non siamo in grado di schierare. Da qui un’altra domanda: è realistico ipotizzare un massiccio intervento militare con francesi, inglesi e americani (i creatori del caos libico), visto che finora hanno ignorato le sollecitazioni italiane? Difficile.
L’ipotesi di intervenire con poche decine di migliaia di unità, per affrontare migliaia di combattenti con centri di comando diffusi e senza un quartier generale centralizzato, significa esporsi ad un fallimento assicurato. Scegliendo di percorrere la strada militare occorre farlo senza cautele o autolimitazioni. Altrimenti si può optare per una via diplomatica difficile e tortuosa, senza intervenire sul campo ma erigendo un muro militare difensivo nel Canale di Sicilia.
La via puramente difensiva che comporterebbe di fatto l’abbandono della Libia, potrebbe produrre come effetto l’installazione di un centro politico-terroristico sulle sponde del Mediterraneo. Soluzione poco eroica, ma obbligata se non c’è il coinvolgimento di altre nazioni. L’idea di inviare un contingente militare di cinquemila soldati, previa autorizzazione Onu, per difendere il governo libico che agonizza a Tobruk ci farebbe schierare con le milizie di Zintan e del loro alleato, l’esercito del generale Khalifa al Haftar, longa manus dell’Egitto, con il rischio di impantanarci in una palude sanguinosa. Il primo ministro al-Tinni e il generale Haftar non perdono occasione di presentare la loro lotta come parte dello sforzo generale “contro i terroristi”.
Una scelta di tipo “legalitario” ci farebbe incorrere in un grave errore politico, perché l’Italia si schiererebbe con forze politiche espressione della Cirenaica aggravando la cronica guerra civile con la Tripolitania e il Fezzan petrolifero che il metodo autoritario di Gheddafi aveva evitato. Un autentico rompicapo.

Riscaldamento globale: aumenta solo il conto corrente di Al Gore

Bjorn Lomborg è un famoso accademico danese noto da anni per il suo atteggiamento scettico sull’ambientalismo e in particolare sulla questione del riscaldamento globale.
Lomborg non nega che sia in atto un innalzamento delle temperature, ma è anche convinto che addossare tutto alle attività umane e gridare al disastro con toni da paranoia sia sbagliato. Da poco Lomborg ha pubblicato uno studio semplice e intuitivo: ha messo su un grafico sull’innalzamento delle temperature previsto dai modelli matematici dal 1975 al 2014 e lo ha confrontato con i dati misurati in questi anni.
Il risultato è sorprende è mostra l’evidente discrepanza tra le previsioni e la realtà: in molti casi gli “esperti” hanno previsto aumenti superiori del 60 per cento rispetto alle temperature effettivamente registrate (in alcuni casi la differenza è del 140 per cento).
Questo non significa, dice Lomborg, che il riscaldamento globale non possa rivelarsi un problema, ma eventuali correzioni si possono fare senza creare panico e terrorismo psicologico. Gli slogan più catastrofisti sulla necessità di “agire adesso” e le politiche di riduzione delle emissioni servono a poco e alimentano solo l’ipocrita mercato dei diritti d’emissione. Molti dati confermano che il riscaldamento del pianeta è molto lento e quindi non arrostiremo tanto velocemente. Solo Al Gore è bollito con tutta la sua compagnia di convegnisti.
L’ex vicepresidente degli Stati Uniti, da quando si preoccupa dello stato di salute del pianeta, ha notevolmente incrementato il valore del suo fondo di investimento “Generation Investment Management” che opera nei settori ambientali. Il suo conto in banca è aumentato più della temperatura terrestre.

Angela Merkel e il ritorno della Germania

Angela Merkel in questi giorni ha percorso migliaia di chilometri in lungo e in largo. Ha visitato sette capitali, ha discusso con i leader di Canada, Iraq, Stati Uniti, Russia, Ucraina e Bielorussia e qui, nella fredda Minsk, dopo sedici ore di negoziato è riuscita ad ottenere una tregua dei combattimenti della guerra ucraina. Invece a Bruxelles, un sorriso e una stretta di mano con Alexis Tsipras, hanno alleggerito la tensione tra la Atene e l’Eurogruppo. Il ministro delle finanze greco Varoufakis ha dichiarato che “è l’unica personalità politica in Europa con sostanza intellettuale”. Sarà pure captatio benevolentiae, ma coglie un segnale preciso: la Germania è tornata e la sua cancelliera è al centro della scena nelle crisi che minacciano più da vicino l’Europa. La sua clamorosa maratona diplomatica prima e dopo il vertice di Minsk è solo l’ultimo esempio di una svolta in corso da tempo: da “egemone riluttante” a protagonista della politica internazionale, capace di mediare con i litigiosi europei e nella contrapposizione tra Obama e Putin in Ucraina.
Paradossalmente, il potere di Angela Merkel non si fonda sul fatto di riuscire a vincere ogni battaglia politica, ma sulla capacità di fare un passo indietro al momento opportuno e sapersi riposizionare senza cedere troppo. La Germania che in passato è sembrata poco propensa a far pesare in campo internazionale tutta la sua potenza, ha mostrato un cambio di strategia. Merkel ha dimostrato una capacità politica notevole confermando l’orientamento della politica estera tedesca: più autonomia dentro il patto atlantico, polo geoeconomico con l’est europa e rapporti privilegiati con la Russia, non senza litigi e tensioni. Per questo gli americani hanno messo a freno la loro arroganza e represso certi pensieri bellicosi.
Nella notte di Minsk il grande assente era l’Alto Rappresentante della Politica Estera e di Sicurezza (il maiuscolo è volutamente enfatico) Federica Mogherini, prova dell’inutilità e dell’inconsistenza politica dell’Unione Europea. Lì c’erano Hollande e Merkel, la Francia e la Germania, l’Europa degli stati non quella delle burocrazie.
L’azione politica della cancelliera sta dimostrando come il paradiso kantiano popolato di democrazie in cui regna la pace perpetua, non esiste ed è lontano all’orizzonte. Il mondo è più fluido e caotico, le nazioni europee devono riscoprire il linguaggio dell’interesse e del realismo, rispolverando una mentalità vecchia ma efficace. È l’unico modo per tentare di plasmare un’èra multipolare e la Germania sta tracciando un percorso. Bentornato Bismarck.

La ripresa dell’azione diplomatica per disinnescare la “bomba ucraina”:auspici, accordi difficili e contraddizioni.

Incontri, telefonate, bozze di accordo, progetti. La diplomazia torna a muoversi per trovare una soluzione alla crisi ucraina, in accordo alle attese del presidente russo Vladimir Putin. Alla Casa Bianca ci sono quelli con il ghigno duro che vogliono armare l’esercito di Kiev e cercano di convincere Barack Obama che mostra una strana cautela. Gli europei aspettano prima di definire la strategia, ma in queste ore decisive decisive per disinnescare la bomba ucraina, il peso maggiore delle responsabilità ricade sulla Germania e su Angela Merkel che in queste ore è davvero sotto pressione. A Berlino li chiamano “Putin Versteher”, sono quelli che comprendono Putin. Tra i ventotto paesi dell’Unione Europea, nessuno come i tedeschi comprende meglio le ragioni della Russia: ci sono antiche connessioni storiche e questioni assai più materiali che giustificano la pazienza della cancelliera Merkel.

La Germania è il primo partner commerciale di Mosca, quello che ha più da rimetterci da un collasso economico russo e inoltre, è il terminale di quell’intesa eurasiatica che la scelta irresponsabile delle sanzioni ha deteriorato. Dopo un paio di mesi d’immobilismo, Merkel si è lanciata in nuovi colloqui per rispondere alla tentazione americana di gestire tutto da soli. Da questo punto di vista, la ripresa tedesca segue la mossa estemporanea del presidente francese Hollande che il 6 dicembre 2014, atterrava a Mosca dopo essere stato in Kazakistan, nel tentativo di ritagliarsi un ruolo da mediatore e salvare i rapporti economici franco-russi.
L’incontro al Cremlino tra Putin, Merkel e Holland lo scorso 7 febbraio, conferma in qualche modo una rinnovata volontà di riprende il controllo degli affari politici nel vecchio continente. Invece non deve stupire l’assenza di Federica Mogherini, il rappresentante della politica estera dell’UE, segno di come certi incarichi di cui tanto si vantano a Roma, non contino nulla. L’Italia che tra l’altro si mostra insofferente, è un importante partner commerciale della Russia ma non viene minimamente coinvolta nell’attività diplomatica di questi giorni. Ulteriore dimostrazione dell’incapacità e dell’inerzia del nostro vertice politico capace solo di allinearsi alle decisioni di Washington. Il ministro degli Esteri Gentiloni, ha ripetuto ancora una volta che l’idea di armare Kiev contro Mosca è un azzardo pericoloso e che «non c’è alternativa al negoziato». Salvo poi confermare che se gli americani dovessero decidere lo stesso di inviare armi, «l’Italia seguirebbe perché gli Stati Uniti sono il nostro primo alleato». Il tipico comportamento da lacchè.


Putin intanto nei giorni scorsi è volato al Cairo ospite del presidente egiziano Al Sisi e accolto come un eroe. I due hanno discusso di un accordo per la fornitura di armi all’Egitto, dopo aver già firmato a settembre un accordo da 3,5 miliardi e mezzo e un intesa per utilizzare monete locali e non più il dollaro negli scambi commerciali bilaterali, facendo innervosire gli americani. Il messaggio è chiaro, Putin trova nuovi alleati di cui potersi fidare.

Poroshenko durante la conferenza sulla sicurezza a Monaco di Baviera si è esibito in un misero spettacolo mostrando alcuni passaporti russi catturati al fronte che dimostrerebbero la presenza di truppe straniere. Forse Poroshenko poteva risparmiarsi i toni da melodramma visto che in Ucraina combattono da una parte e dell’altra decine di volontari stranieri, mercenari e avventurieri, gente che sta lì per motivi diversi. Poroshenko guida uno stato fallito, governato in passato da un’oligarchia corrotta e ora affidato a una banda di malfattori che guidano un esercito sfiancato e mandato allo sbaraglio.
Invece di esibire i documenti dei combattenti russi, dovrebbe mostrare i passaporti dei suoi amici come Hunter Biden, il figlio del vicepresidente degli Stati Uniti consigliere d’amministrazione della Burisma la più importante compagnia ucraina di estrazione del gas, controllata dalla società cipriota Brociti Investiment ltd, di cui era dominus un altro amico di Poroshenko, il presidente della Banca Privat, Kolomoyski, passaporto israeliano (e ucraino) che ufficialmente l’ha ceduta una società off shore di cui si perdono le tracce dei proprietari (forse è ancora lui).

La rivista Forbes (1) ci informa che questo gran signore nel 2006 ha assoldato delle bande di delinquenti per acquisire una serie d’impianti siderurgici a Kremenchuk, grazie anche a delle ordinanze di tribunale emesse da giudici corrotti. I giacimenti più interessanti si trovano proprio nelle zone contese e questo mette in pericolo la posizione dominante della russa Gazprom. È quasi scontato ricordare che sul campo di battaglia si incrociano interessi contrapposti e che quella in ucraina è prima di tutto una guerra economica per il controllo delle risorse. Torti e ragioni sono equamente suddivisi, ma non si deve dimenticare che ancora una volta gli Stati Uniti proseguono nelle loro attività di provocazione al fine di creare tensioni per mettere in crisi l’effimera unità europea e sabotare la politica di quei Paesi che intendono stringere rapporti più stretti con i russi.

NOTE

1. inchiesta di Forbes del 2013

L’Isis e gli amici del finto califfo

L’Islamic State non è quell’esercito dell’apocalisse che viene descritto dai media internazionali e dai maggiori leaders politici. Non vedrete questi aspiranti saraceni scorrazzare per le via di Roma e la bandiera nera del sedicente Califfato non sventolerà sulla cupola di San Pietro. Il barbuto Abu Bakr Al Baghdadi non lo vedrete passeggiare a Piazza del Popolo e non metterà fine al regno della vanità e del superfluo tra via dei Condotti e via del Corso. State tranquilli e continuate a sorseggiare i vostri drink, almeno per ora.

Abu Bakr, o forse sarebbe meglio chiamarlo Ibrahim ‘Awad al-Badri o forse Abu Du’a non è il successore della nobile stirpe di Muhammad, ma è solo un capobanda a capo di un’armata di fanatici con discrete capacità militari e rifornita di armi e soldi da amici potenti, in primis Qatar, Arabia Saudita e i loro complici nel lato occidentale: settori politici in combutta con spezzoni di servizi di sicurezza americani, francesi e britannici. Sulla testa del predicatore in rolex, pende una taglia di 10 milioni di dollari dall’ottobre del 2011 (qui) ma questo non gli ha impedito, nel maggio del 2013, di recarsi a Idlib, sul fronte siriano e conversare amabilmente con il senatore americano John McCain, insieme ai ragazzi del Syrian Free Army un mucchio di mercenari travestiti da oppositori politici.



Abu Bakr, il finto Califfo e tutta l’allegra brigata di John McCain


Il 10 giugno scorso, sui siti collegati al terrorismo islamico e su Twitter con l’hashtag SykesPicotOver (1) partiva la grande offensiva mediatica dell’autoproclamato Stato Islamico (IS) e il 5 luglio Abu Bakr compariva nella moschea di Mosul per rivolgere un’allocuzione ai fedeli e affermare il proprio dominio, ovviamente in nome di Dio.

Da quel momento, l’allora ISIL (riferimento geografico al Levante) è diventato IS (Islamic State) secondo l’acronimo inglese. Una specie di brand universale, senza riferimenti territoriali e rivolto anche a coloro che vivono fuori dal dar-al-islam, nelle terre degli infedeli. Lo Stato Islamico è diventato lo strumento maneggiato da una serie di attori geopolitici utile a sfruttare la rabbia di alcuni settori della comunità islamica per rivestire di spiritualità un conflitto economico finalizzato a definire un nuovo equilibrio in Medio Oriente.

La rivista online Dabiq, dal nome evocativo di antiche battaglie tra crociati e musulmani, fornisce dettagli sulle operazioni militari ma anche sulle attività sociali a favore delle comunità tribali. Promette il ripristino dei diritti di proprietà, ingenti finanziamenti ai servizi essenziali e ampia disponibilità di cibo e prodotti di consumo sul mercato. Rivolgendosi soprattutto a quelle tribù sostenute dai sauditi (e quindi dagli occidentali), per la rivolta sul terreno. Dabiq fornisce argomenti che servono al reclutamento, spiegando e giustificando la natura del califfato, le sue intenzioni, la sua legittimità politico-religiosa su tutti i musulmani, con un abile collage di testi classici, teorie politiche e nozioni di governo locale. L’IS è un eccellente comunicatore, scaltro nell’utilizzo di internet e capace di sfruttare quell’atteggiamento giornalistico che tende all’enfasi e deforma la percezione degli eventi. Abu Bakr è il nuovo “mostro”, ma il peso specifico dell’IS non deve ingannare, le atrocità commesse sono sconvolgenti, ma è sbagliato fissare lo sguardo solo sull’efferatezze compiute, perché così si distoglie l’attenzione su chi ci sia dietro al sedicente Califfo. In Arabia Saudita le decapitazioni e le violenze sono quotidiane, eppure verso Ryad si conserva un atteggiamento ipocrita essendo il migliore alleato degli Stati Uniti nel mondo arabo.

Abu Bakr non è un soggetto autonomo, non agisce in piena libertà ma è difficoltoso individuare con certezza la catena di comando di chi lo manovra, altrimenti scopriremmo che molti dei suoi amici stanno a Washington, a Londra o forse all’ombra della Tour Eiffel. Quegli amici che nel dicembre 2004 lo scarcerarono dalla prigione di Camp Bucca nel sud dell’Iraq dove era detenuto sotto stretta sorveglianza degli americani.


NOTA
1) L’accordo Sykes-Picot fu un’intesa segreta (1916) fra l’Inghilterra, rappresentata da M. Sykes (1879-1918), e la Francia, rappresentata da F. Georges-Picot (1870-1951), con l’assenso della Russia zarista, per decidere le rispettive sfere d’influenza e di controllo in Medio Oriente, dopo il crollo ritenuto imminente dell’impero ottomano. All’Inghilterra fu riconosciuto il controllo, diretto e indiretto, di un’area comprendente la Giordania attuale e l’Iraq meridionale, con l’accesso al mare attraverso il porto di Haifa, mentre la Francia avrebbe avuto la regione siro-libanese, l’Anatolia sudorientale e l’Iraq settentrionale, e la Russia Costantinopoli con gli stretti e l’Armenia ottomana. Il resto della Palestina sarebbe stato sotto il controllo internazionale.

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