demagogia è il vocabolo usato dai democratici, quando la democrazia li spaventa (Nicolás Gómez Dávila)

REVOLVER

Mese: Agosto 2018

L’indole di Hemingway nei giorni a Cuba

Nel 1957 Norman Lewis, era arrivato sull’isola di Cuba per conto di Ian Fleming, il creatore di James Bond, allora direttore dei servizi esteri del Sunday Times e collaboratore dello spionaggio britannico. Cuba era in piena agitazione rivoluzionaria e si vociferava che Hemingway fosse in contatto con Fidel Castro.

All’Avana Lewis incontrò Edward Scott, editore dell’Havana Post, per ottenere qualche informazione, e questi gli indicò il Montana Bar, dove avrebbe sicuramente incrociato lo scrittore. Tra Scott ed Hemingway i rapporti erano tesi dopo quello che era accaduto all’ambasciata britannica in occasione del compleanno della Regina: Ernest si era presentato alla festa con Ava Gardner, che in piena euforia tra un bicchiere e l’altro saltò su un tavolo, sfilandosi le mutandine. Scott era arrabbiato, ma Hemingway aveva minacciato di “spaccarlo in due” se avesse continuato con le rimostranze.

Tornando a Lewis, questi decise di recarsi direttamente alla Finca Vigia, la villa sulle colline di L’Avana. L’autore di Fiesta lo ricevette in camera da letto, in pigiama e con una fila di bottiglie vuote ai piedi. Un’immagine molto distante da quell’uomo forte e spavaldo che era stato un tempo. Lewis racconta di come rimase impressionato dal “senso di spossatezza sul volto” anche se ancora sprigionava una carica emotiva incredibile; più che un colloquio, fu un monologo contro editori e giornalisti. Nella stesura del rapporto a Fleming, Lewis scriverà: “è stato un incontro biblico, un sermone sulla vanità delle cose, mentre sei impegnato a fare carriera. Volevi conoscere la sua opinione su cosa accadrà nell’isola. La risposta, sfortunatamente, è che non gli interessa più avere opinioni, perché la vita per lui non ha più gusto. Non mi ha detto nulla ma mi ha insegnato più di quanto volessi sapere”. Sul rapporto tra Hemingway e Cuba si è detto e scritto tutto e il suo contrario, in particolare del suo rapporto con Fidel Castro e di una presunta simpatia verso la RevolucionL’americano aveva deciso di prendere casa a Cuba, molto prima della conquista del potere da parte dei barbudos e scelse quella zona, la Finga Vigia perché era un luogo appartato che ben si adattava all’indole solitaria dello scrittore.

“Io detesto qualsiasi maledetto governo”, scrisse in una lettera a John Dos Passos e Cuba in un certo senso gli permise di essere leale all’unico governo legittimo: se stesso, con tutti gli annessi e connessi: la scrittura, la pesca, le gare di tiro, le bevute di Daiquiri e le feste in casa con tanto di ubriacatura.

Il vitalismo di Hemingway consisteva, semplicemente, nell’aderire ai piaceri che la vita ti presenta, non gravato né guastato da complicazioni intellettuali, o da preoccupazioni politico-sociali. La sinistra culturale per quanto si sia sforzata di farselo piacere, non è mai riuscita a sentirlo proprio, ad arruolarlo nella propria legione intellettuale. Il motivo sta nel fatto che nel suo orizzonte era assente la comprensione dell’estetica e dell’etica di Hemingway: individualismo assoluto, anarchia di fondo, nessuna concessione artistica alla politica. Pensate oggi uno come Hemingway amante della caccia, della corrida, del pugilato e dei galli da combattimento, dover affrontare i sermoni di un certo conformismo laico borioso e sentimentale.

“Io devo scrivere per essere felice, che mi paghino o no”, confessò all’amico editore Charles Scribner. “Ma è una malattia questa fin dalla nascita. Mi piace farlo. Il che è anche peggio. Perché trasforma la malattia in vizio. Poi voglio farlo ancora meglio di chiunque altro e diventa un’ossessione. Un’ossessione è una cosa terribile”.

A Cuba scrisse reportage di pesca per Esquire e quelli di caccia per Look, scrisse Il vecchio e il mare e Di là dal fiume fra gli alberi, Unestate pericolosa. Sull’isola ambientò Avere non avere e lavorò a Fiesta mobile e Isola nella corrente. A Hotcher che si recò all’Avana nel 1948 disse: “l’uomo può essere distrutto, ma non vinto. É una frase che puoi leggere anche capovolta, il suo contenuto non cambia”. Non esiste un Hemingway politico, Per chi suona la campana, è un romanzo limitato ma onesto, dove l’aver scelto di combattere da una parte non implica il discredito degli avversari nazionalisti. Per lui la solidarietà virile, la forza e il coraggio di misurarsi con se stessi, vale più di ogni discorso ideologico. L’essere fuori dai canoni comportamentali più diffusi, rende Hemingway uno scrittore sovversivo rispetto a certe nuove forme di puritanesimo contemporaneo.

Letture per un viaggio alla ricerca di Agharti

Ferdinand Ossendowski (1876 – 1945), dopo aver terminato gli studi di chimica e fisica alla Sorbona, divenne il sovrintendente alla sezione di chimica dell’Esposizione Universale del 1900. I suoi studi di mineralogia lo fecero conoscere nell’ambiente scientifico europeo e per questo fu incaricato dalle autorità russe di effettuare ricerche nelle miniere d’oro siberiane. Negli anni turbolenti del conflitto russo-giapponese (1904-05), svolse delle attività per conto della Marina e durante la prima guerra mondiale gli furono commissionati nuovi studi e prospezioni. In quel periodo fu inviato in Mongolia, paese di cui apprese la lingua e le tradizioni locali, ma nel 1917 in piena rivoluzione bolscevica fu chiamato ad insegnare nella città di Omsk dall’ammiraglio Alexandr Kolchak (vecchio comandante della flotta sul Mar Nero).

Kolchak comandava un esercito controrivoluzionario che gli permise di creare un governo autonomo in una porzione di territorio siberiano. Ossendowski lavorò con questo governo fino al 1920, quando le truppe russe fedeli al nuovo governo di Mosca, rovesciarono la situazione costringendo lo scienziato a una fuga rocambolesca che lo portò in Tibet, Mongolia e Manciuria. Quando infine giunse a Pechino, nel giugno 1921, riuscì ad imbarcarsi per fare ritorno in Polonia, la sua terra natia.

Giunto in patria, decise di riordinare gli appunti di viaggio che formarono il nucleo del suo fortunato libro, Bestie, Uomini e Dei, un’eccezionale descrizione di tutte le personalità e comunità con le quali ebbe contatti in Asia centrale. Il libro è un resoconto dei suoi viaggi in Mongolia, ricco di descrizioni meravigliose, luoghi inaccessibili e tradizioni ancestrali, come quella del Regno di Agarthi, appresa da un lama locale, su questo misterioso regno sotterraneo nei pressi del deserto del Gobi.

Il narratore descrive le magie e le suggestioni ipnotiche di personaggi misteriosi, quali lo Tushegun Lama, si sofferma nell’analisi del buddhismo mongolo-tibetano e, soprattutto, affronta le tematiche legate al “Re del Mondo”.

Il libro fu aspramente criticato da esploratori come Sven Hedin che accusò l’autore di essere stato troppo fantasioso. Il racconto di Ossendowski non è privo di inventiva, però molti degli uomini citati sono realmente esistiti e la descrizione orografica dei territori attraversati, corrisponde perfettamente alle caratteristiche di quelle aree. In uno dei suoi viaggi, Ossendowski venne fermato dalla sua guida mongola che gli fece osservare come in quel luogo, in cui ogni cosa sembrava fermarsi, gli animali smettessero ogni attività e i venti misteriosamente si placavano.

Erano vicini all’entrata dell’Agharti, un luogo fisico e spirituale, sede del Re del Mondo, un misterioso personaggio chiamato anche il Brahmatma, colui che ha il potere di parlare con Dio. Si tratta di un essere puro, dotato di vasti poteri spirituali, secondo le spiegazioni fornite a Ossendowski dai Lama al servizio di questo misterioso individuo destinato a governare per tutto il Manvatara, una delle quattordici ere che compongono il Ciclo Cosmico. Nel seguito del libro, l’autore descrive le tradizioni intorno a questo presunto regno occulto e la sua prima impressione riguardo a questi miti è, secondo le sue parole, ipnotica, tanto che cercherà per mesi di trovare una spiegazione nelle antiche biblioteche della zona. Conversando con un saggio bibliotecario di Urga, Ossendowski apprese che il Re del Mondo si sarebbe manifestato a diverse persone e coloro che avrebbero visitato l’Agharti, hanno poi mantenuto il segreto sulla loro esperienza.

Altri scrittori come Saint Yves d’Alveydre, avevano già raccontato di un centro iniziatico di nome Agharta. Lo storico delle religioni René Guenon ci tenne a difendere Ossendowski dalle accuse di plagio perché tali leggende appartengono al patrimonio culturale dell’Asia centrale e sono presenti anche nel sottofondo religioso di molte culture mediterranee. Alcuni elementi ricorrono nel patrimonio ancestrale anche europeo: per esempio il segno swastika (simbolo di Agarthi) e la cerchia dei dodici iniziati che ritroviamo nei dodici cavalieri della saga di Re Artù, nei dodici Dei dell’Olimpo nello zodiaco composto da dodici segni. Il reportage del polacco negli anni successivi, spinse numerosi esploratori a cercare l’ingresso del Regno di Agharti nell’Asia centrale.

Che dite di mettersi in viaggio?

La fine di certi riti ordinari in politica

Davide Casaleggio qualche giorno fa in un’intervista rilasciata al quotidiano la Verità, ha ipotizzato, in un futuro non troppo lontano, la fine del Parlamento come luogo delle decisioni politiche per fare il posto a forme di partecipazione attraverso le piattaforme digitali. Poche parole che hanno scatenato un putiferio, evocando pericoli autoritari.

Le cose dette da Casaleggio, non sono una novità, se ne discute da qualche decennio. Alvin Toeffler in un libro stampato nel 1970, intitolato Future Shock, descriveva le assemblee interconnesse, assistite da uno staff tecnico che deliberano su obiettivi politici in base ai costi e benefici. I poteri transnazionali operano così, lì dentro la componente tecnica e quella politica provano a trovare un equilibrio.
La classe politica si fa assistere da gruppi tecnici, il problema sorge quando i primi sono così mediocri da non essere capaci di andare oltre la soluzione tecnica.

Il sistema culturale (si fa per dire) tanto ignorante, quanto ipocrita che urla contro il totalitarismo digitale, finge di non vedere o peggio non si rende conto, che nella proliferazione di reti, social network e internet delle cose, apparentemente gratuite, la merce sei proprio tu che ti connetti.

Torniamo alla politica. Siete sicuri che il Parlamento non sia ridotto da almeno trent’anni a una pulsantiera? Viviamo in momento storico dove ancora non comprendiamo fino in fondo l’impatto di internet nel campo della politica, non è un semplice cambio dello strumento di comunicazione è qualcosa di molto più profondo, riguarda il messaggio e l’agire. Il processo legislativo tende ad essere conservativo, ma i processi politici lo precedono e lo superano continuamente. Prendiamo l’esempio italiano.

Salvini e Di Maio sono due leader profondamente diversi nel carattere e nell’azione, ma con un elemento comune: si rivolgono al loro elettorato e ai militanti attraverso i social network e li stanno usando come strumento di governo.
Gli ingenui dicono che questa non è la dimensione della politica. Sbagliano, questa è politica. Salvini viene da un partito con un solido radicamento sul territorio, con un’organizzazione vecchio stile, Di Maio appartiene a un movimento nato nella dimensione smaterializzata della Rete ma è lì che sentimenti, umori e idee viaggiano a velocità supersonica, possono farsi coscienza e tramutarsi in azione politica.
Nel passaggio tra reale e virtuale, vediamo questi politici cambiare lo stile: ora ministro, ora capo politico, ora conversatore in un talk show digitale. Renzi quando era al governo faceva lo stesso gioco.

Si è imposta una nuova dimensione tecnologica e sociale dove i riti ordinari della politica sono sottoposti a continue sollecitazioni. Un cambiamento così potente da frantumare i tradizionali canali di comunicazione, ribaltando la gerarchia delle fonti. Oggi un ministro twitta e l’agenzia di stampa riprende e obbliga gli altri media a seguire il flusso e lo stile narrativo, senza mediazioni.

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