demagogia è il vocabolo usato dai democratici, quando la democrazia li spaventa (Nicolás Gómez Dávila)

REVOLVER

Mese: Luglio 2014

Dispetti tra Usa e Germania. Cosa c’è dietro


Lo scandalo delle spionaggio americano contro la Germania e la decisione del governo tedesco di espellere il rappresentante della CIA a Berlino, è solo l’ultimo episodio di uno strisciante conflitto politico-economico che da qualche anno accompagna le relazioni tra i due paesi. La tensione è notevolmente aumentata nell’ottobre 2013 quando, a seguito delle rivelazioni dell’ex agente della Nsa Edward Snowden, si era scoperto che persino il cellulare di Angela Merkel era intercettato e tutta l’attività spionistica contro gli uffici governativi tedeschi, partiva dalle ambasciate americane e britanniche.

Una cosa è certa: dalla crisi dell’eurozona nel 2010 a quella ucraina dei mesi scorsi, Stati Uniti e Germania hanno mostrato di avere progetti geoeconomici e geopolitici diversi. A Washington c’è irritazione per il lavoro silenzioso di Berlino che come una calamita, ha attratto i paesi dell’est Europa riducendo sensibilmente l’influenza americana, per aumentare gli spazi di autonomia dell’Europa che lentamente sta riemergendo, nonostante i sabotatori interni presenti nei palazzi di Bruxelles.

Colpi bassi e ripicche. Gli Americani non hanno perdonato alla Germania di essersi rifiutata di colpire la Libia. Nella fase acuta della crisi finanziaria, l’ex segretario del Tesoro Timothy Geithner non esitava a criticare pubblicamente la strategia tedesca. Nei successivi vertici internazionali Germania e Stati Uniti battibeccavano sulle politiche economiche, tanto che nel 2012 la Bundesbank di Francoforte si è recata con gli ispettori alla Federal Reserve per verificare la presenza delle riserve auree tedesche.
La crisi con la Russia sull’Ucraina ha visto nuovamente americani e tedeschi su fronti contrapposti: mentre Washington chiedeva a Berlino di tagliare l’alleanza energetica con Gazprom, la Germania accusava gli Stati Uniti di volersi semplicemente avvantaggiare con lo shale gas.

Ad aumentare l’irritazione del governo tedesco è anche la scarsa reazione degli altri paesi europei, Italia soprattutto, di fronte al sistematico sabotaggio del progetto South stream. Non è un caso che nel mese di giugno, una delegazione di senatori americani guidati da John McCain si è recata a Sofia per ricattare letteralmente il debole governo della Bulgaria dove passa quel gasdotto.

L’ultimo episodio teso a ravvivare la rabbia di Angela Merkel è quello delle pesanti sanzioni inflitte alla tedesca Commerzbank (prima era toccato ai francesi di Bnp Paribas), per aver avuto rapporti con società iraniane, in violazione dell’embargo americano.

Tuttavia la procedura utilizzata è pretestuosa perché l’istituto ha filiali negli Usa, ma ha svolto le operazioni sotto la giurisdizione europea. Queste piccole rappresaglie economiche celano un grande terrore: l’intenzione della Germania e di altre potenze come la Cina, di passare lentamente ad sistema monetario internazionale non più basato sulla totale supremazia del dollaro. Immaginatevi lo sconquasso che provocherebbe.

La partita politica che si gioca dentro e fuori l’Ucraina.

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1.
Il cambio di regime a Kiev e la complessa crisi che ne è discesa sotto il profilo dei rapporti intrattenuti tra europei, americani e russi, ci spinge a fare qualche ipotesi.
Diciamo che la spallata all’Ucraina era stata messa in conto, ma non era affatto una priorità per l’Amministrazione Obama, impegnata a gestire insieme a Mosca due importanti dossiers: Siria e Iran, dentro una logica che ricorda tanto l’accordo Sykes-Picot del 1915, con nuovi protagonisti.
L’obiettivo degli americani è sempre lo stesso: infastidire il Cremlino il più possibile, evitare un rafforzamento dell’asse Germania-Russia e ritentare di fare quello che non riuscì a George Bush nel 2008, portare Kiev e Tblisi dentro la Nato, cosa che all’epoca fu impedita soprattutto da Germania e Italia.
Gli europei come sempre indecisi, hanno commesso l’errore di non gestire autonomamente questa crisi politica, indotta ed eterodiretta da più parti. Come già accennato, gli Stati Uniti sono i primi a trarre vantaggio dalla cronicizzazione dello scenario nell’est ucraino. In primo luogo, tengono la Russia impegnata nel ruolo del “cattivo” e la distraggono da altri contesti (Medio Oriente in particolare).
L’approccio della Russia non è certo improntato all’idealismo, ma risponde ad un sano e robusto pragmatismo. Putin è cosciente della natura bidimensionale del suo Stato e deve necessariamente mantenere un buon rapporto con gli europei (via Berlino) e rafforzare la dimensione asiatica. Tuttavia, una politica di potenza non richiede solo volontà, ma una formidabile quantità di denari e a Mosca non si naviga nell’oro come si crede e l’unica arma formidabile è solo quella delle materie prime.

I leader del Cremlino ora hanno un grande problema: dover giustificare alla propria opinione pubblica, ancora galvanizzata ed euforica per la facile presta della Crimea, l’improvvisa cautela verso il resto delle province russofone, proprio in una fase di scontri accesi.
La realpolitik prevale e Putin non ha alcuna intenzione di morire per Donetsk e per il momento ogni retorica patriottica e richiami alla fratellanza russa, sono stati messi da parte.
L’acquisizione della Crimea è sembrata più un’operazione di reazione calcolata per colmare la perdita d’influenza nell’Ucraina e non una sincera strategia di difesa delle popolazioni russe oltre confine. La dirigenza russa è consapevole che il controllo degli oligarchi vicini a Mosca, sarà difficile nel medio-lungo periodo, visto che tendenzialmente a Kiev tutti fanno il doppio gioco.
Il nuovo presidente Poroshenko è senza dubbio in contatto con tutti gli uomini che contano a Washington, Mosca e Bruxelles. Lo schema ucraino è più semplice di quello che si crede: gli oligarchi fissi al potere e l’alternanza solo di questo o quel clan. Prima comandava il clan di Donetsk, ora quello di Kiev. Noi italiani questa tattica la conosciamo bene.

2.
L’Ucraina è una pedina di un gioco più grande, dove i tubi del gas spiegano solo in parte quel che accade. Il luogo dove si aggregano tendenze e mentalità opposte: l’atlantismo duro e puro dentro e fuori Bruxelles, il timido tentativo europeo (Germania in testa) di sganciarsi da certe tutele e l’interesse nazionale russo. In Ucraina, anche se sembra il contrario, Mosca sta combattendo una battaglia difensiva, volta al mantenimento della sua sfera d’influenza nel cosiddetto “estero vicino”, lo spazio ex sovietico. La Guerra Fredda è ancora in piedi sotto altre forme.

Inoltre c’è un gruppo di Paesi europei, noto come Partnership Orientale, guidato da Polonia e Svezia, che opera dal 2010 per cercare di avvicinare all’Ue ed alla Nato gli Stati ex sovietici che ne sono ancora al di fuori.
L’Europa, per il momento, ancora si articola in una molteplicità di Stati sovrani nella sfera della politica estera e di sicurezza, ciascuno dei quali ha una propria visione degli interessi nazionali. L’Italia, ad esempio, non ha la stessa percezione della Russia che prevale a Varsavia o a Budapest.
Nei mesi scorsi è ripresa la pressione polacca e dei baltici ed i tedeschi vi si sono accodati, dandole ben altra solidità facendo arrabbiare gli americani. Di qui, quasi certamente, i commenti acidi dell’ambasciatrice americana Victoria Nuland. C’era in ballo non solo Kiev ma anche l’influenza sull’intera Europa orientale.
Gli Stati Uniti non sopportano questo silente attivismo politico della Germania, spesso imprevedibile e fuori dagli schemi.

Moneta unica e squilibri

La moneta unica ha sostanzialmente il vantaggio di ridurre i costi di transazione dovuti all’incertezza del cambio ma questo ha un impatto macroeconomico poco significativo. Vale la pena conservare un’unione monetaria così strutturata con squilibri troppo forti? Pensateci bene: se un gruppo di nazioni avesse istituzioni politiche e fondamentali macroeconomici perfettamente allineati e stabili, sarebbero tali anche i tassi di cambio tra le varie monete e l’incertezza sarebbe trascurabile. Il vantaggio dell’unificazione monetaria emerge laddove i sistemi economici coinvolti non sono omogenei e non esistono forze che tendono a farli convergere, per cui i tassi di cambio sono relativamente incerti o divergenti. La moneta unica implica la rinuncia a un elemento di flessibilità (quello del cambio) utile per assorbire eventuali shock o compensare divergenze strutturali.

LA TEORIA DELLE “AVO”
La teoria delle AVO (aree valutarie ottimali) spiega come risolvere i problemi derivati dall’abbandono della flessibilità del cambio, attraverso l’introduzione di altri elementi di flessibilità: maggiore movimento dei fattori di produzione, più flessibilità dei salari, maggiore diversificazione produttiva. Se questo manca, occorre almeno che i tassi d’inflazione fra i paesi membri convergano, altrimenti la scarsa competitività nei paesi ad alta inflazione causerà deficit esteri con le conseguenze che già conosciamo. Infine se ciò non accade, ci vorrebbero delle istituzioni che vadano a correggere gli squilibri attraverso il coordinamento delle politiche fiscali. Detto in parole semplici, chi accumula di più, dovrebbe trasferire risorse a chi ha meno, per compensare. Facilitare il trasferimento delle risorse però cura il sintomo, ma non la malattia. Gli economisti che negli anni passati hanno sostenuto che l’euro avrebbe creato da solo le condizioni per correggere gli squilibri ed essere sostenibile ma si sbagliavano.

Presentare la teoria delle AVO, come una necessità tecnica è scorretto, semmai siamo dentro una concezione di riduzione del danno: l’euro è una scelta politica, dettata da ragioni politiche, mentre in economia l’altruismo non è obbligatorio, l’integrazione fiscale è politicamente difficile da sostenere perché nessuno vuole pagare per gli altri.
 
BCE AIUTAMI TU…
Ora va di moda chiedere alla Banca Centrale Europea di agire come “lender of last resort” (prestatore di ultima istanza), come la FED americana, attraverso operazioni di “quantitative easing” (facilitazione quantitativa), vale a dire aumentando la creazione di moneta. I motivi sono due: nel lungo periodo questo aumenterebbe l’inflazione sia nei paesi del “centro” che in quelli della “periferia” (ricordate il ciclo di Frenkel)
D’accordo, ma a che serve alzare l’inflazione media europea, se poi la Germania ne ha sempre un po’ di meno rispetto agli altri, conservando lo stesso vantaggio competitivo? L’unico risultato è quello di dare un po’ di fiato alle finanze pubbliche dei paesi periferici, in modo che abbiano qualche cartuccia da sparare prima che le loro finanze private torneranno in crisi, avendo accumulato passività verso il nucleo centrale dell’Europa.
“Stampare moneta!” è il grido di battaglia. Negli Stati Uniti, il bilancio federale compensa con trasferimenti notevoli verso gli stati dell’unione più poveri, ma ciò non crea una situazione di equilibrio perfetto, ma è sicuramente migliore che non fare nulla.
 La storia ci offre un esempio proprio a casa nostra: con l’unificazione dell’Italia gli squilibri tra i vari stati che la componevano non sono stati corretti. Onestamente, voi ce la vedete la Germania agire in tal senso compensando lo squilibrio con trasferimenti di denaro a quei paesi che le hanno consentito di accumulare un vantaggio economico, grazie alla loro domanda interna? Invece di abbaiare contro Berlino, a parti invertite noi saremmo stati così generosi?
State facendo il gesto dell’ombrello lo so…

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