demagogia è il vocabolo usato dai democratici, quando la democrazia li spaventa (Nicolás Gómez Dávila)

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Mese: Marzo 2018 Page 1 of 2

Il caso Cambridge Analytica-Facebook

Due settimane fa, i giornali Guardian e New York Times hanno pubblicato una serie di articoli che dimostrerebbe l’uso scorretto di un’enorme quantità di dati prelevati da Facebook, da parte di una società di consulenza e marketing on line, la Cambridge Analytica. La fonte primaria dell’inchiesta, è l’ex dipendente e analista della società britannica Christopher Wylie, che ha spiegato come sono stati profilati e monitorati circa cinquanta milioni di utenti su Facebook. Il sospetto è che Cambridge Analytica abbia influenzato le intenzioni di voto di milioni di persone, soprattutto negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, nel primo caso per favorire la vittoria di Donald Trump e, nel secondo caso, per condizionare il voto a favore dell’uscita di Londra dall’Unione Europea. Tutta questa vicenda ha messo Facebook al centro di una grande bufera mediatica e ha riaperto ancora una volta, l’ennesimo dibattito sull’utilizzo dei dati degli utenti di Internet. La storia ha molte ramificazioni, diversi protagonisti e sono molti aspetti da chiarire.

Appunti sparsi sulla nuova terra promessa dell’Infosfera

Esploratori come Magellano, Caboto, Amundsen erano accomunati dall’irrefrenabile desiderio di scoprire e superare la frontiera tra ciò che era conosciuto e l’ignoto materiale di un territorio inesplorato. Oggi quella frontiera si è spostata nell’etere informatico, in un spazio a prima vista smaterializzato, chiamato da Luciano Floridi, infosfera (1).

Tutta questa mole di dati, non fluttua semplicemente tra le nuvole in una specie di empireo astratto a nostra disposizione come una seconda natura. L’infosfera viene difesa innazitutto, tramite la costruzione di ideologie, tabù e convinzioni generalizzate che non si possono mettere in discussione.

Ripartire

Frammentazione e complessità sono le due parole che meglio definiscono lo stato attuale nella società politica e civile. Governare la frammentazione è ormai più che un impegno, una scommessa: ed è sullo stato d’animo che pervade classi politiche e cittadinanza alle prese con l’abbondare degli interessi organizzati, spesso troppi e pretestuosi, che prospera l’ondata di utopismo neoliberale. L’idea dello stato minimo, della semplificazione eccessiva e dell’arretramento del diritto, si nutre dello scoramento, e fa dell’apatia, la propria base di legittimazione. Chi si è convinto che in politica e nella vita, la tirannide del “già dato” o l’atteggiamento autoassolutorio del “tanto non cambia niente” sia sempre rovesciabile, non può esimersi dal tener conto della realtà in cui vuole agire e dall’identificare gli elementi che agiscono nella conservazione dello status quo.

Torna d’attualità l’intuizione di Alain De Benoist: “l’avvenire appartiene a chi saprà pensare simultaneamente ciò che sin qui è stato pensato contraddittoriamente”. I tradizionali poli della cultura politica: destra, centro e sinistra si stanno consumando, perdono di significato, vanno ricomposti, altrimenti restano solo delle locuzioni che indicano dei gruppi in continua rissa per quote di potere. Oltre gli angusti confini di queste categorie di classificazione, può prendere corpo l’idea di nuove identità del pensiero europeo, disarticolando il discorso sviluppato intorno alle bipartizioni orizzontali: conservazione/modernità, tradizione/progresso, occidente/oriente. Ogni dibattito sul futuro delle forme di convivenza politica deve muovere da una dimensione antropologica per giungere, dopo una serie di passaggi, alla dimensione istituzionale.

 

RASPUTIN: MISTICO INCANTATORE, ABILE MANIPOLATORE O GUARITORE?

Nel museo di oggetti erotici di San Pietroburgo, tra i dodicimila reperti collezionati dal fondatore, il dottor Igor Knyazkin, è conservato, in un contenitore di vetro cilindrico, un fallo che dovrebbe appartenere a Grigorij Rasputin (1869-1916). Pare che il membro abbia proprietà miracolose: solo a guardarlo curerebbe l’impotenza. Sarà per questo che i Boney M cantavano il ritornello: «RA RA RASPUTIN, Russia’s greatest love machine; It was a shame how he carried on».

Il monaco barbuto dagli occhi spiritati ha concentrato su di sé i giudizi più contraddittori. “Santo e demonio”, “uomo di Dio”, “ciarlatano”, “incantatore”, “profeta” e “mestatore”; ogni biografia sembra fare a pugni con l’altra e quale sia stato il vero Rasputin è difficile capirlo. Come al solito, racconti e testimonianza risentono del grado di simpatia e antipatia rispetto al personaggio. Rasputin ora è un manipolatore capace di farsi ascoltare dallo Zar, ora è un raffinato esoterista vittima delle delazioni invidiose dei nemici.

Si dice virtù pubbliche e vizi privati. La sua principale virtù, quella che lo rese caro alla zarina, Alexandra Fedorovna, la moglie tedesca di Nicola II, è strettamente privata: le miracolose guarigioni in punto di morte dell’unico figlio maschio ed erede al trono, lo zarevich Aleksei, affetto da una malattia del sangue che lo indeboliva. A tal proposito, è opportuno ricordare l’episodio del 12 ottobre 1912 che farà guadagnare punti al monaco siberiano. In quell’occasione dalla corte di San Pietroburgo venne spedito un telegramma della famiglia reale sull’aggravamento delle condizioni dello zarevich ormai vicino alla morte: “I medici sono disperanti. Le vostre preghiere sono la nostra ultima speranza”. Rasputin pare che si sia messo a pregare per diverse ore nella sua casa, cadendo in uno stato di trance. Al termine delle preghiere, invierà un telegramma ai Romanov in cui assicurava la guarigione del piccolo, cosa che effettivamente avvenne nell’arco di poche ore. Cosa accadde realmente nessuno può dirlo con certezza. Rasputin esercitava un fascino magnetico sulle nobildonne di corte, in privato praticava l’ipnosi e spesso lanciava oscure profezie, persino sulla sua morte e il destino dei Romanov. Pubblico è tutto ciò che gli diede cattiva fama: la vita dissoluta (sesso e alcol), il desiderio di potere, la passione per gli intrighi, la confusione tra sacro e profano, l’ingerenza nelle nomine di stato che rafforzarono il suo potere politico.

Bukowski e il sarcasmo contro la beat generation

“Bukowski è il vecchio cattivo, il personaggio laido che si trova in tutte le fiabe. Lo diresti uscito dalla penna di Grimm! È la mitica figura dello gnomo, del gobbo, il disgraziato, la bestia. Incarna il lato ripugnante, la figura sconvolgente e minacciosa del padre. Ha l’aspetto deforme di chi trasuda sofferenza, e nello stesso tempo, esercita una forte attrazione sessuale. Una parte della nostra psiche è affascinata da questa figura di satiro. Nel contempo è uno che sa esprimersi meravigliosamente (…) Un personaggio davvero sorprendente, che sa mettere il dito su qualcosa di misterioso, di particolare della coscienza americana, che sa evidenziare gli aspetti sordidi dell’esistenza e che ha il dono di mettere a nudo tutta la stanchezza del mondo”.

Questo è il ritratto che Anne Waldman offrì dello scrittore americano, in un intervista al giornalista Jean François Duval, il 6 dicembre 1996. I racconti e le poesie di Bukowski sono contraddistinte da un crudo realismo, annientano il sogno americano e sono l’espressione della vita dura che ha vissuto, tra sporche stanze in affitto, vagabondaggi e lavori precari. Hank raggiunse la fama artistica negli anni Settanta dopo aver superato i cinquant’anni, la sua mentalità lo portava a rifiutare il ruolo della vittima e a respingere il mito dello scrittore “impegnato”. Il rapporto conflittuale che ebbe con l’ambiente beat, conferma questa tendenza.

Memorie delle prostitute inglesi

Il Settecento inglese fu l’epoca d’oro dei memoriali delle cortigiane d’alto livello. Una dopo l’altra si misero a pubblicare i propri diari, lavando in pubblico la biancheria sporca del proprio boudoir. Storie spesso divulgate a puntate e qualche volta con il finale sospeso per mantenere alta la suspense. Fecero tremare ruffiani, politici, banchieri, diplomatici e preti. Le loro avventure erano argomenti di discussione nelle taverne con le gazzette che vendevano centinaia di migliaia di copie. Il nuovo genere letterario era conosciuto come “whore biography”, l’autobiografia della puttana. Ai lettori non interessava se la narrazione fosse troppo eccessiva o meno, conoscevano i personaggi coinvolti e gli piaceva leggere del loro comportamento scandaloso.
Una delle prime fu Sally Salisbury, figlia di un muratore, sulla cui intensa frequentazione con il meglio della nobiltà inglese, uscirono due biografie. Era al culmine del successo quando si rovinò accoltellando uno dei suoi amanti, John Finch, il figlio del conte di Nottingham. Seguirono nel 1758-59 i memoriali di Fanny Murray e Kitty Fischer. I titoli dei libri mascheravano i nomi con degli asterischi: “Memoirs of the celebrated Miss Fanny *****” e “The Unkommon Advendures of Kitty F*****”. Nell’ambiente la loro identità era nota così come quella dei frequentatori.

Il jeans come simbolo materiale dell’Occidente.

James Dean

Il banchiere francese Albert Kahn nel 1909, dopo una visita in Giappone, decise di creare un album a colori di tutti i popoli che abitavano la terra. Nonostante la crisi del 1929 lo mandò in rovina bloccando il progetto, la collezione fotografica è ancora disponibile.
Quelle immagini, oltre a rappresentare il più grande inventario della popolazione mondiale del primo scorcio del XX secolo, mostrano una stupefacente varietà di abiti e stili. Il modo di vestire definiva l’identità di quei popoli, visivamente eravamo ciò che indossavamo.
Oggi un lavoro come quello di Kahn dovrebbe concentrarsi sulla ricerca di qualche popolazione che ancora indossi abiti tradizionali. A tutte le latitudini, un segno evidente della presenza dell’occidente si avverte proprio nel modo di vestirsi, una globalizzazione sartoriale promossa dai grandi marchi della moda che contraddistinguere popoli e ceti sociali differenti.

La fiera delle vanità del capitalismo e il difetto dei keynesiani

Nel Noveau dictionnaire étymologique et historique, è scritto che la parola “Capitalisme” appare nell’Encyclopedie del 1753 con la seguente definizione: “état de celui qui est riche”.
Sintetica, forse troppo banale rispetto all’articolata disamina di Marx nel Capitale – eppure geniale nella sua semplicità. Il capitalismo è in effetti il tendere allo stato di chi è ricco, c’è dentro vanità e desiderio del superfluo. Funziona quando induce all’invidia, sentimento di rancore che evolve a continuo astio. Per esempio, i ragazzi super ricchi che ostentano lusso e spreco su Instagram, alimentano un odio che non evolve in un conflitto politico, ma in una profonda invidia nei confronti della fortuna altrui.
Il capitalismo è prima di tutto pulsione della vanità che si rende concreta in un sistema economico. Tra il 1847 e il 1848 William Thackeray scrisse un romanzo a puntate dal titolo significativo “Vanity Fair” (La fiera delle vanità). Thackeray, meglio di qualunque analisi socio-politica, descrive la vanità come potenza sociale, capace di sovvertire la percezione di Sé tale da provocare un’insopportabile sensazione di vuoto.

Un’economia che necessita di questo particolare stato d’animo, dove il desiderio e l’accumulo di oggetti materiali, provoca questo svuotamento da riempire continuamente con qualcosa. Proprio in Vanity Fair: “… la superiore condizione sociale delle ragazze che la circondavano facevano sentire a Rebecca i morsi dell’invidia”. Nella commedia umana, tra brame di titoli e denaro, Rebecca (Becky) Sharp si fa più vanitosa: “Che aria si dà costei per essere una nipote di un conte! Come strisciano davanti a quella piccola creola perché ha centomila sterline. Io sono mille volte più intelligente e più graziosa di lei”.
Così il capitale, trasmuta Rebecca in Becky, fino a farle acquisire quel potere capace di provocare l’invidia altrui: “(…) la vista delle stelle e dei grandi cordoni che abbellivano l’umile salotto di Rebecca avrebbe fatto impallidire d’invidia tutta Baker Street”. L’invidia è la materia del romanzo di Thackeray: seduce e innesca la vanità, in un continuo desiderare oggetti e soddisfare il bisogno del riconoscimento.

Riguardo alle politiche economiche odierne, chi cerca una soluzione richiamandosi a Keynes, dimentica il difetto d’origine di quel pensiero: intensificare l’occupazione attraverso la vanità e viceversa, ci riporta a fondare l’economia su consumi di massa e produzione del superfluo. Non sembrano rendersi conto che restiamo imprigionati nel tornado del consumismo, senza prestare troppa attenzione a ciò che si produce e consuma. Si arriva al paradosso, irrisolto da più di due secoli, di un sistema economico che per mantenersi in equilibrio deve promuovere la crescita compulsiva e artificiale dei bisogni e che va in tilt non appena si abbassa la soglia del consumo vanitoso.

La crisi spiegata attraverso le seduzioni di Faust

La crisi economica è oggetto di litigi infiniti e discussioni complicate dalla difficoltà di trovare un rimedio. Poi ci sono quelli convinti di avere la soluzione a portata di mano con qualche aggiustamento tecnico. Parole come moneta, debito pubblico, inflazione, deflazione, austerità scatenano una tempesta di opinioni, deduzioni e argomentazioni con il rischio di consumarsi nel linguaggio dell’ovvio. Su questo terreno si affollano accademici più o meno competenti, studiosi preparati e una folla di “dilettanti titolati” che non capiscono niente ma lo scrivono bene.

Nel salotto di Madame Pompadour la donna più potente a Parigi nel XVIII secolo, il medico del Re Luigi XV, discuteva della circolazione delle merci paragonandola a quella del sangue. Tra un pettegolezzo politico e le storie sui giganti della Patagonia, l’economia diventava una scienza raffinata ridotta a calcolo meccanico. Ed è proprio qui che sta l’inghippo, perché si continua a discettare sulla scienza economica dimenticandosi della mentalità dell’epoca in cui viviamo. In tal senso, il Faust di Goethe può aiutarci.

Clifford Douglas e la teoria del “credito sociale”

A sentire l’autorevole John Kenneth Galbraith, le sue teorie economiche erano degne di suscitare interesse solo “in luoghi remoti come praterie canadesi”, ma le tesi di Clifford Hugh Douglas, fondatore del movimento del Credito Sociale, non possono essere liquidate con una sbrigativa stroncatura accademica. Personalità lineare, uomo creativo e pratico, Douglas nacque in Inghilterra nel 1879 e morì nel 1952. Dopo aver studiato all’Università di Cambridge, fu ingegnere specializzato nell’analisi dei costi industriali del settore ferroviario. Ricoprì diversi incarichi e lo chiamavano “il Maggiore” per via del grado militare nei Royal Flying Corps durante la prima guerra mondiale e successivamente nella riserva della RAF. Il suo interesse per lo studio dei meccanismi economici, iniziò nel 1918 quando sul numero di dicembre della English Review apparve un articolo intitolato “The Delusion of Super-production”. Mentre stava riorganizzando il lavoro del Royal Aircraft Institut, durante il periodo bellico, Douglas notò che il costo totale settimanale di merci prodotte era maggiore delle somme versate ai lavoratori sommando salari, stipendi e dividendi.
Questo sembrava contraddire la teoria economica classica, secondo la quale, tutti i costi sono distribuiti simultaneamente come potere d’acquisto. Il Maggiore raccolse dati da più di un centinaio di grandi imprese britanniche, e rilevò che in ogni caso, le somme versate a titolo di stipendi, salari e dividendi erano sempre state inferiori ai costi totali dei beni e servizi prodotti ogni settimana: ciò significava che i lavoratori non erano stati pagati abbastanza per poter acquistare ciò che avevano realizzato. Una constatazione apparentemente banale che lo spinse a studiare il rapporto tra produzione e funzione monetaria.

Douglas era un sostenitore della libertà individuale che vedeva minacciata da tutte le forme di monopolio e in particolare da quello del credito. Nel corso degli studi, decise di fondare il movimento politico noto come “Social Credit”. Dal mese di giugno del 1919, il periodico The New Age diretto da Alfred Richard Orage, che già ospitava gli scritti di Ezra Pound, pubblicò a puntate quello che sarebbe stato il primo libro di Douglas: Economic Democracy. Nel 1920 per tramite di Orage, conobbe il poeta americano che più volte gli renderà omaggio nei suoi Cantos. In Carta da Visita Pound ricorderà: «Quel movimento (di Douglas ndr) fu la porta dove entrai nella curiosità economica».
La grande depressione del 1929 diede a Douglas un’ampia notorietà, confermando la sua diagnosi sul principale difetto del modello economico classico: l’equilibro sempre precario tra abbondanza e povertà. In quel periodo si recò in Giappone, Australia e Nuova Zelanda presso i parlamenti e scrisse una relazione per la commissione finanze del governo britannico. Nel 1933 costituì sotto la sua presidenza, il Social Credit Secretariat, un centro studi che offriva consulenze. Nel 1935, nella regione canadese dell’Alberta, un movimento politico ispirato dalle sue teorie economiche vinse le elezioni ma fu continuamente ostacolato dal governo federale e dalla Corte Suprema. Nel 1938 fu fondato il periodico The Social Crediter.

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