demagogia è il vocabolo usato dai democratici, quando la democrazia li spaventa (Nicolás Gómez Dávila)

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L’epoca del capitalismo della sorveglianza

Internet of Things, Smart Home, 5g e altri acronimi inglesi spiegano come milioni di dispositivi raccolgono dati su di noi e acquisiscono in questo modo nuove conoscenze e potere. Per conto di chi? È domanda importante, in un’epoca l’integrazione tra corpo fisico e identità digitale che sta rendendo impossibile una vita “sconnessa”. Dicono di stare tranquilli perché questa mole di dati è protetta e, cosa più interessante, tutte le interazioni sui social network, hanno permesso di raccogliere informazioni con il consenso delle persone, smaniose di mostrarsi, di raccontare le loro vite grandi o insignificanti che siano. Aggiungete le questioni riguardanti il diritto e le cosiddette “privacy policy” lunghe, contorte e complicate che nessuno legge e avrete un quadro abbozzato del nuovo capitalismo della sorveglianza. Esso si appropria dell’esperienza umana usandola come materia da trasformare in dati sui comportamenti. Alcuni di questi dati vengono usati per migliorare prodotti e servizi, ma il resto diviene surplus comportamentale privato, sottoposto a un processo di lavorazione avanzato noto come “intelligenza artificiale” per poi trasformarli in prodotti predittivi in grado di anticipare cosa faremo, in un determinato periodo.

Shoshana Zuboff nel suo saggio corposo e ricco di dettagli, intitolato proprio “Il capitalismo della sorveglianza” (ed. Luiss), spiega anche che esiste un mercato dove si scambiano queste previsioni. Grazie a questo commercio, le multinazionali dei Big Data, i nuovi padroni di quest’epoca, si sono arricchiti smaccatamente, passando informazioni ad aziende, strutture di intelligence e organizzazioni.

La novità è stata dettata dalla competizione: i processi automatizzati riescono in parte a conoscere i nostri comportamenti, ma sono in grado di formarli, di indurre bisogni inesistenti. Quando strisciate la vostra carta fedeltà al supermercato o fate un pagamento elettronico, la traccia degli acquisti si accumula ad un ammasso di dati indicativi su gusti e scelte da consumatore. Nel capitalismo della sorveglianza, tutto sembra gratuito o finanziato dalla pubblicità, ma la vera merce sei tu. Prima la focalizzazione maggiore era sulla conoscenza, ora si concentra sul potere di indirizzare comportamenti singoli e di massa. Nel capitalismo industriale i mezzi di produzione si moltiplicavano dentro una dimensione fisica, in quello della sorveglianza i mezzi di produzione accrescono con la modifica dei comportamenti.

Google ha in un certo senso inventato e perfezionato questa nuova forma di capitalismo e si muove in senso opposto agli utopisti del digitale che vogliono proteggere i dati e sognano un eden di condivisione e contatti mediati dalla tecnica. Stiamo pagando per farci dominare, lentamente, inesorabilmente grazie anche ad un intontimento psichico suadente. Il capitalismo della sorveglianza non va identificato con una tecnologia ma con una logica che permea tutto il sistema della Tecnica. Difficile da comprendere utilizzando concetti legati a un mondo solido e ciò gli ha consentito di acquisire una forma e una natura sfuggevole. Restando sull’esempio di Google, esso sta al capitalismo della sorveglianza come la Ford stava a quello manageriale basato sulla produzione di massa. I passaggi sono semplici: estrazione e analisi dei dati, nuove forme contrattuali, personalizzazione e standardizzazione, esperimenti continui. Quando cercate qualcosa sul vostro motore di ricerca preferito, dopo un po’ di tempo siete inondati da pubblicità di prodotti simili o afferenti e lì toccate con mano l’impossibilità di sottrarsi al legame con l’algoritmo. Del resto, non potete nemmeno staccare la batteria dai vostri smartphone e tablet. Il patto tra Faust e Mefistofele in versione contemporanea: puoi avere quello che vuoi, scaricare le tue endorfine consumistiche a patto che mi riveli chi sei e cosa farai.

Gli accelerazionisti: chi sono, cosa vogliono e perché vanno presi sul serio

Negli anni Sessanta la parola “accelerazionista” si riferiva a un gruppo di rivoluzionari che voleva trasformare la mentalità con la quale la società approcciava alla tecnologia. A ispirarli, un romanzo di fantascienza, Lord of Light di Roger Zelazny, pubblicato nel 1967.

Molti anni dopo a riprendere quel termine, sarà Benjamin Noys analizzando le teorie eccentriche di Nick Land, filosofo e animatore del CCRU, Cybernetic Culture Reserach Unit che a partire dal 1995 si riuniva all’Università di Warwick in Inghilterra. Il gruppo informale si occupava soprattutto di intelligenza artificiale e dell’impatto dominante della tecnica sugli individui. I resoconti delle riunioni e delle conferenze del CCRU sembrano usciti da un romanzo: musica elettronica, proiezioni, anfetamine in un clima poco accademico. Quell’esperienza durerà qualche anno tra confronti dialettici e rotture insanabili, ma quelle idee non sono scomparse, hanno trovato un terreno fertile tra i ceti dell’economia digitale e gruppi disparati come nuovi reazionari e utopisti rivoluzionari.

Difficile fare una genesi filosofica dell’accelerazionismo, più semplice è partire dalla figura di Nick Land e dalla sua rielaborazione del pensiero dei francesi Lyotard, Guattari e Deleuze. Questi avevano individuato l’irreversibilità del processo storico di accelerazione della modernità capitalistica e l’impossibilità di cambiare con lo sguardo rivolto indietro a un’idealistica società pre-industriale. Sulla scia di questo ragionamento, Land vuole sganciare ancora di più il capitalismo dalle briglie della politica per sprigionare tutto il potenziale tecnologico e poco importa se il rischio è quello di un collasso e di esperimenti sociali pericolosi.

Land considera il capitalismo come qualcosa in continua espansione rivoluzionaria, priva di qualsiasi contenuto morale o ideologico che non riconosce altro obiettivo se non la propria emancipazione. Con le sue crisi cicliche, il capitalismo definisce un disordine controllato, dove tutto è sacrificabile alla sua volontà oscura. Il futuro è una fusione uomo-digitale e automazione, tutto il resto conta poco. E ancora, l’uomo deve smetterla di controllare i processi economici connessi all’innovazione tecnologica.

Rileggendo alcune affermazioni di Nietzsche decontestualizzate, Land spiega come l’uomo sia un animale da superare e proprio il movimento spiraliforme del capitalismo può agire in tal senso passando per una transizione fatta di automazione e robot. È da qui nasce l’idea di intensificare i meccanismi di conflitto scatenati dal capitalismo per liberarsi dalle componenti “troppo umane”. Sembra uno dei racconti di Lovecraft sui miti di Cthulhu, divinità-mostro immaginaria, una creatura che dorme nelle profondità degli abissi in attesa di essere svegliata per soggiogare il mondo. Forse il nuovo Cthulhu è il grande sistema nervoso dell’intelligenza artificiale? Chissà…

Un altro concetto chiave dell’accelerazionismo definito da Land è quello di iperstizione: un elemento della cultura effettuale che si fa realtà, attraverso una massa immaginaria funzionante come potenzialità che viaggia nel tempo. Definizione astrusa che cerca di spiegare come certe finzioni diventino concrete in un futuro immaginario, provate a pensare quello che è scritto nei libri di fantascienza, molte di quelle cose domani saranno realtà o ambiscono a diventarlo. Land considera il capitalismo un potente generatore di iperstizioni perché trasforma semplici operazioni economiche nella forza motrice del mondo. Allo stesso tempo spezza e poi ribadisce i propri limiti: è un sistema schizofrenico.

Il periodo all’Università di Warwick è stato un cocktal di nichilismo, marxismo cibernetico, numerologia, fantascienza e tante altre cose. Dopo la conclusione di quella esperienza, Nick Land si è trasferito a Shangai provando una forte ammirazione per quel sistema dove convivono autoritarismo e corsa produttiva verso le innovazioni. Con il passare del tempo, indipendentemente dalla sua volontà, Land è diventato un riferimento per quell’ambiente reazionario che critica la democrazia. Con il saggio intitolato The Dark Enlightenment, il tono è decisamente critico verso la democrazia che Land considera incapace di governare molti processi perché è intrappolata nel breve periodo delle scadenze elettorali che la spingono verso timide politiche riformiste. Essa riduce e semplifica le decisioni difficili e rende il disastro sociale più accettabile nella misura in cui può attribuirlo ai propri avversari politici. La deliberazione democratica è lenta rispetto alla velocità del capitalismo e le innovazioni siccome distruggono vecchi stili di vita creandone nuovi, non possono attendere ulteriori correzioni giuridiche o morali ma necessitano di una politica decisionista tout court.

Negli Stati Uniti una parte minoritaria dell’alternative right si è lasciata sedurre dalle tesi di Land e attinge confusamente a molte idee di questo strano contenitore ideologico, uno su tutti, Moldburg (pseudonimo di Curtis Yarvin) che considera: “la modernità ingegneristica e la grande eredità storica del pensiero pre-democratico antico, classico e vittoriano”. Insomma si mescolano forme di anarchismo capitalista e la convinzione di un futuro di città stato sul modello di Singapore o Hong Kong. La rottura del discorso egualitario farebbe spazio a politiche più realistiche che mettono in evidenza le contraddizioni del progressismo e del capitalismo socialdemocratico. Tra i ricchi sostenitori di alcune di queste tesi c’è Peter Thiel, il fondatore di paypal. Thiel è impegnato insieme a Curtis Yarvin nel Seasteading Institute, un’organizzazione fondata da Patri Friedman (nipote del famoso economista Milton), impegnata nella progettazione di città permanenti in acque internazionali, fuori dalla giurisdizione di governi democratici.

L’accelerazionismo ha fatto presa pure sugli ambienti di Sinistra cercando di definire un’ideologia più spendibile e pervasa di ottimismo, rispetto all’orizzonte tenebroso di Land. Quest’altro orientamento è rappresentato da Nick Srnircek e Alex Williams, autori del Manifesto accelerazionista e del più recente libro Inventare il Futuro. L’antesignano è stato il teorico Mark Fisher morto nel 2017 autore nel 2009 di Realismo capitalista e di una serie di articoli sul suo blog K Punk.

La critica di Fisher non perdona nemmeno la Sinistra, colpevole di aver ignorato le potenzialità della tecnologia e di non essere in grado di offrire risposte ai nuovi problemi sociali, se non ricorrendo a vecchie formule. Srnicek e Williams, definiscono un mondo in cui la tecnologia e l’automazione siano in grado di liberare l’uomo dalle gabbie del turbocapitalismo che ha creato un mondo del lavoro nevrotico. L’accelerazione dovrebbe guardare a una prospettiva più utopistica puntando ad intensificare l’automazione del lavoro lasciando che siano i robot a occuparsi dei lavori più duri e alienanti così da arrivare gradualmente a una società del post-lavoro, in cui si sia liberi di scegliere solo quelli più adatti, accompagnando questa grande trasformazione con il ricorso al reddito universale di base. Superamento del capitalismo o una versione più umana? L’interrogativo resta sospeso. Snircek e William non si perdono in vaniloqui, criticano aspramente tutti i tentativi di sanare localmente i problemi creati dal sistema capitalistico e si sforzano il più possibile a definire un’attuazione concreta delle loro idee.

Tutti questi teorici sono convinti che il processo di distruzione sia positivo e invece di cadere nella fossa oscurantista, apocalittica di Land, vorrebbero traghettare l’accelerazionismo verso obiettivi più rassicuranti, verso un progetto di sana collaborazione tra uomo e macchine. Mentre Land è convinto che si debba procedere senza troppe preoccupazioni assumendo ogni rischio, Snircek e Williams sognano di condurre il processo di liberatorio delle macchine dal lavoro verso una maggiore giustizia sociale. In mezzo tutti questi contrasti, esiste un equilibrio, una forma di conciliazione? No a nostro avviso. L’idea di fondo che sottostà a tutte le versioni, è che la compenetrazione tra uomo e tecnologia, sia una forma di aggiornamento dell’uomo inteso come qualcosa di difettoso da perfezionare.

Jean Braudillard a proposito di questi fenomeni già osservati negli anni Ottanta commentava con sarcasmo: “La cosa triste, a proposito dell’intelligenza artificiale, è che le manca l’artificio e quindi l’intelligenza”.

Siamo davvero disposti in nome della sicurezza e di un po’ di benessere consumistico ad affidare totalmente il controllo della nostra vita ad algoritmi e dati che catalogano nelle memorie cloud i nostri gusti, le nostre idee e i luoghi che frequentiamo? Stiamo andando in quella direzione senza accorgerne e saranno sempre più pochi coloro in grado di opporre almeno forme di resistenza interiore. I nostri desideri non possono coincidere totalmente con i padroni del silicio e il futuro sarà pieno di lotte per il controllo dei mezzi digitali e di tutto quello che c’è intorno. É la nuova fase del capitalismo della sorveglianza. Per questa ragione non possiamo liquidare queste teorie come le fantasie di qualche ricco smanettone della Silicon Valley. Noi crediamo ancora negli uomini, nei popoli, nelle identità che si incontrano e si scontrano, sappiamo che morte, tragedia, gioia, bellezza e felicità sono irrevocabili e non si possono calcolare con qualche formula matematica.

Il coraggio contro le illusioni

Nel racconto di questa strana storia della pandemia, governi e burocrazie sanitarie hanno rimosso un fatto semplice, una verità elementare: la vita è pericolosa. L’illusione che una soluzione tecnica possa sempre toglierci dai guai è qualcosa di intossicante e si basa su un mito profano.

Esiste un timore ancestrale della morte ma chi dovrebbe essere forgiato dalla cultura classica, sa che la vita richiede individui coraggiosi, consapevoli della presenza del rischio e della necessità di affrontarlo e non subirlo passivamente. A meno che non si voglia consumare la propria esistenza nella chiusura domestica e rassicurante. Abbiamo bisogno di muoverci, toccarci, litigare, respirare liberamente, essere comunità, non individui nevrotici e polverizzati.

L’assenza di pericolo non è la condizione abituale e necessaria della vita, il mondo della natura è straordinariamente complicato, bello e pericoloso, l’uomo è sempre esposto al pericolo di essere colpito nel corpo e nella psiche. Non può essere questa atmosfera repressiva-depressiva la nuova stupida normalità.

Andrebbe rimessa al centro una virtù necessaria, quella del coraggio.

Il quotidiano Bild risponde per le rime alla Cina

Julian Reichelt è il direttore del più diffuso e popolare quotidiano tedesco, Bild Zeitung. Il quotidiano non ha mai risparmiato critiche alla Cina con la richiesta di compensare il danno economico provocato dalla pandemia di Covid 19 che Pechino ha cercato di insabbiare. Irritata dall’atteggiamento del giornale, l’ambasciata cinese a Berlino aveva chiesto un video di scuse. Reichelt per niente intimorito ha risposto con un tono fermo e determinato.

Cronache dallo stato d’eccezione. La politica sospesa?

È molto difficile in questo clima politico che si è venuto a creare per via della paura generalizzata dall’emergenza sanitaria, ragionare secondo principi ordinari di diritto.
Il profluvio di atti amministrativi, decreti, ordinanze e divieti fanno sorgere molti dubbi, ma in queste condizioni non ha molto senso ragionare sul piano giuridico formale quando si è in uno stato d’eccezione. Piuttosto è opportuno riflettere su quello che accadrà a partire dalla sospensione temporanea delle libertà. Nel secolo scorso, il giurista Carl Schmitt spiegò come in situazioni di estrema necessità, solo colui che è in grado di sostenere la sospensione dell’ordine giuridico costituito può esercitare la sovranità.

Per la prima volta nella storia a dichiarare lo stato di eccezione è stato un ente scientifico sovranazionale, l’Organizzazione mondiale della sanità, quando ha dichiarato la pericolosità a livello mondiale della pandemia del virus covid19, nel periodo in cui l’infezione era ancora localizzata in Cina e altri territori asiatici.

Questa sospensione dell’ordine costituito trasferisce la sovranità alla scienza. Infatti, le televisioni sono piene di medici ai quali è stata attribuita una capacità di parlare in nome della scienza, laddove sappiamo che di questa pandemia la stessa comunità scientifica sa poco e al suo interno ci sono pareri discordanti persino sull’efficacia delle misure di contenimento. Quando si sospende la politica in nome della scienza, perché siamo in uno stato d’eccezione che mette al centro la verità scientifica, gli argomenti promossi da altri soggetti vengono limitati o presi in considerazione con un tono altezzoso. Poco importa se tra di loro ci sono anche i decisori politici. Quando la scienza sostituisce la politica, la risposta è solo tecnologica ed è pericoloso presentarla come un dogma indiscutibile.

La situazione d’emergenza prepara una trasformazione più vasta. Nel flusso straripante della comunicazione è già cominciata la celebrazione delle virtù salvifiche delle soluzioni tecniche come lo smart working e altre forme di distanziamento. Iniziamo a sperimentare nuovi tipi di separazione sociale, “distanti e connessi” ed è in corso un gigantesco trasferimento della vita produttiva dal mondo delle relazioni fisiche, a quelle mediate dalla tecnologia.

Il razzo del 2020

Il 2020 è partito a razzo, quello degli americani che nella notte del 3 gennaio ha colpito l’auto del generale iraniano Soleimaini in missione a Baghdad. Il 5 gennaio l’Iran ha annunciato che non rispetterà nessun impegno preso in precedenza con la comunità internazionale riguardo allo sviluppo del nucleare; lo stesso giorno, su altro fronte rovente, il presidente turco Erdogan confermava che i soldati turchi erano sulla via della Libia per assistere il governo di Al Serraj a Tripoli. Il giorno successivo le truppe del nemico di Serraj, il generale Haftar (sostenuto da Russia ed Egitto) prendevano il controllo di Sirte. Intanto l’Iran ha sparato missili su una base americana in Iraq ad Ain Al-Asad, la tv iraniana ha parlato di morti, gli Stati Uniti dicono che non ci sono soldati americani uccisi anche perché erano stati preavvertiti e messi in sicurezza.

Il copione è rispettato: siamo in uno scenario di guerra a bassa intensità, ad ogni azione corrisponde una reazione. Il conflitto ha un linguaggio definitivo e una combinazione di elementi razionali e irrazionali. C’è chi pensa al 1914 e alla pistolettata di Sarajevo. Andrà così? Difficile dirlo, la storia prende sempre direzioni inaspettate. Tralasciando per il momento lo scenario libico, in Medio Oriente accade quel che più o meno succede da un secolo: una lotta spietata per il predominio di una zona strategica e ricca di risorse. Sono cambiati gli attori, ma non gli interessi.

Gli Stati Uniti non posso permettersi troppi cedimenti, è la loro vocazione imperiale: forza repentina, tecnologia, presenza militare diffusa, servizi d’intelligence ramificati, capacità di intimidazione delle potenze avversarie.

Nel Medio Oriente l’Arabia Saudita è il migliore alleato di statunitensi e i britannici (in posizione più defilata) e si contrappone ferocemente alle ambizioni dell’Iran patria spirituale dei musulmani sciiti che rivendica maggiore spazio e intanto posiziona milizie e pedine in Libano (Hezbollah), in Iraq e in Siria nelle zone dove ancora si combatte il terrorismo islamista.

Di alcune cose siamo certi

– Sono tornati gli imperi, l’onda lunga dell’identità storica plasma il presente e il futuro. Il giovane impero, gli Stati Uniti, il Celeste Impero, la Cina, l’Impero dello Zar, la Russia, l’Impero Ottomano, la Turchia e la Grande Persia, l’Iran.Tutti giocano una partita per difendere interessi e spazi vitali.

– L’Europa continentale è inadeguata sul piano militare, bravi come al solito nel vaniloquio inconcludente.

– Le nazioni che pesano e hanno un futuro sono quelle pronte a combattere, con soldati addestrati, motivati e con l’età giusta per andare in battaglia.

– La forza militare deve essere combinata alla capacità di sostenere la guerra su due livelli: quello finanziario e quello della durata.

– La capacità economica subisce l’influenza di un altro fattore decisivo: la reazione dell’opinione pubblica di fronte alla morte.

Siamo agli albori di un mondo multipolare? È presto per dirlo, sicuramente le potenze in competizione non hanno tutte la stessa forza, a dimostrarlo il colpo a sorpresa del Presidente Trump.

Intanto, si scatenano le solite critiche contro l’approccio muscolare degli Stati Uniti come se fosse una novità, peraltro non dissimile dalla “politica delle cannoniere” dell’Europa dell’Ottocento. C’è chi invoca l’ordinamento internazionale, facendo finta di non sapere che esso è per sua natura anarchico e condizionato dal peso specifico delle nazioni.

C’è poi tutta la critica complessa e articolata dei vari schieramenti antagonisti, eurasiatisti, comunitaristi e idealisti assortiti. In particolare si rimprovera agli Stati Uniti d’America un atteggiamento arrogante capace soltanto di esacerbare i conflitti, piuttosto che di risolverli, mentre si attribuisce a Cina e Russia un approccio diplomatico che sarebbe più idoneo a garantire pace e stabilità. Non bisogna farsi ingannare.

I Cinesi aggrediscono interi settori produttivi nei paesi dove investono e la loro penetrazione in Africa e nell’Europa meridionale non è improntata all’assistenza sociale.

La Russia ha dimostrato di saper usare in maniera molto convincente la forza, qualora la potenza americana sia impossibilitata a reagire o per ristabilire un equilibrio politico alterato come è successo in Siria. Tuttavia per i russi sarebbe molto complicato, per motivi strettamente finanziari, mobilitarsi su più fronti contemporaneamente. L’atteggiamento conciliante di Putin, il suo equilibrio di fronte alla vicenda dell’attentato contro Soleimaini, è la dimostrazione dei limitati movimenti della Russia nello scacchiere internazionale: Mosca non può, almeno per ora, reggere alcun confronto armato con gli Stati Uniti d’America.

I rabbiosi richiami alla legalità internazionale provengono da coloro che non hanno la forza sufficiente per romperla impunemente. Gli Stati Uniti sono ancora l’unica superpotenza in grado di fare e disfare a piacimento. Non saranno le strategie degli oleodotti o complicate tattiche diplomatiche di Mosca e Pechino a spezzare questa supremazia, quando basta qualche missile per vanificarle.

Comprendere questo dato della realtà non significa abbandonarsi ad infatuazioni filo-atlantiche, il colpo inferto all’Iran è una botta di realismo, le reazioni isteriche dei teorici delle “nuove sintesi” mette in crisi tutti coloro che pensano a un declino americano da qui a breve. Invece di continuare con la geopolitica del bosco incantato dove i sogni si avverano, è tempo di una robusta Real Politik.

 

Note sulla comparsa di Steve Bannon

I media tradizionali descrivono Bannon come un personaggio di dubbie qualità intellettuali, un manipolatore in camicia da ranch. È una sceneggiatura già letta: se sono democratici sono tutti eleganti e raffinati, se sono repubblicani non sono buoni. Nei salotti editoriali si commette sempre il solito errore: sminuire l’avversario che non si riesce a inquadrare in categorie predefinite. In Europa da qualche anno si sta ridisegnando la mappa, popolari e socialdemocratici sono spintonati dalle forze politiche identitarie all’assalto del fortilizio di Bruxelles. Steve Bannon pensa che il vecchio continente sia sulla via di quello che lui chiama “tectonic shift”, uno smottamento del territorio politico.
Bannon è un uomo colto, un attento osservatore della storia, la sua biografia poliedrica dovrebbe suggerire prudenza del giudicarlo e innescare curiosità: percorso accademico solido (Virginia tech, Georgetown University, Havard Business School) autore e produttore cinematografico, operatore finanziario, militare (sette anni da ufficiale di marina), animatore di iniziative editoriali (Breitbart), stratega della comunicazione e soprattutto, un lettore forte.
Nella sua biblioteca c’è un libro scritto negli anni Novanta da due storici, William Strauss e Neil Howe, intitolato “The Fourth Turning”. Secondo i due studiosi, la storia americana si sviluppa in cicli di 80-100 anni, scanditi da periodi di crisi e rinascita. L’idea risale ai tempi dell’antica Grecia quando si pensava che alla fine di ogni secolo ci sarebbe stato un ekpyrosis, un evento catastrofico in grado di distruggere il vecchio ordine e mettere le fondamenta di uno nuovo. Il periodo di transizione è il Fourth Turning.
Si possono opporre validi ragionamenti alle dichiarazioni di Bannon, ma ci sono dei fatti incontrovertibili che non hanno ancora trovato una risposta. Quali? Gli eccessi del capitale finanziario, l’impoverimento delle nuove generazioni e dei ceti medi, lo strapotere delle corporation della Silicon Valley, le rivendicazioni scadenti delle minoranze organizzate, mascherate nel lessico dei “nuovi diritti”. Tutto ciò provoca una reazione composta di idee e pulsioni.
Su queste incertezze Bannon ipotizza una riduzione del potere tecnocratico, il richiamo alle forze popolari e l’auspicio che si formi una nuova élite dal basso. Non è un messaggio innovativo, ma è di stretta attualità.
Bannon propone un immaginario, piaccia o meno, al quale il sistema dei partiti tradizionali risponde con la riproposizione dello status quo con un’altra fisionomia, senza dare una risposta adeguata all’inquietudine che attraversa tutto l’Occidente. L’idea di creare una rete transnazionale di movimenti sovranisti è affascinante, ma non è sufficiente attivare energie emotive, si deve fare di più, formare l’élite, evitare di incagliarsi in dispute provinciali e comprendere che tra Europa e Stati Uniti non c’è sempre una comunanza di interessi.

Farmlands di Lauren Southern

 “Sono in Sudafrica per cercare la verità. In un paese dove l’agricoltura è diventata una delle attività più pericolose al mondo”. È con questa frase che inizia il trailer di “Farmlands”, documentario realizzato dall’attivista canadese Lauren Southern.

Il documentario (disponibile anche con i sottotitoli in italiano), racconta il notevole aumento della violenza contro la popolazione bianca del Sudafrica, la complicità delle istituzioni e i provvedimenti legislativi del governo sudafricano che sembrano avere come unica ragione un desiderio di vendetta postuma.

Farmlands mette in discussione la rassicurante narrativa sul paese dopo la fine del regime di apartheid ed è un invito ad analizzare il recente passato storico con maggiore lucidità.

 

 

Consiglio europeo: ottima giocata del professore Conte

Al Consiglio Europeo, l’Italia si è trovata al centro del dibattito (e dello scontro): frontiera meridionale dell’Europa, in questi anni ha svolto in solitudine con la Grecia sul fronte orientale, un lavoro di salvataggio e accoglienza degli immigrati provenienti dal Nord Africa. L’irrigidimento del governo e la richiesta di maggiore responsabilità e condivisione ha avuto il merito di smascherare l’atteggiamento di alcuni paesi europei sempre pronti con i sermoni morali e le pacche sulle spalle ma poco disposti a farsi carico dei gravami.

Alla fine, dopo un confronto serrato, si è giunti ad un accordo nella notte (ore 4.34) sottoscritto da tutti i paesi, con l’Italia protagonista in positivo. Il Presidente del Consiglio Conte è uscito dalla notte brussellese come il capo di un governo che è arrivato al Consiglio europeo con una sua proposta, un mandato parlamentare chiaro, l’ha difeso, ha messo la riserva sulle conclusioni, ha minacciato il veto e costretto il presidente francese Macron a sedersi al tavolo delle trattative per preparare una bozza dove ci fossero le ragioni di Roma e alla fine ha portato a casa un buon compromesso per l’Italia e l’Europa.

Angela Merkel per il momento, ha scongiurato una crisi con qualche concessione agli alleati della Csu bavarese che sperano in ottobre di non sprofondare alle elezioni regionali (non fatevi troppe illusioni). Questo vertice ha confermato Emmanuel Macron come il nemico dell’Italia, lo scrivo in senso politico, (rileggersi la dinamica amico/nemico di Carl Schmitt). Il presidente francese ha mostrato i suoi volti: prima arrogante, poi uomo di stato pragmatico attento a non sfasciare tutto e, finalmente un po’ più umile, quando insieme al presidente Conte ha evitato il black out europeo sull’immigrazione.

Non è una svolta epocale, ma un importante punto di partenza. Conte ha mostrato di possedere un profilo politico e non di essere un tecnico-mediatore tra due partiti. Il suo atteggiamento assertivo mi è piaciuto. Non sono predisposto all’euforia, ma vedere le categorie del Politico che recuperano lentamente terreno, è una buona notizia.

 

Sulla Siria il solito castello di bugie

Il conflitto in Siria è ridotto a poche porzioni di territorio dove sono asserragliate le milizie islamiste che qualcuno si ostina ancora a presentare come opposizione moderata. L’unica guerra che si combatte su vasta scala è quella dei media occidentali. Il web viene intasato di notizie spesso manipolate e distorte a senso unico, dove l’unica verità è il sangue delle vittime di rappresaglie, pestaggi, bombe ed esecuzioni sommarie. È la guerra dell’informazione condotta da principali media che però, questa volta, non è riuscita ad ottenere il risultato sperato, accompagnare la caduta del governo di Damasco. Sul terreno siriano non c’è stata semplicemente una massiccia infiltrazione di miliziani armati dalle potenze straniere, ma si è sperimentata una tecnica di guerra mediatica, fatta di propaganda di parte, esagerazione di eventi, alterazione dei numeri, dentro un mercato becero di immagini in stile horror.

Le notizie che contano, quelle che servono a impressionare, vengono estratte dal territorio e affluiscono su piattaforme digitali che provvedono a canalizzarle sul Web. È così è tutto un profluvio di video truculenti dei massacri nelle aree non ancora ripulite dall’esercito siriano: decapitazioni, crocifissioni di “infedeli”, presunti attacchi chimici, esibizioni muscolari da parte di gruppi autoproclamatisi ribelli.

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