demagogia è il vocabolo usato dai democratici, quando la democrazia li spaventa (Nicolás Gómez Dávila)

REVOLVER

Mese: Agosto 2014

Il califfo e i suoi amici




1.    In un documento pubblicato nel settembre 2013, l’ambasciatore del Qatar a Tripoli informava il suo ministero che un gruppo di 1800 miliziani era stato addestrato alla Jihad in Libia e proponeva di farli entrare in Siria attraverso il confine turco. (link)

2.    Ad Abu Bakr, sono stati versati 2,5 milioni di dollari da parte dal Qatar per i servizi offerti (è stato così svelato il mistero del rolex)

Il 3 Agosto 2013, l’Interpol ha diramato un’allerta generale a seguito di una serie di evasioni sospette, avvenute nel giro di una settimana in diversi paesi, con modalità tipiche dell’azione militare.

Infatti il 23 luglio circa mille prigionieri sono evasi dalle carceri di Taj e Abu Ghraib (Iraq). Il 27 luglio 1100 prigionieri scappavano dalla dalla prigione Kouafia (distretto di Bengasi, Libia) a seguito di una rivolta interna associata ad un assalto esterno. La notte del 29/30 luglio, 250 detenuti fuggivano dal carcere di Dera Ismail Khan (aree tribali del Pakistan).

Tutta gente che ha ingrossato le schiere delle organizzazioni armate che si stanno muovendo tra l’Iraq e la Siria.


Il potere non è più quello di una volta

Moisés Naím
La fine del potere
Mondadori, 2013

Questo saggio affronta il tema della trasformazione del potere e di come noi lo percepiamo. Per semplificare, il potere non garantisce più gli stessi privilegi di un tempo, nel XXI secolo è diventato più facile da conservare, ma più difficile da esercitare e più facile da perdere.
Dai consigli di amministrazione, ai campi di battaglia, passando per il cyberspazio, le lotte per il potere sono più intense che mai, ma rendono sempre meno e la loro asprezza ma-schera una dimensione evanescente, dove le barriere difensive del potere, un tempo solide, ora sono più semplici da colpire. Ciò non significa che il potere sia scomparso o che non vi siano più soggetti che ne possiedono in abbondanza, solo che chi lo detiene è forse più vincolato, più esposto al monitoraggio esterno. Aristotele sosteneva che potere, ricchezza e amicizia erano le tre componenti necessarie per la felicità individuale. Una definizione semplice del potere può essere questa: la capacità di indirizzare o ostacolare il corso o le azioni future di altri gruppi e individui.
Oppure, in altre parole, il potere è la forza che esercitiamo sugli altri e che li porta a com-portarsi come altrimenti non si sarebbero comportati. Tale approccio pratico non è né nuovo né controverso ma è una definizione di Robert Dahl del 1957 contenuta in The con-cept of power. Moisés Naím fa derivare queste modificazioni da tre trasformazioni che definisce: la rivoluzione del Più, della Mobilità e della Mentalità.
La rivoluzione del Più, contrassegnata da aumenti in ogni ambito, dal numero dei paesi a quello degli abitanti, dal tenore di vita al miglioramento dell’istruzione, passando per la quantità di prodotti disponibili sul mercato; la rivoluzione della Mobilità, che ha messo in movimento persone, merci, denaro, idee e valori a velocità in precedenza inimmaginabili verso tutti gli angoli del pianeta; la rivoluzione della Mentalità che riflette gli importanti cambiamenti in termini di aspirazioni e aspettative che hanno accompagnato questi nuovi sviluppi.
Tali cambiamenti hanno favorito in numerosi campi l’arrivo di nuovi soggetti: innovativi e ribelli, attivisti e terroristi. Hanno offerto svariate opportunità ai militanti democratici e a movimenti politici con programmi radicali e aperto all’influenza politica vie alternative, che aggirano e abbattono la formale rigida struttura interna all’establishment. Aumentata la velocità di propagazione, i movimenti orizzontali hanno rivelato anche l’erosione del monopolio esercitato un tempo dai partiti politici tradizionali.
Nella politica internazionale, i piccoli protagonisti – sia paesi “minori” o entità non statali – hanno acquisito nuove opportunità di interferire, dirottare e ostacolare gli sforzi delle grandi potenze. Questi importanti ed eterogenei piccoli protagonisti hanno alcune cose in comune: il fatto che non necessitano più di grandi dimensioni, di ampio raggio d’azione e di una storia e tradizione per lasciare il segno. Rappresentano l’ascesa di un nuovo tipo di potere – un “micropotere” – che in passato aveva poche possibilità di successo. L’ascesa dei micropoteri e la capacità di sfidare i grandi è un fattore importante della nostra epoca. La decadenza del potere non implica l’estinzione dei grandi protagonisti (governi, eserciti, università, multinazionali), le loro azioni avranno ancora un peso notevole, ma più difficile da gestire.
Moises prende di mira due stereotipi sul potere: uno è la fissazione che Internet possa spiegare tutti i mutamenti avvenuti, soprattutto nella politica e negli affari; l’altro è l’ossessione per il cambio della guardia nella geopolitica: il declino di alcune nazioni (esempio gli USA) e l’ascesa di altre (soprattutto la Cina), vengono presentati come la principale tendenza che trasformerà il mondo come lo conosciamo. Il deterioramento di certe forme di potere non è causata specificamente dalle nuove tecnologie. Internet e gli altri strumenti stanno indubbiamente trasformando la politica, l’attivismo, l’economia e, come è ovvio, il potere. Troppo spesso il ruolo della rete viene frainteso o ingigantito, ma questi strumenti per avere un impatto significativo necessitano di utilizzatori, che a loro volta hanno bisogno di scopi, direzioni e motivazioni.
Il ridimensionamento e la trasformazione del potere come l’abbiamo conosciuto cosa sta provocando? Instabilità e disordine? E se questo caos presuppone ordine e logica?

La rappresentazione distorta del conflitto siriano

Nel conflitto siriano non ci sono soltanto le armi e i morti, ma si lotta anche sui mass media. La cronaca del conflitto viene spesso manipolata con informazioni distorte e nutrita con vittime vere di rappresaglie armate, pestaggi, attentati ed esecuzioni sommarie, le cui immagini stanno intasando il Web. E’ la guerra dell’informazione condotta da principali media occidentali che però, questa volta, non è riuscita ad ottenere il risultato sperato, accompagnare la caduta del governo di Damasco.

I siriani si sono visti piombare non solo una masnada di guerriglieri fanatici armati dai servizi di sicurezza delle principali potenze europee (francesi e inglesi in testa), ma hanno corso il serio rischio di perdere la propria nazione, con il suo formidabile patrimonio culturale e multiconfessionale costruito nei secoli. Se nella prima fase, quando lo scontro era solo a livello politico, la tentazione di molti è stata quella di mandare a casa Assad e sperimentare qualcosa di nuovo, ci si è presto resi conto che un cambio di regime avrebbe gettato il paese in un disordine tremendo, come quello che stanno vivendo in Libia.
Sul territorio siriano non c’è stata semplicemente una massiccia infiltrazione di miliziani armati dai potenze straniere, ma si è sperimentata una tecnica di guerra mediatica, fatta di propaganda di parte, esagerazione di eventi, manipolazione dei numeri, all’interno di un mercato becero di immagini in stile horror.
Le notizie che contano, quelle che servono ad impressionare vengono estratte dal territorio e affluiscono su piattaforme digitali che provvedono a canalizzarle sul Web. È così è tutto un profluvio di video truculenti dei massacri nelle aree non ancora ripulite dall’esercito siriano: decapitazioni, crocifissioni di “infedeli”, presunti attacchi chimici, esibizioni muscolari da parte di gruppi autoproclamatisi ribelli.

Poi, quando il fenomeno mediatico si ingigantisce e alla notizia subentra la manipolazione gli esiti sono spesso grossolani. Fin dall’inizio, sui blog è risuonata un’incredibile sinfonia di propagandisti. Vi ricordate “gay girl in Damascus”, la povera ragazza arrestata dalla polizia siriana per aver partecipato ad una manifestazione contro il governo? Dopo gli appelli internazionali per la sua liberazione, si scoprì che la storia era stata inventata da un quarantenne americano, Tom McMaster. Siamo nel giugno del 2011. La frode avrebbe dovuto suggerire cautela. Invece sono spuntati nuovi eroi e militanti politici con i loro racconti degni di una sceneggiatura da serie televisiva.

Danny Dayem era un giovane siriano cresciuto in Inghilterra con una faccia pulita che attirava credito e trovava spazio sui grandi canali d’informazione (BBC e Cnn). Esempio tangibile di cittadino giornalista, l’eroico Danny era tornato nella terra natia, aggirandosi in uno scenario di morte e distruzione. Danny con la voce rotta dall’emozione raccontava i bombardamenti governativi e i massacri di civili non meglio identificati. Nel febbraio 2012 descriveva l’assedio di Homs, ma un errore del cameramen della CNN, ci fece scoprire che le riprese avvenivano in un luogo sicuro con effetti sonori e immagini manomesse. Sarà la stessa CNN, non nuova a queste fabbricazioni, a costringere il coraggioso Danny a dichiararsi un impostore. Con il passare del tempo, nel conflitto siriano con i suoi esiti imprevedibili, come il deciso intervento politico della Russia a difesa di Damasco, si sono segnalate altre finzioni (fabbricate sulla pelle della gente) che sono finite per sovrapporsi ai fatti. C’è ancora chi si ostina a distinguere nel settore dell’opposizione armata una parte buona e una cattiva mentre, salvo rare eccezioni, il governo siriano è stato sempre accusato di “gravi violazioni”.
Con i terroristi dentro casa, i metodi possono essere solo sbrigativi e purtroppo i danni collaterali sono inevitabili. A chi spara non si risponde con il dialogo politico, ma con l’artiglieria. Questa rappresentazione mediatica di fondo è diventata un magnete per i fanatici della guerra santa, per l’attrazione morbosa che suscita questo flusso continuo di video raccapriccianti. I media quando diventano armi, creano confusione e fanno della manipolazione un elemento strutturale.

Israele-Palestina, la truffa del “processo di pace”

Siamo qui a commentare l’ennesimo conflitto armato tra israeliani e palestinesi, ad indignarci per il sangue e l’odore della morte. Distratti da un informazione finalizzata a generare confusione, rischiamo di perdere di vista il vero problema, l’unico irrisolto dal 1948: la sistematica negazione ai palestinesi del diritto di avere uno stato indipendente. Passano gli anni e la continua modificazione della carta geografica a causa delle guerre, rende più difficile l’obiettivo dei “due stati” in grado di convivere pacificamente.

Fra il Mediterraneo e il Giordano regna un solo stato, quello ebraico. Il recente conflitto certifica la triste realtà e dimostra come tecnicamente gli israeliani abbiano già vinto la battaglia politica, perché da decenni gli viene consentito di fare tutto con un’arroganza raccapricciante. Grazie ai miliardi americani ed europei, alle lobby sioniste sparse in giro per il mondo, abbiamo consentito ad uno stato segregazionista, retto da una classe dirigente intrisa di fanatismo religioso, di rafforzarsi a dismisura.
Servono a poco le grandi manifestazioni di solidarietà, le bandiere palestinesi che sventolano nelle capitali europee, se poi a conti fatti, nessun governo occidentale osa sfidare Tel Aviv. A nessuno interessa più della questione palestinese, perché politicamente non è più spendibile, quindi è meglio conservare un atteggiamento di ipocrisia e finto sostegno. L’ipotetica futura Palestina dovrebbe sopra due entità territoriali isolate: la Striscia di Gaza, dove un’intera popolazione vive ristretta come in prigione e la Cisgiordania, disseminata da posti di blocco e punteggiata da numerose colonie ebraiche illegali e circondata da un muro. I palestinesi che già esercitano una limitata autonomia amministrativa dovrebbero in futuro governare su una porzione di territorio, perché circa la metà è resa inaccessibile dalle infrastrutture civili e militari israeliane.
Nel conflitto israelo-palestinese l’indebolimento politico dei palestinesi è la principale eredità degli ultimi vent’anni, da quando le parti hanno cominciato a “dialogare”, avviando un processo di pace infinito che mai si conclude.
Questo gioco continuo, la finzione di “negoziare” è il trucco utilizzato da Israele per conservare lo status quo e proseguire nella rapida colonizzazione della Cisgiordania fino al dissolvimento di ogni possibilità di formarvi uno stato sovrano.
Israele gioca sporco, perpetuando l’inganno attraverso la calcolata adesione al “processo di pace” che dal 1993 ad oggi non ha prodotto risultati apprezzabili. L’élite al potere a Tel Aviv, vuole mantenere questa tensione permanente proprio per non fare concessioni ai palestinesi. Mentre americani ed europei ripetono la filastrocca dei “due stati”, ma non si impegnano abbastanza in tal senso, Israele procede in tre direzioni: isolamento di Gaza, colonizzazione illegale della Cisgiordania e contemporaneo sviluppo economico della stessa al fine di “raffreddare” la collera palestinese.
Chiaramente, l’ostacolo alla soluzione del conflitto non è stata la scarsità di iniziative di pace o di inviati col compito di promuoverla. Né è stata la violenza a cui i palestinesi sono ricorsi nella loro lotta per liberarsi dall’occupazione, anche quando essa ha colpito deprecabilmente la popolazione civile. Ma cosa resta quando il desiderio d’indipendenza di un popolo viene calpestato continuamente? Dai primi contatti a Madrid nel 1991 fino ai primi accordi del 1993, passando per il vertice di Camp David del 2000 e tutta una serie infinita di incontri, appuntamenti, colloqui che si sono risolti in un nulla di fatto. Dopo tutti questi anni già esisterebbe uno stato palestinese, se a livello internazionale si fosse utilizzato il pugno di ferro contro gli israeliani, affrontandoli a muso duro.
Siamo al paradosso. Israele continua a recitare la parte di chi tiene accesa la fiamma della speranza.

LA STORIA
Il 13 settembre 1993 Arafat e Rabin a Washington, in una storica cerimonia, firmarono una Dichiarazione di Principi che comprendeva il mutuo riconoscimento tra Israele e OLP. In quell’occasione venne consentito ai palestinesi di formare una propria ammini-strazione su un territorio spezzettato, ma tutte le questioni spinose vennero rimandate a futuri negoziati: il ritorno dei profughi palestinesi, le risorse idriche, il destino di Gerusalemme Est e la definizione dei confini precisi tra i due stati. L’idea era che attraverso una serie di accordi intermedi, sarebbe cresciuta la fiducia tra le parti.
All’inizio sembrava così, poi l’omicidio di Rabin nel novembre del 1995, per mano di un estremista ebreo, fece precipitare la situazione e una serie di successive tensioni, fornirono la scusa ad Israele per non dare seguito agli accordi sottoscritti. Lo stallo durerà fino al 2000, quando nei primi mesi palestinesi e israeliani si sarebbero visti più volte, prima segretamente a Stoccolma, poi negli Stati Uniti a Camp David, sotto la supervisione di Clinton.
Il presidente americano convinse un riluttante Arafat a confrontarsi con Barak, allora primo ministro israeliano. Non si arrivò ad un accordo e la colpa venne addossata esclusivamente ad Arafat che si era rifiutato di accettare le offerte “generose” degli israeliani.
In cosa consisteva questa generosa offerta ce lo descrisse in articolo dell’aprile 2002 pubblicato sul Guardian, David Clark, all’epoca consigliere speciale al Ministero degli Esteri britannico. Titolo: “La brillante offerta che Israele non ha mai fatto”. “L’offerta di Barak di uno stato palestinese basata sul 91% della Cisgiordania sembrava generosa, ma un’occhiata alle mappe svelò subito la malafede. La Cisgiordania sarebbe stata sezionata in tre blocchi, circondati da truppe israeliane e da coloni ebrei, senza alcun accesso alle proprie frontiere. Inoltre, lo scambio di territori che avrebbe dovuto compensare i palestinesi per la perdita di ottimo terreno coltivabile in Cisgiordania, aggiungeva al danno la beffa. Gli fu infatti offerte una parte di deserto vicino alla striscia di Gaza che oggi gli israeliani usano come discarica di materiale tossico. Niente di meglio accadde nella proposta di divisione di Gerusalemme capitale, dove ai palestinesi veniva dato il controllo di frammenti della parte est della città, che era sempre appartenuta a loro prima del 1967. Barak sventolava l’illusione di sovranità per i palestinesi mentre in realtà si perpetuava la loro sottomissione”.

Il processo di pace è una finzione utile a nascondere la confisca sistematica del territorio palestinese. Si tratta della più spettacolare frode della storia contemporanea. L’obiettivo dell’occupazione, secondo l’ex capo di stato maggiore delle Forze armate israeliane, Moshe Ya’alon è quello di “imprimere profondamente nella coscienza dei palestinesi che sono un popolo sconfitto”.
Il generale Moshe Dayan, uno dei protagonisti della famosa Guerra dei Sei giorni (5-10 giugno 1967), nel corso di una conferenza a Tel Aviv nel 1977, a proposito dell’assetto dei territori occupati, si esprimeva in questi termini: “La questione non sta nel chiedersi, “qual è la soluzione”, ma come continueremo a vivere senza soluzione”.
L’obiettivo della classe politica israeliana, è quello di continuare a vivere senza soluzione. Nel loro lessico politico non esistono “diritti” per i palestinesi ma solo caritatevoli elargizioni. La recente accelerazione impressa all’esproprio del territorio palestinese, si deve ad un progetto diretto e concepito durante il mandato (2001-2006) del primo ministro Ariel Sharon. Con una serie di mosse ben studiate, come l’evacuazione di Gaza nel 2005, egli è passato alla storia come un uomo impegnato nell’eroico sforzo di perseguire una pace onorevole. Pochi si sono resi conto che quello fu il primo tentativo riuscito di creare un ghetto palestinese facile da controllare e all’occorrenza bombardare. I fatti di Gaza passati e recenti dimostrano cosa sarà di coloro che non si comporteranno secondo i desideri di Israele. Il falso processo di pace e la prospettiva dei due stati, consente l’interminabile occupazione e il graduale smembramento delle terre palestinesi. Tutto ciò è stato possibile grazie alla comunità internazionale e ai miliardi di dollari americani che hanno offerto copertura politica e diplomatica all’atteggiamento vittimista e borioso di Israele.
Dov Weissglass, l’ex capo di gabinetto di Ariel Sharon, intervistato nel 2007 dal quotidiano Haaretz, su quale fosse lo scopo di agire in tal senso, disse semplicemente che il “processo di pace” andava conservato in “formaldeide”. La metafora era quanto mai appropriata: questa sostanza chimica impedisce la decomposizione dei cadaveri dando a volte l’illusione che siano ancora in vita. Laddove la salma in questo caso, è la Palestina.
Come già accennato, il ritiro unilaterale da Gaza nell’agosto 2005 e lo smantellamento di
qualche insediamento ebraico isolato in Cisgiordania erano stati concepiti per ottenere consenso e approvazione internazionale, ma non erano il preludio ad un ritiro totale.
Lo sforzo di Israele per conservare a tutti i costi una forma di controllo sui quei territori, seppure con modalità diverse, perché Gaza e Ramallah non hanno la stessa importanza politica, dipende dal fatto che le zone “occupate” non vengono considerate tali.

Gli argomenti truffaldini utilizzati, sono ammantati con una veste giuridica, come quella dell’interpretazione “per difetto” della risoluzione dell’ONU numero 242. Essa fu votata il 22 novembre 1967, alcuni mesi dopo la guerra dei sei giorni e imponeva il ritiro delle truppe israeliane da tutte le terre conquistate nel corso del conflitto, cosa che avvenne solo parzialmente. La tesi sostenuta da tempo dagli israeliani è che siccome non esisteva uno stato palestinese prima del 1967, non esistono confini riconosciuti entro i quali bisognerebbe ritirarsi, poiché anteriormente a quella data ci sono solo linee di armistizio (guerra 1948-49).
Inoltre, il testo della risoluzione 242 invoca una “pace giusta e duratura che consentirà a “ogni stato di quest’area di vivere in sicurezza”. Pertanto Israele ritiene di avere il diritto di modificare quella linea per garantirsi la sicurezza prima di porre fine all’occupazione.
Questo argomento specioso è alla base di decenni di soprusi da parte di Tel Aviv che finge di dimenticare che una risoluzione precedente dell’ONU, la numero 181 aveva definito confini precisi, sancito la legittimità internazionale di Israele e riconosciuto al restante territorio, un patrimonio per le popolazioni arabo-palestinesi. Il diritto di autodeterminazione di un popolo, non svanisce a causa dei ritardi nella sua attuazione, specialmente se a ritardarla è un occupazione militare. La sicurezza è solo un alibi.
Vero è che nel corso della guerra del 48-89 lanciata dai paesi arabi per impedire che fosse applicata la risoluzione ONU sulla spartizione, Israele espanse il suo territorio del 50%. Se però è illegittimo estendere i propri confini a seguito di una guerra, allora il problema adesso non è, comprensibilmente, stabilire quanto territorio palestinese può essere requisito, ma piuttosto quanta parte di quello acquisito durante la guerra del 1948 ha diritto di conservare.
In ultima analisi se vanno fatti aggiustamenti alla linea di armistizio del 1949, dovrebbero essere effettuati dal lato israeliano di questa linea, non da quello palestinese.
La verità è che Israele considera le zone palestinesi come territori “contesi”, sui quali avanza pretese, fregandosene del diritto internazionale e del fatto quella terra era abitata dagli arabi e da comunità di ebrei e cristiani autoctoni da molti secoli. L’uso della denominazione biblica di Giudea e Samaria per indicare quelle aree è indicativo di una mentalità.
In queste giornate infuocate vale la pena sfogliare un libro scritto nel 1993 da Benjamin Netanyahu, attuale primo ministro israeliano, intitolato “A Place Among Nations”. Nel libro si argomentava che solo gli ebrei potevano vivere in Israele mentre i palestinesi avrebbero potuto accasarsi in Giordania.
Mentre Gaza andava abbandonata al proprio destino di decadenza, per la Cisgiordania bisognava aggrapparsi ad ogni centimetro di terra. Su come ottenere questo risultato Netanyahu aveva le chiare. Prima di tutto bisognava vincere la guerra demografica con i palestinesi, aumentando il tasso di fertilità delle donne israeliane, poi bisognava dividere la Cisgiordania in quattro contee con un limitato autogoverno e dopo un periodo di raffreddamento di vent’anni, se i palestinesi si fossero comportati in un certo modo, avrebbero potuto scegliere di chiedere la cittadinanza israeliana giurando fedeltà allo stato ebraico.
Sull’incremento delle nascite a prenderlo sul serio sono stati solo gli ebrei ortodossi, mentre per l’altro obiettivo non si può negare purtroppo che siamo a buon punto.
Il 12 maggio 2002 durante il congresso del Likud, il suo partito, Netanyahu disse con estrema sincerità di non volere uno stato indipendente palestinese: “La questione non è se in un futuro accordo i palestinesi godranno di un autogoverno. Nessuno di noi è interessato a dominare neppure un palestinese. La questione è se possiamo accettare il fatto che ottengano quelle prerogative, al di là dell’autogoverno, proprie degli Stati sovrani. Uno stato palestinese che abbia un totale controllo di quanto avviene nei propri confini potrebbe farvi entrare armi e soldati senza limitazioni (…)”
Uno stato palestinese che abbia la gestione delle fonti idriche, controllerebbe la falda acquifera montana, che fornisce il 30% della nostra acqua e gran parte di quella potabile (…) “Se e quando vi arriveremo, io vedo un autogoverno in cui i palestinesi abbiano tutte le libertà, ma uno Stato, con tutte le implicazioni che ho ricordato – questo no”.
Col tempo Netanyahu ha consolidato la sua strategia per un autogoverno palestinese assai limitato, con l’intento di stabilizzare la situazione attraverso gli affari economici. Il senso è più o meno questo: facciamo sviluppare la Cisgiordania sotto occupazione e vedrete come si calmeranno i palestinesi. Effettivamente il miglioramento delle condizioni economiche, accompagnato alla crescita esponenziale delle colonie ebraiche illegali, ha permesso senza particolari tensioni di proseguire nella scomposizione della regione palestinese. Se riduci sempre più il territorio come puoi gettare le basi per un nuovo stato?
Il problema non è, come spesso pretendono gli israeliani e racconta la “stampa seria”, che i palestinesi non sanno fare compromessi. Si tratta di un’accusa indecente, giacché essi hanno fatto la concessione più importante, riconoscendo formalmente la legittimità dello Stato di Israele entro i confini della linea di armistizio del 1949.
I palestinesi si sono sacrificati troppo, rinunciando a rivendicare più della metà del territorio assegnato dall’ONU. Questa è si una concessione generosa, non gli imbrogli israeliani. L’idea che si debba procedere ad ulteriori aggiustamenti dei confini a spese di quel misero 22% del territorio che rimane ai palestinesi è profondamente offensivo.

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