Mese: Agosto 2014
Moisés Naím
La fine del potere
Mondadori, 2013
Siamo qui a commentare l’ennesimo conflitto armato tra israeliani e palestinesi, ad indignarci per il sangue e l’odore della morte. Distratti da un informazione finalizzata a generare confusione, rischiamo di perdere di vista il vero problema, l’unico irrisolto dal 1948: la sistematica negazione ai palestinesi del diritto di avere uno stato indipendente. Passano gli anni e la continua modificazione della carta geografica a causa delle guerre, rende più difficile l’obiettivo dei “due stati” in grado di convivere pacificamente.
Fra il Mediterraneo e il Giordano regna un solo stato, quello ebraico. Il recente conflitto certifica la triste realtà e dimostra come tecnicamente gli israeliani abbiano già vinto la battaglia politica, perché da decenni gli viene consentito di fare tutto con un’arroganza raccapricciante. Grazie ai miliardi americani ed europei, alle lobby sioniste sparse in giro per il mondo, abbiamo consentito ad uno stato segregazionista, retto da una classe dirigente intrisa di fanatismo religioso, di rafforzarsi a dismisura.
Servono a poco le grandi manifestazioni di solidarietà, le bandiere palestinesi che sventolano nelle capitali europee, se poi a conti fatti, nessun governo occidentale osa sfidare Tel Aviv. A nessuno interessa più della questione palestinese, perché politicamente non è più spendibile, quindi è meglio conservare un atteggiamento di ipocrisia e finto sostegno. L’ipotetica futura Palestina dovrebbe sopra due entità territoriali isolate: la Striscia di Gaza, dove un’intera popolazione vive ristretta come in prigione e la Cisgiordania, disseminata da posti di blocco e punteggiata da numerose colonie ebraiche illegali e circondata da un muro. I palestinesi che già esercitano una limitata autonomia amministrativa dovrebbero in futuro governare su una porzione di territorio, perché circa la metà è resa inaccessibile dalle infrastrutture civili e militari israeliane.
Nel conflitto israelo-palestinese l’indebolimento politico dei palestinesi è la principale eredità degli ultimi vent’anni, da quando le parti hanno cominciato a “dialogare”, avviando un processo di pace infinito che mai si conclude.
Questo gioco continuo, la finzione di “negoziare” è il trucco utilizzato da Israele per conservare lo status quo e proseguire nella rapida colonizzazione della Cisgiordania fino al dissolvimento di ogni possibilità di formarvi uno stato sovrano.
Israele gioca sporco, perpetuando l’inganno attraverso la calcolata adesione al “processo di pace” che dal 1993 ad oggi non ha prodotto risultati apprezzabili. L’élite al potere a Tel Aviv, vuole mantenere questa tensione permanente proprio per non fare concessioni ai palestinesi. Mentre americani ed europei ripetono la filastrocca dei “due stati”, ma non si impegnano abbastanza in tal senso, Israele procede in tre direzioni: isolamento di Gaza, colonizzazione illegale della Cisgiordania e contemporaneo sviluppo economico della stessa al fine di “raffreddare” la collera palestinese.
Chiaramente, l’ostacolo alla soluzione del conflitto non è stata la scarsità di iniziative di pace o di inviati col compito di promuoverla. Né è stata la violenza a cui i palestinesi sono ricorsi nella loro lotta per liberarsi dall’occupazione, anche quando essa ha colpito deprecabilmente la popolazione civile. Ma cosa resta quando il desiderio d’indipendenza di un popolo viene calpestato continuamente? Dai primi contatti a Madrid nel 1991 fino ai primi accordi del 1993, passando per il vertice di Camp David del 2000 e tutta una serie infinita di incontri, appuntamenti, colloqui che si sono risolti in un nulla di fatto. Dopo tutti questi anni già esisterebbe uno stato palestinese, se a livello internazionale si fosse utilizzato il pugno di ferro contro gli israeliani, affrontandoli a muso duro.
Siamo al paradosso. Israele continua a recitare la parte di chi tiene accesa la fiamma della speranza.
LA STORIA
Il 13 settembre 1993 Arafat e Rabin a Washington, in una storica cerimonia, firmarono una Dichiarazione di Principi che comprendeva il mutuo riconoscimento tra Israele e OLP. In quell’occasione venne consentito ai palestinesi di formare una propria ammini-strazione su un territorio spezzettato, ma tutte le questioni spinose vennero rimandate a futuri negoziati: il ritorno dei profughi palestinesi, le risorse idriche, il destino di Gerusalemme Est e la definizione dei confini precisi tra i due stati. L’idea era che attraverso una serie di accordi intermedi, sarebbe cresciuta la fiducia tra le parti.
All’inizio sembrava così, poi l’omicidio di Rabin nel novembre del 1995, per mano di un estremista ebreo, fece precipitare la situazione e una serie di successive tensioni, fornirono la scusa ad Israele per non dare seguito agli accordi sottoscritti. Lo stallo durerà fino al 2000, quando nei primi mesi palestinesi e israeliani si sarebbero visti più volte, prima segretamente a Stoccolma, poi negli Stati Uniti a Camp David, sotto la supervisione di Clinton.
Il presidente americano convinse un riluttante Arafat a confrontarsi con Barak, allora primo ministro israeliano. Non si arrivò ad un accordo e la colpa venne addossata esclusivamente ad Arafat che si era rifiutato di accettare le offerte “generose” degli israeliani.
In cosa consisteva questa generosa offerta ce lo descrisse in articolo dell’aprile 2002 pubblicato sul Guardian, David Clark, all’epoca consigliere speciale al Ministero degli Esteri britannico. Titolo: “La brillante offerta che Israele non ha mai fatto”. “L’offerta di Barak di uno stato palestinese basata sul 91% della Cisgiordania sembrava generosa, ma un’occhiata alle mappe svelò subito la malafede. La Cisgiordania sarebbe stata sezionata in tre blocchi, circondati da truppe israeliane e da coloni ebrei, senza alcun accesso alle proprie frontiere. Inoltre, lo scambio di territori che avrebbe dovuto compensare i palestinesi per la perdita di ottimo terreno coltivabile in Cisgiordania, aggiungeva al danno la beffa. Gli fu infatti offerte una parte di deserto vicino alla striscia di Gaza che oggi gli israeliani usano come discarica di materiale tossico. Niente di meglio accadde nella proposta di divisione di Gerusalemme capitale, dove ai palestinesi veniva dato il controllo di frammenti della parte est della città, che era sempre appartenuta a loro prima del 1967. Barak sventolava l’illusione di sovranità per i palestinesi mentre in realtà si perpetuava la loro sottomissione”.
Il processo di pace è una finzione utile a nascondere la confisca sistematica del territorio palestinese. Si tratta della più spettacolare frode della storia contemporanea. L’obiettivo dell’occupazione, secondo l’ex capo di stato maggiore delle Forze armate israeliane, Moshe Ya’alon è quello di “imprimere profondamente nella coscienza dei palestinesi che sono un popolo sconfitto”.
Il generale Moshe Dayan, uno dei protagonisti della famosa Guerra dei Sei giorni (5-10 giugno 1967), nel corso di una conferenza a Tel Aviv nel 1977, a proposito dell’assetto dei territori occupati, si esprimeva in questi termini: “La questione non sta nel chiedersi, “qual è la soluzione”, ma come continueremo a vivere senza soluzione”.
L’obiettivo della classe politica israeliana, è quello di continuare a vivere senza soluzione. Nel loro lessico politico non esistono “diritti” per i palestinesi ma solo caritatevoli elargizioni. La recente accelerazione impressa all’esproprio del territorio palestinese, si deve ad un progetto diretto e concepito durante il mandato (2001-2006) del primo ministro Ariel Sharon. Con una serie di mosse ben studiate, come l’evacuazione di Gaza nel 2005, egli è passato alla storia come un uomo impegnato nell’eroico sforzo di perseguire una pace onorevole. Pochi si sono resi conto che quello fu il primo tentativo riuscito di creare un ghetto palestinese facile da controllare e all’occorrenza bombardare. I fatti di Gaza passati e recenti dimostrano cosa sarà di coloro che non si comporteranno secondo i desideri di Israele. Il falso processo di pace e la prospettiva dei due stati, consente l’interminabile occupazione e il graduale smembramento delle terre palestinesi. Tutto ciò è stato possibile grazie alla comunità internazionale e ai miliardi di dollari americani che hanno offerto copertura politica e diplomatica all’atteggiamento vittimista e borioso di Israele.
Dov Weissglass, l’ex capo di gabinetto di Ariel Sharon, intervistato nel 2007 dal quotidiano Haaretz, su quale fosse lo scopo di agire in tal senso, disse semplicemente che il “processo di pace” andava conservato in “formaldeide”. La metafora era quanto mai appropriata: questa sostanza chimica impedisce la decomposizione dei cadaveri dando a volte l’illusione che siano ancora in vita. Laddove la salma in questo caso, è la Palestina.
Come già accennato, il ritiro unilaterale da Gaza nell’agosto 2005 e lo smantellamento di
qualche insediamento ebraico isolato in Cisgiordania erano stati concepiti per ottenere consenso e approvazione internazionale, ma non erano il preludio ad un ritiro totale.
Lo sforzo di Israele per conservare a tutti i costi una forma di controllo sui quei territori, seppure con modalità diverse, perché Gaza e Ramallah non hanno la stessa importanza politica, dipende dal fatto che le zone “occupate” non vengono considerate tali.
Gli argomenti truffaldini utilizzati, sono ammantati con una veste giuridica, come quella dell’interpretazione “per difetto” della risoluzione dell’ONU numero 242. Essa fu votata il 22 novembre 1967, alcuni mesi dopo la guerra dei sei giorni e imponeva il ritiro delle truppe israeliane da tutte le terre conquistate nel corso del conflitto, cosa che avvenne solo parzialmente. La tesi sostenuta da tempo dagli israeliani è che siccome non esisteva uno stato palestinese prima del 1967, non esistono confini riconosciuti entro i quali bisognerebbe ritirarsi, poiché anteriormente a quella data ci sono solo linee di armistizio (guerra 1948-49).
Inoltre, il testo della risoluzione 242 invoca una “pace giusta e duratura che consentirà a “ogni stato di quest’area di vivere in sicurezza”. Pertanto Israele ritiene di avere il diritto di modificare quella linea per garantirsi la sicurezza prima di porre fine all’occupazione.
Questo argomento specioso è alla base di decenni di soprusi da parte di Tel Aviv che finge di dimenticare che una risoluzione precedente dell’ONU, la numero 181 aveva definito confini precisi, sancito la legittimità internazionale di Israele e riconosciuto al restante territorio, un patrimonio per le popolazioni arabo-palestinesi. Il diritto di autodeterminazione di un popolo, non svanisce a causa dei ritardi nella sua attuazione, specialmente se a ritardarla è un occupazione militare. La sicurezza è solo un alibi.
Vero è che nel corso della guerra del 48-89 lanciata dai paesi arabi per impedire che fosse applicata la risoluzione ONU sulla spartizione, Israele espanse il suo territorio del 50%. Se però è illegittimo estendere i propri confini a seguito di una guerra, allora il problema adesso non è, comprensibilmente, stabilire quanto territorio palestinese può essere requisito, ma piuttosto quanta parte di quello acquisito durante la guerra del 1948 ha diritto di conservare.
In ultima analisi se vanno fatti aggiustamenti alla linea di armistizio del 1949, dovrebbero essere effettuati dal lato israeliano di questa linea, non da quello palestinese.
La verità è che Israele considera le zone palestinesi come territori “contesi”, sui quali avanza pretese, fregandosene del diritto internazionale e del fatto quella terra era abitata dagli arabi e da comunità di ebrei e cristiani autoctoni da molti secoli. L’uso della denominazione biblica di Giudea e Samaria per indicare quelle aree è indicativo di una mentalità.
In queste giornate infuocate vale la pena sfogliare un libro scritto nel 1993 da Benjamin Netanyahu, attuale primo ministro israeliano, intitolato “A Place Among Nations”. Nel libro si argomentava che solo gli ebrei potevano vivere in Israele mentre i palestinesi avrebbero potuto accasarsi in Giordania.
Mentre Gaza andava abbandonata al proprio destino di decadenza, per la Cisgiordania bisognava aggrapparsi ad ogni centimetro di terra. Su come ottenere questo risultato Netanyahu aveva le chiare. Prima di tutto bisognava vincere la guerra demografica con i palestinesi, aumentando il tasso di fertilità delle donne israeliane, poi bisognava dividere la Cisgiordania in quattro contee con un limitato autogoverno e dopo un periodo di raffreddamento di vent’anni, se i palestinesi si fossero comportati in un certo modo, avrebbero potuto scegliere di chiedere la cittadinanza israeliana giurando fedeltà allo stato ebraico.
Sull’incremento delle nascite a prenderlo sul serio sono stati solo gli ebrei ortodossi, mentre per l’altro obiettivo non si può negare purtroppo che siamo a buon punto.
Il 12 maggio 2002 durante il congresso del Likud, il suo partito, Netanyahu disse con estrema sincerità di non volere uno stato indipendente palestinese: “La questione non è se in un futuro accordo i palestinesi godranno di un autogoverno. Nessuno di noi è interessato a dominare neppure un palestinese. La questione è se possiamo accettare il fatto che ottengano quelle prerogative, al di là dell’autogoverno, proprie degli Stati sovrani. Uno stato palestinese che abbia un totale controllo di quanto avviene nei propri confini potrebbe farvi entrare armi e soldati senza limitazioni (…)”
Uno stato palestinese che abbia la gestione delle fonti idriche, controllerebbe la falda acquifera montana, che fornisce il 30% della nostra acqua e gran parte di quella potabile (…) “Se e quando vi arriveremo, io vedo un autogoverno in cui i palestinesi abbiano tutte le libertà, ma uno Stato, con tutte le implicazioni che ho ricordato – questo no”.
Col tempo Netanyahu ha consolidato la sua strategia per un autogoverno palestinese assai limitato, con l’intento di stabilizzare la situazione attraverso gli affari economici. Il senso è più o meno questo: facciamo sviluppare la Cisgiordania sotto occupazione e vedrete come si calmeranno i palestinesi. Effettivamente il miglioramento delle condizioni economiche, accompagnato alla crescita esponenziale delle colonie ebraiche illegali, ha permesso senza particolari tensioni di proseguire nella scomposizione della regione palestinese. Se riduci sempre più il territorio come puoi gettare le basi per un nuovo stato?
Il problema non è, come spesso pretendono gli israeliani e racconta la “stampa seria”, che i palestinesi non sanno fare compromessi. Si tratta di un’accusa indecente, giacché essi hanno fatto la concessione più importante, riconoscendo formalmente la legittimità dello Stato di Israele entro i confini della linea di armistizio del 1949.
I palestinesi si sono sacrificati troppo, rinunciando a rivendicare più della metà del territorio assegnato dall’ONU. Questa è si una concessione generosa, non gli imbrogli israeliani. L’idea che si debba procedere ad ulteriori aggiustamenti dei confini a spese di quel misero 22% del territorio che rimane ai palestinesi è profondamente offensivo.