demagogia è il vocabolo usato dai democratici, quando la democrazia li spaventa (Nicolás Gómez Dávila)

REVOLVER

Mese: Marzo 2016

Wilhelm Röpke, un liberale atipico

Il liberalismo non si è mai presentato come una dottrina unificata. Gli autori che si sono richiamati ne hanno fornito interpretazioni talvolta divergenti, se non contraddittorie. Sarebbe più corretto parlare di “liberalismi”. Solo nel Novecento, per limitarsi alle correnti principali, possiamo distinguere i liberali conservatori come Ortega, Croce, Einaudi e Aron; i liberali progressisti, o liberal, come Hobhouse, Rosselli, Rawls e Bobbio; i Libertarians, come Murray Rothbard e infine la scuola austriaca di economia (Mises, Hayek, Menger). Una pluralità di voci che si avverte soprattutto nei riguardi dell’agire politico ma tutte accomunate dalla stessa sinfonia. Il liberalismo è prima di tutto una dottrina economica che considera il modello del mercato autoregolatore il paradigma dei fatti sociali. Quello che chiamiamo liberalismo politico non è altro che una maniera di applicare alla vita politica dei principi dedotti dalla dottrina economica, la quale tende il più possibile a limitare la funzione del politico. Il rapporto col politico è delicato. I liberali conservatori sostengono la causa del saggio realismo politico, i più progressisti quella del costruttivismo iperpolitico, libertarians, vicini intellettualmente alla scuola austriaca, celebrano la scomparta dello stato o comunque una depoliticizzazione totale, sostituendo all’atto politico, l’azione del mercato. In sintesi, per i conservatori senza decisione politica non c’è mercato, per i liberal, la decisione politica deve sostituirsi al mercato, per i libertarians il rapporto è rovesciato e la decisione economica deve sostituire quella politica. Il pensiero dell’economista tedesco, Wilhem Roepke, nato a Schwarmstedt, il 10 ottobre 1899, rappresenta una sintesi particolare tra economia di mercato e conservatorismo politico ed etico. La sua teorizzazione di una “Dritter Weg” (terza via) per compensare l’eccesso di stato o l’opposto eccesso di mercato, è una soluzione di compromesso concreta ed efficace. Un pensiero che apprezza la decisione, ma non il decisionismo liberal, celebra l’individuo ma non degenera in un individualismo senza limiti.

Due passaggi di Roepke sull’economia di mercato e sulla concentrazione industriale e finanziaria, spiegano bene la sua filosofia economica.

“Per quanto sia essenziale, l’economia di mercato da sola non può bastare, occorre risolvere alcuni problemi che si risolvono al di fuori dell’ordine economico. L’economia di mercato deve trovare il suo posto, quale istituzione di inestimabile valore nella cornice più ampia di un ordine politico, sociale e morale. Questo ordine economico deve integrarsi negli altri ordini, più ampi e più alti da cui dipende il successo dell’economia di mercato”.
Più interessanti sono le osservazioni di Roepke sul problema della concentrazione industriale:

“L’opinione che la concentrazione sia inevitabile non è altro che un mito (…) La politica intenzionalmente, o ancora più spesso senza avvedersene, sposta i pesi a favore delle grandi imprese. È una lotta ad armi disuguali (…) Un programma liberale di decentramento consisterebbe in primo luogo nel rendere le armi pari (…) è giustificata la domanda su come potrebbe cambiare la situazione nel senso da noi desiderato, se, al contrario, i pesi venissero spostati a favore delle imprese medie e di giusta misura. Perché in fin dei conti, è più importante l’optimum umano e sociale di quello tecnico-economico dell’azienda.

In buona sostanza, mentre il liberalismo disordinato di Mises, Hayek e dei libertarians preferisce lo scambio economico, quello ordinato di Roepke fa dipendere il mercato, pur sovrano nel suo ordine, da altre istituzioni culturali, religiose morali e in primis dalla decisione politica. Egli non considera il mercato come un meccanismo perfetto, ma qualcosa da azionare e sorvegliare, inoltre, è diffidente verso gli automatismi e la metafora smithiana della “mano invisibile”, incarnazione profana della Provvidenza. Ecco spiegato lo scontro che contrappose Hayek e Mises da una parte e Ropke ed Eucken dall’altra negli anni sessanta. I primi difensori di un mercato completamente autonomo dalla politica, i secondi invece, più attenti agli elementi concreti in cui si compone la società. Roepke più volte utilizzava l’espressione, “uno Stato che sa tracciare”, a voler significare che a decidere in ultima istanza deve essere sempre la politica e non l’economia.

La strategia di Putin in Medio Oriente

 

La politica russa nei confronti del Medio Oriente, è stata condotta, per lungo tempo, non tanto per ciò che poteva produrre ma per ciò che poteva togliere all’Occidente, soprattutto agli Stati Uniti a partire dagli anni quaranta.

Il Medio Oriente che noi conosciamo è nella struttura geografica un prodotto “artificiale” occidentale, perché è il risultato di una serie di interventi diplomatici, economici e militari che vanno dall’accordo Sykes-Picot del 1916 all’invasione dell’Iraq nel 2003. Tutti progetti decisi, attuati e gestiti dalle potenze occidentali a partire dalla prima guerra mondiale, a seguito del crollo dell’Impero Ottomano. La Russia nei secoli XVII e XVIII, ha sempre lottato per avere una via d’accesso al Mediterraneo. Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti sono riusciti nella prima metà del novecento, a tenere lontana la Russia con una politica di contenimento. La breve premessa storica serve a dimostrare come, a nostro avviso, solo con la presidenza di Putin, la Russia abbia sviluppato una politica per il Medio Oriente più definita. Il motivo è presto detto: Putin è cresciuto e si è fatto strada come leader politico negli anni novanta, un decennio tremendo per il suo paese quando il Cremlino perdeva posizioni nel mondo e subiva umiliazioni. Diventato presidente nel 2000, dovette affrontare un rompicapo politico: come recuperare posizioni per una nazione all’epoca indebolita finanziariamente e accerchiata.

 

La Russia ha una strategia definita e in questi anni ha ricostruito una rete stabile di relazioni mediorientali, tale da costringere la Casa Bianca a fare qualche compromesso in un’area storicamente a predominio americano. Quello che vuole Putin è chiaro da molti anni, una prima risposta l’ha fornita ancora prima che gli fosse richiesta nel 1991, appena tornato dall’incarico nella Germania est per conto del Kgb, in una tesi di dottorato intitolata: “Il ruolo delle risorse naturali nella strategia di sviluppo economico della Russia”. Nel 1999, poco prima di diventare primo ministro e ancora in carica come direttore dei servizi segreti, aveva ricavato da quel lavoro, un lungo articolo, pubblicato nelle Note dell’Istituto di Mineralogia, in cui spiegava come l’attività degli imprenditori privati nel settore dell’energia doveva svolgersi, nel quadro strategico degli interessi dello Stato che si riservava il diritto di intervenire quando quell’interesse fosse minacciato.

Putin è passato in pochi anni dalla teoria alla pratica, muovendosi esattamente nella direzione indicata nei primi anni novanta. Il settore energetico è stato sviluppato e messo sotto stretto controllo dell’autorità pubblica, facendo dello stato il primo azionista di tutte le principali compagnie di estrazione, trasporto e commercializzazione di gas e petrolio. L’unica politica estera possibile per la Russia è quella di proteggere a ogni costo la propria influenza sul mercato internazionale dell’energia e il maggior grado possibile di controllo sulle vie di transito di gasdotti e oleodotti. Strategia peraltro perfettamente speculare a quella americana per questo destinata a collidere. Ora non si comprende perché se sono gli americani a difendere il proprio interesse va tutto bene, se lo fanno i russi, allora c’è da preoccuparsi. Fino a prova contraria, sono gli Stati Uniti a sganciare le bombe e a scatenare conflitti con una certa facilità per difendere le vie del petrolio e del gas. I russi nell’ultimo decennio hanno utilizzato altri strumenti di persuasione e hanno condotto in molti casi un gioco più pulito. Tutto è lecito nella difesa dell’interesse nazionale, ma almeno risparmiateci il “suprematismo moralistico”. Così, se dall’inizio degli anni Duemila la strategia degli Usa è basata sul mutamento del contesto politico dei paesi e degli assetti in contrasto con gli interessi americani, quella russa è soprattutto una strategia di consolidamento e conservazione.

Putin ha evitato il confronto su terreni più propizi agli americani, come lo scontro militare diretto, non ha ceduto alle provocazioni e per primo ha stretto un rapporto diplomatico vitale con l’Iran, soprattutto per le questioni legate all’energia. Le rispettive riserve di gas (33,6 trilioni per l’Iran e 32,9 per la Russia), ovvero le più vaste del mondo, se ben gestite in comune hanno potere di condizionamento dei mercati senza pari. La crisi non risolta in Ucraina, le sanzioni e altri contrasti spingono il Cremlino a non disperdere questo capitale.

Putin è stato abile nel capire che il rapporto con l’Iran offriva un’occasione per ingessare il dinamismo americano. Inoltre quest’alleanza è servita a trovare un altro elemento di dialogo con la Cina. Il legame con gli iraniani ha consentito a Mosca di farsi protettrice della Siria, altra nazione finita nella stupida lista di proscrizione degli “stati canaglia”.

La Siria nell’estate del 2000, l’anno in cui russi e iraniani riprendevano contatti, affrontava una delicata transizione con il passaggio di poteri da Hafiz al-Asad a suo figlio Bashar, entrambi esponenti del mondo islamico alauita, in grado di plasmare un paese laico, dove convivono diverse confessioni religiose. Caso raro, in un Medio Oriente, dove un subdolo fanatismo assume tratti e forme differenti a Riad, a Doha o a Tel Aviv.

Mosca difende la Siria senza mezzi termini e il suo governo legittimo, senza optare per pericolosi cambi di potere. Perché? É evidente come non è stata la convenienza economica diretta a spingere verso la difesa a oltranza ed evitare, con una complessa partita diplomatica, il bombardamento della Siria da parte di americani e inglesi, nell’estate 2013.

L’interscambio commerciale tra Siria e Russia è di appena 2 miliardi di dollari e non basterebbe a spiegare così tanto impegno. Altrettanto vale per le forniture militari verso Damasco che valgono meno del 5% del totale e per di più sono in perdita, perché i siriani hanno un debito di 3,6 miliardi di dollari e Mosca non si aspetta che saldino le fatture, in momento così difficile con un paese a pezzi a causa della guerra. Non è un motivo sufficiente neanche il famoso sbocco sul Mediterraneo rappresentato da cinque moli nel porto siriano di Tartous che neanche costituiscono una base, ma solo un punto d’appoggio tecnico per evitare alle navi russe di dover ogni volta riattraversare i Dardanelli per fare il pieno sul Mar Nero.

La Russia protegge la Siria per agganciarsi a quella che gli analisti chiamano la Mezzaluna fertile e irrobustire l’alleanza con il blocco sciita, Siria, Iran e Hezbollah soprattutto, unico elemento politico e geografico che impedisce al mondo sunnita, da sempre legato a Washington, di ottenere il monopolio del Medio Oriente, delle sue ricchezze energetiche e delle vie di terra e di mare per distribuirle. Quando Putin e il suo ministro degli Esteri Lavrov, peraltro in piena sintonia con la Cina, difendono la stabilità dei regimi, hanno in mente quel che è accaduto in passato, nell’Iraq del 2003 con il rovesciamento di Saddam Hussein, nella Libia del 2011 con la caduta di Gheddafi e la brutale repressione in Bahrein da parte dell’esercito saudita di cui nessuno parla.

Situazioni provocate dagli Stati Uniti con la complicità occasionale di qualche altro alleato. La tattica offensiva americana per scombinare le carte in Medio Oriente e ottenere vantaggi, non è mai cambiata e per questo, la Russia ha scelto la strada opposta: ricomporre, stabilizzare, placare e bloccare.

Putin non avverte notevoli affinità con gli ayatollah iraniani o con il baath siriano di Assad, semplicemente il suo è un realismo efficace. Sa che la Russia non ha la potenza militare degli Stati Uniti, tantomeno economica e politica. Si è solo reso conto che in un mondo diventato improvvisamente multipolare e affollato di nazioni che sono o ambiscono a diventare protagonisti regionali, è possibile stringere alleanze nuove per accrescere la propria forza internazionale.

 

 

 

Alcune curiosità su Fernando Pessoa

Lo stile di vita di Fernando Pessoa dimostra come non ebbe mai il desiderio di arricchirsi e non fosse permeato da quella vanità di chi vuole fare della scrittura lo strumento per acquisire potere culturale e mediatico. Il famoso baule dove sono tutte le sue carte, contiene oltre 27mila documenti e di questi, 9-10mila, ancora oggi sono inediti. Inoltre, la maggior parte di quello che leggiamo dello scrittore è stato pubblicato dopo la morte nel 1935. Aveva una biblioteca personale di 1300 volumi in lingua portoghese e inglese, pieni di sottolineature, note volanti, epigrammi, marginalia.

Pessoa lavorò per tutta la vita da impiegato traduttore per una ditta commerciale. Non dispregiò mai quel mestiere, non cadde nell’errore, indotto dalla presente mentalità economica, che istruisce a disprezzare la propria posizione sociale, messa ogni volta in contraddizione con il sogno consumistico pubblicitario.

“Molte volte ho assistito a scene come questa: il signor Pessoa, che stava lavorando in linea di massima alla macchina da scrivere, poiché non realizzava la minuta di ciò che dattilografava, si alzava, prendeva il cappello, si aggiustava gli occhiali e, con aria solenne, diceva: “Vado a casa di Abel”. È il racconto perplesso del figlio del proprietario della ditta Moitinho de Almeida, da dove Pessoa, garbato, si dirigeva nel negozio di bevande di Abel Pereira de Fonseca, a bere vino e sorseggiare aguardiente.

“E un giorno, furono così tante le visite a casa di Abel che mi permisi di dire al signor Pessoa: “Lei beve come una spugna”. Al che rispose immediatamente con la sua ironia: “Come una spugna, come un negozio di spugne, con annesso magazzino”. Persino mio padre che non lo prendeva sul serio come poeta, lo apprezzava e lo stimava molto e gli permetteva di uscire ogni volta che volesse, perché, diceva, tornava sempre più in forma per lavorare.” Molti di quelli che lo conobbero ricordano come non fu mai visto sbronzo, neppure dai suoi amici più stretti, restava imperturbabile dopo ogni bevuta, segno evidente del suo essere composto, del vivere senza dover stupire gli altri. Inappuntabile come gli abiti scuri e le camice bianche della sartoria Lourenço e Santos che indossava.

Talleyrand e l’affare di Benevento: come guadagnare un mucchio di soldi con la furbizia

Charles Maurice de Talleyrand Perigord (1754-1838) è una figura controversa che esercita fascino e repulsione, su cui si continua a discutere senza formulare un giudizio definitivo. Uno dei suoi biografi, Jean Orieux, lo definisce “una sfinge incompresa”.
Enigmatico, mellifluo, astuto, esperto dell’intrigo politico.“Poiché aveva ricevuto molto disprezzo, se n’era impregnato e l’aveva messo nei due angoli pendenti della sua bocca”. Questa affermazione è di Francois René de Chateaubriand, uno che odiava Talleyrand e in Memorie dell’Oltretomba lo descrive senza celare questo disprezzo, peraltro ricambiato.
Il 5 giugno 1806, Napoleone con un decreto nomina Talleyrand principe sovrano del Ducato di Benevento, in precedenza dominio della Santa Sede. Otto anni dopo, il 20 aprile 1814, l’Imperatore è costretto ad abdicare e viene spedito in esilio all’isola d’Elba, sfaldando tutto il suo sistema di potere. Il trattato di pace di Parigi del 30 maggio seguente, tra la Francia e le potenze alleate vittoriose, mise fine legalmente ai principati e ai ducati, fuori dai confini dell’ex impero francese. La città di Benevento dal mese di gennaio era occupata dalle truppe francesi di Gioacchino Murat, cognato di Napoleone e ancora sul trono di Napoli grazie all’alleanza con l’Austria siglata con il cancelliere Metternich.


Benevento non apparteneva legalmente a Talleyrand eppure, in quei mesi convulsi, con una furbizia sbalorditiva, attraverso una serie di manovre politiche, si farà indennizzare per la perdita dell’ex ducato. A informarci è lo stesso Chateaubriand: “Il signor Talleyrand riteneva di aver diritto a una sovvenzione in cambio del suo ducato di Benevento: vendeva la livrea lasciando il suo padrone. Nel momento in cui la Francia perdeva tanto, non avrebbe potuto perdere qualcosa anche il signor Talleyrand?” E aggiunge sentenzioso: “Quando il sig. Talleyrand non cospira, fa dei traffici”. Chateaubriand aveva ragione.
L’affare di Benevento dimostra l’abilità di Talleyrand a uscire indenne dalle situazioni più ingarbugliate, ottenendo sempre il massimo vantaggio. Il destino dell’ex ducato pontificio si decise in un periodo compreso tra settembre 1814 e il giugno 1815, a conclusione del congresso di Vienna. Sono molti a reclamare il possesso della città che tra patrimonio demaniale, dazi doganali e rendite agricole, garantisce una cospicua rendita finanziaria. Talleyrand è da sempre convinto che le migliori trattative sono quelle che si protraggono a lungo, lo ripete spesso, “vedete, io non mi sono mai affrettato e tuttavia sono sempre arrivato in tempo”. Come consuetudine decide di giocare la partita su più tavoli. La prima mossa la fa Murat, il cognato di Napoleone spera di rafforzare la propria posizione ingraziandosi Talleyrand con un’offerta per riscattare Benevento che le truppe francesi occupano da qualche mese. Murat è sotto pressione: Napoleone è fuori gioco, dalla Sicilia il vecchio Ferdinando reclama il trono di Napoli e l’alleanza con l’Austria non è poi tanto solida. Talleyrand è convinto della precarietà di Murat, rifiuta la somma offertagli di cui non conosciamo l’entità e prende tempo anche per favorire la Francia e il suo re Luigi XVIII. C’è tutto l’interesse a sloggiare Murat da Napoli e favorire il ritorno dei Borbone senza irritare troppo gli austriaci. Ancora una volta, affari diplomatici e privati si mescolano abilmente, il tempo gioca a suo favore.
Le manovre intorno al Ducato di Benevento riprendono nel mese di marzo del 1815. Il temporaneo ritorno sulla scena di Napoleone per l’ultima fase della sua avventura politica, non sconvolgono più di tanto i piani di Talleyrand. Anzi, la fortuna lo assiste, perché Murat travolto dalla sconfitta di Napoleone perde tutto: la vita e il regno. Ora il principe può giocarsi la città di Benevento sia con il delegato pontificio, il cardinale Consalvi, sia con i rappresentanti di Re Ferdinando.


Consalvi che Talleyrand in un primo momento aveva trattato con molto riguardo, adesso si sente maltrattato. Il motivo è semplice, il francese sostenuto da Metternich non vuole che lo Stato pontificio si ingrandisca troppo e il Papa, oltre a Benevento e Pontecorvo, vorrebbe riprendersi tutta la legazione della Romagna, chiedendo a Talleyrand di intercedere in tal senso a Vienna. Il netto rifiuto del francese, al limite della scortesia e, le successive mosse politiche, terrorizzano Consalvi tanto che decide di cedere su tutto, persino su Benevento. All’inizio di maggio egli è convinto che il Ducato sia il prezzo che i diplomatici del Congresso di Vienna sono disposti a pagare per il ritorno di Ferdinando sul trono di Napoli. Più preoccupato è il principe Ruffo, diplomatico di Ferdinando, che ha promesso Benevento a Talleyrand, ma non è sicuro di riuscirci. A quel punto il francese tira fuori dal mazzo un’altra carta, quella del matrimonio. Convince il re di Francia Luigi XVIII a far sposare suo nipote, il duca Charles Ferdinand de Berry con la nipote di Ferdinando, Maria Carolina. Il vantaggio è reciproco perché entrambi hanno una discendenza diretta con il Re Sole, Luigi XIV, e questo rafforzerebbe la presa dei Borbone sull’asse Napoli-Parigi.
Il più allarmato di tutti è il povero Consalvi che di fatto si ritrova senza niente e non ha più possibilità di spuntare qualcosa. L’ultima speranza, l’esprime in una lettera al cardinale Pacca il 9 maggio 1815, dove auspica che il re di Napoli restituisca Benevento al Papato “per la sua massima gloria”, in cambio di un indennizzo a Talleyrand. Le trattative vanno avanti per settimane, fino a quando si trova una soluzione. L’articolo 103 dell’atto finale del congresso di Vienna, il 4 giugno 1815, dispone il ritorno di Benevento e Pontecorvo alla Santa Sede. Ovviamente i dettagli più sostanziosi, sono contenuti nelle clausole segrete dell’accordo. In cambio della cessione di Benevento, Talleyrand chiedeva sei milioni di franchi, somma ridotta poi a due. Il conto salato dovevano accollarselo il re Ferdinando per 1,5 milioni e Pio VII per i restanti 500mila. Si trattava del valore venale del Ducato nel 1807. Quel che più scandaloso, non è tanto il pagamento di un indennizzo giuridicamente non dovuto, ma il fatto che Talleyrand riceverà fino alla sua morte, nel 1838, la rendita del Ducato. Il trucco per incassare denaro da un titolo che non possedeva più, lo escogita insieme al cardinale Ruffo, che poi ricompenserà nel suo testamento. Re Ferdinando conferiva a Talleyrand il titolo di duca di Dino, un isolotto nel mar tirreno vicino alla costa calabrese. La rendita di Benevento, 13600 ducati, pari a 56mila franchi, era accredita nelle casse del re di Napoli e poi girata come rendita a Talleyrand in virtù del suo nuovo titolo di duca.
Facciamo due conti: fino al 1838 Benevento ha fatto incassare al francese 2 milioni di indennizzo, più 1,230 di reddito, più 120mila di aggio. In totale fanno 3350 milioni di franchi, più di 13 milioni di euro attuali. Benevento si era rivelato uno dei migliori affari di Talleyrand il più abile dei dissimulatori, più spregiudicato di un finanziere di Wall Street. Non a caso, qualche anno prima, dopo un litigio, Napoleone lo aveva insultato: “siete una merda in calze da seta!”.

La passione per il complotto

Le spiegazioni di comodo, le versioni ufficiali, molto spesso non convincono. Sull’estremo limite della realtà, si annidano le teorie del complotto. Dobbiamo ammetterlo, ci appassionano perché diffondono il dubbio. Il problema è districarsi tra la critica dello studioso serio e l’ossessione paranoica di chi interpreta ogni avvenimento come il risultato di una cospirazione. Purtroppo, sono i secondi a fare più rumore, specialmente sul web e non è facile districarsi, distinguere il buono dal marcio, il ricercatore serio dall’ingenuo. Chi vuole stroncare il pensiero critico utilizza l’aggettivo complottista, rifiutando ogni ipotesi alternativa anche se ben documentata. Il caso più clamoroso è stato quello dell’attentato alle Torri Gemelle di New York, l’undici settembre 2001, dove rispetto alla versione ufficiale del governo, precaria e confutabile, esistono una serie di dubbi.
Le teorie del complotto spesso sono imprecise come la realtà che tentano di decodificare, ma almeno spingono a non adagiarsi troppo. Nel XIX secolo, pochi anni dopo la rivoluzione francese, dove quel che sembrava impensabile si era avverato, è stata la letteratura popolare a esprimere l’inquietudine su chi realmente agisce dietro gli eventi socio-politici.

“Vi sono due storie: la storia ufficiale, menzognera, che ci viene insegnata e la storia segreta, dove si trovano le vere cause degli avvenimenti”. Ne era convinto Honorè de Balzac, autore di questa massima contenuta nella trilogia Illusioni perdute (1837-1843). Del resto, egli aveva fondato un’associazione, Le Cheval rouge, destinata a preparare nell’ombra l’ascesa dei suoi amici e di se stesso a incarichi importanti nel mondo letterario. Se siano riusciti o meno nell’intento, è difficile stabilirlo. Balzac affronta in molti romanzi il tema del complotto, come in particolare in Un tenebroso affare o Storia dei Tredici, ma anche in quelli dove descrive con precisione il funzionamento dell’ambiente sociale. È una fonte preziosa, più di certi libri di storia. Illusioni perdute racconta il fallimento di Lucien, un giovane ambizioso con aspirazioni letterarie e disposto a tutto pur di ottenere la celebrità. A salvarlo in extremis sarà un personaggio misterioso, un abate che gli promette di realizzare tutti i desideri. Carlo Herrera, meglio noto come Vautrin, è un ex galeotto, ricco e con tanti segreti e agganci da riuscire riuscire a manipolare gli ingranaggi del potere politico, finanziario e della stampa. Finirà per diventare capo dei servizi di polizia.

Balzac si era ispirato a un personaggio realmente esistito, François Vidocq (1775-1857), uomo dalla vita romanzesca, ex truffatore, poi diventato capo della Sureté Nationale e successivamente, investigatore privato di successo. Nel XIX secolo si fa strada il sospetto che dietro certe apparenze, in ambito politico ed economico, ci siano quasi sempre delle manovre occulte. L’utilizzo strumentale della volontà popolare che viene concessa e revocata a seconda degli interessi, fa porre la domanda su chi siano i reali detentori del potere. A dare forma agli eventi è solo chi sta dietro le quinte? Il retroscena spiega meglio ciò che vediamo sulla scena? Un altro amante dei complotti è stato Alexandre Dumas, con il ciclo Memorie di un medico, ma le stesse tendenze saranno manifestate da George Sand (La Contessa di Rudolstadt 1843) e altri autore come Faul Féval e Pierre Alexis Ponson du Terrail. Poco importa la tendenza politica degli autori, monarchici o repubblicani, tutti considerano la storia contemporanea come una intrigo gestito da attori clandestini. Non dobbiamo liquidarle come semplici ossessioni che prendono forma letteraria, in quel periodo, un pensatore come Saint-Simon auspicava l’avvento di una società controllata da un’élite industriale, tecnocratica e religiosa. Un’idea che purtroppo, si è diffusa e trova una forma nelle varie organizzazioni transnazionali. Cospirazioni e associazioni segrete sono sempre esistite, per restare solo in un ristretto ambito geografico, la Carboneria in Italia e i cugini francesi della Charbonnerie, altro non erano che gruppi riservati che agivano per ribaltare un equilibrio socio-politico. I custodi mascherati del potere effettivo, rimandano a una nuova aristocrazia, poco spirituale e molto venale. Gli Stati Uniti sono un esempio di repubblica con forti tratti elitari. In Gran Bretagna, è stata Agatha Christie a narrare il complotto nel romanzo popolare. Poirot e i Quattro, dove evoca la coalizione di quattro super-intelligenze il cui obiettivo è arrivare al dominio del mondo. “La rivolta universale, i disordini operai (…), ci sono persone che dicono che dietro tutto questo c’è una forza che non vuole nient’altro che la disintegrazione della civiltà.” A sconfiggere i quattro personaggi, sarà l’intelligenza sopraffine di Hercule Poirot.

Spesso adattati per il cinema, diversi romanzi di Graham Greene (Una pistola in vendita, 1936) o quello di Eric Ambler (La frontiera proibita, 1936) trattano di complotti organizzati da un ordine corrotto, così come la falsa democrazia descritta ne Il nuovo mondo di Aldous Huxley rivela un aspetto più sottile del dominio camuffato dietro apparenti forme di libertà. Tutta la letteratura di spionaggio, sembra segnare la fine dell’innocenza. John La Carrè, Ian Fleming ex agente dei servizi con il suo James Bond o Malko Linge della collana SAS, creato da Gerard De Villiers, spiegano meglio come certe verità non si possano raccontare alla massa, perché tutti gli attori politici, stati e organizzazioni, ricorrono alle stesse macchinazioni e certi ideali sbiadiscono. La fantascienza, si occupa dello stesso argomento con uno stile forse esagerato, ma non per questo meno distante dal reale. Autori come Philip Dick, non vogliono semplicemente rivelare l’espropriazione del “politico” subita dai cittadini, ma vogliono seminare il dubbio sulla possibilità stessa di credere che esista una verità sicura. La contrapposizione tra realtà effettiva e realtà apparente salta in aria, lasciando macerie e confusione. I richiami a Dick, sono presenti nel cinema. Film come Minority Report (2002), Blade Runner (1982), Matrix (1999) e Paycheck (2003), affrontano il tema del complotto e di ciò che è vero, con trame assai differenti. Nella spasmodica frenesia di decifrare il reale, di capire meglio cosa si nasconde dietro quello che un’espressione russa chiama il torneo delle ombre, c’è forse il desiderio di abbozzare una narrazione in grado di restituire un senso agli eventi di un ciclo storico che sembra esserne privo.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén