Internet of Things, Smart Home, 5g e altri acronimi inglesi spiegano come milioni di dispositivi raccolgono dati su di noi e acquisiscono in questo modo nuove conoscenze e potere. Per conto di chi? È domanda importante, in un’epoca l’integrazione tra corpo fisico e identità digitale che sta rendendo impossibile una vita “sconnessa”. Dicono di stare tranquilli perché questa mole di dati è protetta e, cosa più interessante, tutte le interazioni sui social network, hanno permesso di raccogliere informazioni con il consenso delle persone, smaniose di mostrarsi, di raccontare le loro vite grandi o insignificanti che siano. Aggiungete le questioni riguardanti il diritto e le cosiddette “privacy policy” lunghe, contorte e complicate che nessuno legge e avrete un quadro abbozzato del nuovo capitalismo della sorveglianza. Esso si appropria dell’esperienza umana usandola come materia da trasformare in dati sui comportamenti. Alcuni di questi dati vengono usati per migliorare prodotti e servizi, ma il resto diviene surplus comportamentale privato, sottoposto a un processo di lavorazione avanzato noto come “intelligenza artificiale” per poi trasformarli in prodotti predittivi in grado di anticipare cosa faremo, in un determinato periodo.

Shoshana Zuboff nel suo saggio corposo e ricco di dettagli, intitolato proprio “Il capitalismo della sorveglianza” (ed. Luiss), spiega anche che esiste un mercato dove si scambiano queste previsioni. Grazie a questo commercio, le multinazionali dei Big Data, i nuovi padroni di quest’epoca, si sono arricchiti smaccatamente, passando informazioni ad aziende, strutture di intelligence e organizzazioni.

La novità è stata dettata dalla competizione: i processi automatizzati riescono in parte a conoscere i nostri comportamenti, ma sono in grado di formarli, di indurre bisogni inesistenti. Quando strisciate la vostra carta fedeltà al supermercato o fate un pagamento elettronico, la traccia degli acquisti si accumula ad un ammasso di dati indicativi su gusti e scelte da consumatore. Nel capitalismo della sorveglianza, tutto sembra gratuito o finanziato dalla pubblicità, ma la vera merce sei tu. Prima la focalizzazione maggiore era sulla conoscenza, ora si concentra sul potere di indirizzare comportamenti singoli e di massa. Nel capitalismo industriale i mezzi di produzione si moltiplicavano dentro una dimensione fisica, in quello della sorveglianza i mezzi di produzione accrescono con la modifica dei comportamenti.

Google ha in un certo senso inventato e perfezionato questa nuova forma di capitalismo e si muove in senso opposto agli utopisti del digitale che vogliono proteggere i dati e sognano un eden di condivisione e contatti mediati dalla tecnica. Stiamo pagando per farci dominare, lentamente, inesorabilmente grazie anche ad un intontimento psichico suadente. Il capitalismo della sorveglianza non va identificato con una tecnologia ma con una logica che permea tutto il sistema della Tecnica. Difficile da comprendere utilizzando concetti legati a un mondo solido e ciò gli ha consentito di acquisire una forma e una natura sfuggevole. Restando sull’esempio di Google, esso sta al capitalismo della sorveglianza come la Ford stava a quello manageriale basato sulla produzione di massa. I passaggi sono semplici: estrazione e analisi dei dati, nuove forme contrattuali, personalizzazione e standardizzazione, esperimenti continui. Quando cercate qualcosa sul vostro motore di ricerca preferito, dopo un po’ di tempo siete inondati da pubblicità di prodotti simili o afferenti e lì toccate con mano l’impossibilità di sottrarsi al legame con l’algoritmo. Del resto, non potete nemmeno staccare la batteria dai vostri smartphone e tablet. Il patto tra Faust e Mefistofele in versione contemporanea: puoi avere quello che vuoi, scaricare le tue endorfine consumistiche a patto che mi riveli chi sei e cosa farai.