demagogia è il vocabolo usato dai democratici, quando la democrazia li spaventa (Nicolás Gómez Dávila)

REVOLVER

Mese: Marzo 2020

Alle origini del movimento luddista

Nelle cinque contee che compongono il cuore della Britannia – Yorkshire, Lancashire, Cheshire, Derbyshire e Nottinghamshire – c’è un territorio triangolare ancora “marchiato” dalla leggenda di Robin Hood. Nel tardo XIII, nella città di Wakefield, nacque un tal Robert Hode (Robin Hood), figlio di un boscaiolo che si unì al conte Thomas di Lancaster per combattere contro le politiche di disboscamento promosse dalla monarchia inglese per adibire quelle terre al pascolo. La leggenda di Robin Hood e dei suoi Merry Men in lotta contro i soprusi del Re, al riparo nella foresta di Sherwood, riapparve molti secoli dopo, nel primo decennio del XIX secolo, nelle lotte del movimento “luddista” contro le storture della prima industrializzazione. In quel periodo, la vita di migliaia di tessitori, cardatori, conciatori di lana e artigiani del cotone, venne sconvolta dall’arrivo delle nuove macchine industriali. Dopo aver lavorato per secoli fuori dalle proprie case o nelle piccole botteghe di villaggio, in piena libertà, con macchinari manovrati da un solo uomo, improvvisamente dovettero assistere all’introduzione di nuove e complesse attrezzature, sistemate in grandi edifici che sorgevano nelle loro valli.

Decisero di sollevarsi contro tutto ciò, non per un sentimento passatista ma contro quella tecnologia “nociva” che scardinava un ordinamento sociale fondato su arte, comunità, tradizione e tempo libero. L’industria stava deformando città e campagna ed essi avvertirono subito la sensazione che tutto stesse sfuggendo dal loro controllo.

La prima azione avvenne il 4 novembre 1811, nel villaggio di Bulwell a poche miglia da Nottingham. Quella notte un gruppo di individui con il volto tinto di nero, armati di asce e martelli, assaltarono un’industria tessile, spaccando i macchinari per poi dileguarsi nell’oscurità. Da quel giorno e per quindici mesi, minacciarono il nuovo ordine economico, con attacchi feroci, organizzati ed efficaci. In una delle prime lettere di rivendicazione scrissero: “dal covo di Robin Hood, Foresta di Sherwood”, ma poi apparvero lettere e manifesti firmati “Ufficio di Ned Ludd, oppure “Generale Ludd”.

Ma chi era costui? Si è propensi a credere che si tratti di uno pseudonimo utilizzato dai gruppi che tra il 1811 e il 1812, rivendicarono gli attacchi alle fabbriche. Ecco perché li conosciamo con il nome di “luddisti”. La parola potrebbe ricordare l’espressione della Cornovaglia, sent all of a lud, che significa “rimanere stordito”, rovinato, oppure la parola dell’antico inglese loud, “rumoroso”.

I luddisti non furono degli ottusi demolitori. La macchina industriale e la tecnologia in senso lato, non furono mai il vero obiettivo, ma solo ciò che rappresentavano: la prova tangibile per gli uomini, di essere soggiogati da forze incontrollate che spezzavano i ritmi di vita, piegandoli alle esigenze della produzione, allontanandoli dalla vita comunitaria e disperdendo un patrimonio di saperi che si trasmetteva attraverso l’apprendistato. Gli uomini erano subordinati della macchina e non più i padroni dello strumento e la fabbrica era il luogo dove si “rompevano” gli antichi legami comunitari e pertanto, il simbolo fisico di quella “rottura” andava frantumato.

Le azioni luddiste nella fase più recrudescente e organizzata, tra la fine del 1811 e l’inizio del 1813, assunsero i tratti dell’insurrezione tanto che il governo britannico dovette reagire con estrema violenza. Il territorio fu presidiato dall’esercito e si arrivò persino ad applicare la pena di morte per chi danneggiava le fabbriche e questo consentì lentamente il ritorno alla calma. I motivi della rapida ascesa e dell’altrettanto veloce declino del movimento luddista, sono difficili da spiegare solo con la repressione militare. In un certo senso, il luddismo in quei quindici mesi di fuoco, aveva chiarito la propria posizione, lasciando un segno indelebile. Si trattò di un urlo di protesta e disprezzo, capace di attacchi spettacolari ma incapace di organizzarsi politicamente. Resta però un interrogativo. Mentre la saga di Robin Hood viene celebrata al cinema e nella letteratura, sul luddismo c’è una forte reticenza. Al massimo lo si classifica come una reazione nostalgica, cosa che peraltro non fu. In un’epoca dove la tecnica ha assunto un dominio a tratti incontrollato, forse, il loro messaggio di libertà è ancora valido.

Cronache dallo stato d’eccezione. La politica sospesa?

È molto difficile in questo clima politico che si è venuto a creare per via della paura generalizzata dall’emergenza sanitaria, ragionare secondo principi ordinari di diritto.
Il profluvio di atti amministrativi, decreti, ordinanze e divieti fanno sorgere molti dubbi, ma in queste condizioni non ha molto senso ragionare sul piano giuridico formale quando si è in uno stato d’eccezione. Piuttosto è opportuno riflettere su quello che accadrà a partire dalla sospensione temporanea delle libertà. Nel secolo scorso, il giurista Carl Schmitt spiegò come in situazioni di estrema necessità, solo colui che è in grado di sostenere la sospensione dell’ordine giuridico costituito può esercitare la sovranità.

Per la prima volta nella storia a dichiarare lo stato di eccezione è stato un ente scientifico sovranazionale, l’Organizzazione mondiale della sanità, quando ha dichiarato la pericolosità a livello mondiale della pandemia del virus covid19, nel periodo in cui l’infezione era ancora localizzata in Cina e altri territori asiatici.

Questa sospensione dell’ordine costituito trasferisce la sovranità alla scienza. Infatti, le televisioni sono piene di medici ai quali è stata attribuita una capacità di parlare in nome della scienza, laddove sappiamo che di questa pandemia la stessa comunità scientifica sa poco e al suo interno ci sono pareri discordanti persino sull’efficacia delle misure di contenimento. Quando si sospende la politica in nome della scienza, perché siamo in uno stato d’eccezione che mette al centro la verità scientifica, gli argomenti promossi da altri soggetti vengono limitati o presi in considerazione con un tono altezzoso. Poco importa se tra di loro ci sono anche i decisori politici. Quando la scienza sostituisce la politica, la risposta è solo tecnologica ed è pericoloso presentarla come un dogma indiscutibile.

La situazione d’emergenza prepara una trasformazione più vasta. Nel flusso straripante della comunicazione è già cominciata la celebrazione delle virtù salvifiche delle soluzioni tecniche come lo smart working e altre forme di distanziamento. Iniziamo a sperimentare nuovi tipi di separazione sociale, “distanti e connessi” ed è in corso un gigantesco trasferimento della vita produttiva dal mondo delle relazioni fisiche, a quelle mediate dalla tecnologia.

Stupidario contemporaneo: il genere come costruzione culturale

Negli anni Settanta alcuni studi antropologici hanno introdotto la tesi secondo la quale le identità maschili e femminili si sono costruite nel corso della storia attraverso una serie di pratiche convenzionali. Questo è in minima parte vero, ma la versione più estrema, nega il dato sessuale affermando che l’identità è una scelta slegata dal dato biologico. Si nasce maschio o femmina, ma poi si può preferire di essere l’uno o l’altro, o semplicemente qualcos’altro, secondo lo stato d’animo del soggetto. Addirittura, qualcuno si è spinto a parlare di cinquantasei opzioni di genere! Cosa affermano quegli studi conosciuti con l’espressione “teorie del gender” sull’identità sessuale? C’è una tendenza crescente, anche nei documenti ufficiali a eliminare il riferimento al sesso maschile e femminile, in favore della cosiddetta identità di genere, riferita alla percezione di chi si sente svincolato rispetto a ciò che la natura gli ha dato. Ovviamente, se si nega il genere come dato biologico, le possibilità sono innumerevoli: si può essere agender, bi-gender, pan gender, gender fluid. In questa confusione, se ci pensate, i risultati sono buffi.

Semplicemente Drieu La Rochelle

Pronunci il nome e sai di toccare un nervo scoperto. Pierre Drieu la Rochelle; suona così bene, peccato che una superficialità diffusa lo abbia liquidato con un epitaffio: il fascista morto suicida.  
Ai paranoici di chi è sempre in cerca di malpensanti da fustigare e di eroi liberal da santificare, si consiglia di sbirciare il catalogo di Gallimard. Ci sono le opere complete nella Bibliothèque de la Pléiade, mai comparse nella versione italiana Einaudi-Gallimard, e poi romanzi, racconti, poesie, saggi. Insomma, neanche una virgola della produzione dell’indocile normanno è stata trascurata. Nel 1963 il regista Louis Malle lo consegna all’olimpo degli immortali girando il magistrale Le feu follet, tratto dal capolavoro di Drieu, in Italia disponibile con il titolo Fuoco Fatuo.

Tuttavia è opportuno evitare di trasformare questo autore in oggetto per tifoserie letterarie. Pierre Drieu la Rochelle, nato nel 1893 a Parigi in una famiglia piccolo borghese e nazionalista di antica fede napoleonica, è uno dei figli migliori della generazione perduta. È vissuto tra le due guerre: è stato ferito nella prima e si è tolto la vita sul finire della seconda, per l’esattezza il 15 marzo 1945, dopo aver ingerito una dose letale di Fenobarbital.
Tutto ciò che lo riguarda, come letterato e come uomo, è accaduto durante quella pace “fatua” andata in scena a Parigi tra le due guerre. Amico di Louis Aragon e André Malraux, dei dadaisti e dei surrealisti, dandy delle serate alla moda, marito fallimentare, amante di donne belle e ricche, Drieu in fondo è passato nel secolo breve senza legarsi ad alcuno, fedele alla sua spietata coerenza. 

Coerenza nello stile, innanzitutto. Nei suoi romanzi – tra i più importanti si ricordino Gilles, I Cani di pagliaLe memorie di Dirk Raspe e il già menzionato capolavoro, Fuoco fatuo – non si sa bene se per indole o per scelta, egli non sperimenta. Niente a che vedere con un altro irrequieto, Céline: il francese è per lui una bandiera di continuità con la storia e con il passato della patria adorata, servita stando dalla parte sbagliata perché in fondo quella giusta non c’è. Un periodare breve e schietto, punteggiatura immacolata, idioma pulito, intelligibile.

Non avrebbe potuto essere altrimenti. Sodale delle avanguardie nelle scorribande notturne questo biondo alto, elegante e attraente, aveva scelto di vivere e di morire per il suo paese e per l’Europa intera. Credeva che soltanto il fascismo avrebbe potuto arginare la mentalità americana in cui, veggente involontario, vedeva profilarsi l’imperialismo e la fine della civiltà del vecchio continente. Quindi, dove rifugiarsi? In un meditato nichilismo, in un anarchismo individualista che lo pone all’avanguardia – lui, che era conservatore – nella letteratura e nel pensiero a livello internazionale.
Spietatamente moderno, con La Rochelle si realizza l’identità tra arte e vita.

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