demagogia è il vocabolo usato dai democratici, quando la democrazia li spaventa (Nicolás Gómez Dávila)

REVOLVER

Mese: Febbraio 2014

Saluti russi dal Polo Nord

Si chiama Arzamas 17. E’ la nuova base dell’esercito russo costruita nell’Artico. Proprio lì, lungo una striscia di piattaforme che segnano il confine prima del Polo Nord, ci saranno i soldati a pattugliare con temperatura che raggiungono i meno quaranta gradi. Somiglieranno molto ai soldati della Fortezza Bastiani del romanzo di Dino Buzzati, “Il Deserto dei Tartari”.
Putin ha le idee molto chiare e già a dicembre quando ha riunito lo stato maggiore dell’Esercito ha spiegato i suoi piani per l’Artico. Il controllo di una parte di questo vasto continente di ghiaccio dove nel passato si sono avventurati grandi esploratori, come Amundsen e Nansen, Cook e Peary, vuol dire prestigio, petrolio e nuove rotte mercantili. Quindi ha ordinato di formare unità speciali per presidiare queste zone. E’ una “guerra fredda” in tutti i sensi, quella che vede coinvolte Russia, Stati Uniti, Canada e paesi del nordeuropa.
Non ci sono ancora i dettagli, ma il Cremlino ha ordinato al Ministero della Difesa di rimettere in sesto tre basi sovietiche abbandonate negli anni Novanta, quando debiti e caos politico avevano costretto la Russia ad abbandonare i sogni di gloria. Tre basi per tenere sotto controllo ogni angolo dell’Artico.

Nei vertici con i militari, Putin ha eccitato l’orgoglio della divisa. Gli americani si muovono più rapidamente e mandano i loro sottomarini nella acque adiacenti, quindi una potenza che vuole tornare ad essere tale, non può ignorare queste circostanze. Naturalmente non è solo questione di patriottismo, l’Artico è importante perché custodisce, a migliaia di metri di profondità, una grande quantità di risorse energetiche e, inoltre, alcuni passaggi diventeranno strategici per le rotte commerciali tra l’Europa e l’Asia. Basta pensare all’enorme quantità di petrolio e gas ancora non estratti per capire come il futuro possa dipendere da questa regione dal fascino ancestrale. Secondo gli americani lì ci sono il 13 per cento delle riserve di greggio e il 30 per cento del gas naturale, ma per adesso è ancora una distesa di ghiaccio senza legge impenetrabile per alcuni mesi dell’anno. Un trattato dell’Onu stabilisce che nessuna nazione possa reclamare il territorio dell’Artico. Pure la Cina ha una propria base e si prepara all’estrazione.

Occorre non perdere tempo, la Russia infatti, è il paese con la parte più consistente di territorio compresa nella fascia polare e per questo il suo atteggiamento è più aggressivo. Chi non lo farebbe?
Nel 2007, per esempio, la nave Akademik Fedorov ha lasciato il porto di San Pietroburgo e si è mossa verso i mari del nord per portare a termine una spedizione scientifica durata quasi un anno. Lo scopo della missione era determinare se la regione polare (la cosiddetta dorsale Lomonosov) fosse collegata alla Siberia per dimostrare che quella terra è un’appendice della Russia. La nave ha lasciato sul suolo marino, a 4200 metri dal pelo d’acqua, una capsula con una bandiera russa in titanio, come monito ai concorrenti che in questa lotta bisognerà sempre fare i conti con la Russia prima di arrivare al Polo Nord. I rivali non mancano, a partire dagli Stati Uniti, che controllano diverse installazioni militari dalla Groenlandia alla Scandinavia e nel porto norvegese di Tromso, stazionano regolarmente i famosi sottomarini che mettono a rischio la sicurezza russa. Il Canada ha avviato nuovi programmi militari, mentre in Europa è la Danimarca il paese che avanza più pretese sulle risorse energetiche dell’Artico. I russi con la società pubblica Gazprom hanno piazzato una piattaforma petrolifera nel mare di Pechora. Il loro giacimento è già in fase produttiva e contano di decuplicare l’estrazione di petrolio entro il 2020, passando dagli attuali 12mila barili a 120mila.

Non è un caso che, l’anno scorso, Exxon Mobile ed l’italiana Eni, abbiano ottenuto la possibilità di esplorare, insieme con i russi di Rosneft, le acque dell’Artico in cerca di petrolio. Una scommessa con ottime possibilità di successo dove Eni avrà a disposizione due blocchi nel mare di Barents. La battaglia per la conquista del Polo Nord ha resistito a tutti gli sconvolgimenti politici del passato e da questo punto di vista nulla è cambiato dai tempi della Guerra Fredda. La Russia vuole ripristinare il controllo sulle regioni artiche e deve mostrare a tutti di avere forze adeguatamente preparate per scoraggiare un confronto troppo duro con i concorrenti. Il grande gioco si è spostato nel gelido Nord.

Oswald Spengler e i segni premonitori del globalismo occidentale

L’idea di tramonto dell’Occidente fa pensare all’esaurimento delle energie vitali di una civilità ma anche all’insorgere di altre: declino di un mondo e alba di un altro.
Oswald Spengler si è occupato del problema negli anni Venti, in piena euforia progressista, con una straordinaria capacità di anticipo sui tempi. Nelle sue pagine complesse e laboriose, si colgono i primi segni di quello che nei decenni successivi diventerà il progetto cosmopolita dell’Occidente.
Pessimista, Spengler ritiene fatale il declino e invita a tener duro rifiutando un atteggiamento passivo. Mentre altri vedevano nelle contaminazioni tra vecchio e nuovo, un fattore di arricchimento, Spengler evidenziava l’impossibilità di aggregare ciò che è non assimilabile. Il rifiuto del cosmopolitismo è inevitabile per cui considera strutturale l’unità di una civiltà, che può dirsi tale se possiede un radicamento in una precisa realtà spazio-temporale e, quindi, una forte identità. “Una civiltà – scrive – fiorisce su una terra esattamente delimitabile, alla quale resta radicata come una pianta”.

La multiculturalità che parte dal rifiuto di ogni elemento spaziale si fonda sulla convinzione che ogni tradizione può e deve convivere con altre, anche se tra di esse ci sono differenze incompatibili, talvolta manifestate con ostilità e ferocia.

Spengler quando lo scrisse non avvertiva il problema con la stessa intensità di oggi, dove più forti sono i contrasti tra gruppi etnici in Europa e Stati Uniti. Il progetto multiculturale viene utilizzato ideologicamente per affrontare la questione dell’integrazione dei flussi migratori che portano in Occidente masse di popolazioni sempre più numerose ed estranee. Non si tratta di impedire ai gruppi etnici di rispettare le loro usanze, bensì di rifiutare la protezione legale, comprensione e indulgenza culturale a quei gruppi le cui usanze risultino incompatibili, ostili e in conflitto con i nostri principi di libertà.

Culture diverse radicate in tradizioni differenti non si possono mescolare, è l’avvertimento impietoso di Spengler verso chi difende ancora l’ideologia multiculturalista, mostrando come la sua effettiva conseguenza sia l’accelerazione del declino dell’Occidente per opera di popoli che credono nella loro tradizione e identità culturale. Popoli, direbbe Spengler, ricchi di simbolicità, non disposti a farsi “contaminare” da altre civiltà e che in questa loro determinazione esprimono la forza aggressiva di una civiltà in ascesa rispetto a quella occidentale del tramonto. In questo senso si spiega come il globalismo economico dell’Occidente, sia l’atto finale della sua avventura e non un processo espansionistico della propria civiltà. Il globalismo cancella differenze storiche, identitarie, tradizionali delle popolazioni, imponendo un analogo modello di sviluppo economico che esige una cultura omogenea, necessaria per uniformare i popoli sulla base della stessa idea di benessere e di felicità. Questa omologazione trova la sua ragion d’essere in un contesto il più possibile “de-simbolizzato”.

Spengler non indica i motivi per i quali la cultura si sarebbe esaurita nel passaggio verso la civilizzazione; egli si esprime solo in termini biologico-organici.

“Una volta che lo scopo è raggiunto e che l’idea è esteriormente realizzata nella pienezza di una tutte le sue interne possibilità, la civiltà d’un tratto s’irrigidisce, muore, il suo sangue scorre via, le sue forze sono spezzate, essa diviene civilizzazione”.

Obiettivo del globalismo è la perdita di riferimenti simbolici. Spengler ha cercato in migliaia di pagine di mostrare come sia la cultura simbolica a dare forza e energia vitale a una civiltà, consentendone la crescita. La sua desimbolizzazione non è che il segno evidente del tramonto. Quindi, la globalizzazione non può rappresentare l’apogeo di una civiltà, bensì il segno di un irreversibile declino.

 

Decreto Banca d’Italia. Domande, risposte e qualche considerazione (senza retorica)


Partiamo ab origine da un dato storico: nei sistemi capitalistici le banche centrali sono indipendenti e la funzione monetaria è sottratta al controllo totale dello Stato, indipendentemente se siamo in un sistema a moneta sovrana o meno.
Il decreto legge sulla rivalutazione delle quote della Banca d’Italia ha scatenato un putiferio in Parlamento. Dell’ipotesi di rivalutare le quote si è parlato con una certa insistenza dalla fine dello scorso anno. Alla base di tutto c’è il fatto che il capitale nominale della Banca d’Italia era di soli 156mila euro, 300 milioni delle vecchie lire che furono versati nel 1936 dagli istituti di credito italiani allora statali.
Quegli istituti sono oggi banche private, alle quali si aggiungono Inail e Inps e una piccola quota detenuta dallo Stato. A causa di una serie di operazioni d’acquisizione e cessione, due gruppi, Intesa e Unicredit detengono circa la metà delle quote. Al di là di facili considerazioni complottistiche, le banche all’interno hanno un ridotto controllo nella gestione che resta interamente nelle mani del Tesoro e del Parlamento. Non possono neppure vendere le proprie quote. Inoltre, occorre sapere che una legge del 2005 (Berlusconi al governo) stabilì che entro tre anni, le quote andavano trasferite allo Stato. Ovviamente si fece di tutto, riuscendoci, per rendere inefficace la legge (il “peso” dei banchieri si avvertì)

E’ un regalo fatto alle banche?
Si. E’ un grosso regalo perché in questo modo con un tratto di penna le banche azioniste dell’istituto centrale, hanno rafforzato i loro patrimoni e potranno più facilmente superare i prossimi “stress test” a livello europeo. Non a caso dalle parti della Bundesbank sono infuriati.

La Banca d’Italia guadagna?
Certo, la Banca d’Italia ogni anno ha dei notevoli guadagni che in parte gira al Ministero del Tesoro e in parte accantona come riserve. Una delle fonti di guadagno, anche se non l’unica, è un aspetto tecnico dell’emissione della moneta che si chiama “signoraggio” ed è al centro di una serie di tesi cospirative, alcune davvero demenziali. Sarà difficile convincere molti di voi del contrario, ma il signoraggio non è il male assoluto e comunque porta molto denaro che viene parzialmente trasferito allo Stato.
Per dare una cifra, la media dei trasferimenti verso il Tesoro nell’ultimo decennio è stata di circa 370 milioni di euro, mentre cifre considerevoli sono accantonate nelle riserve. Solo una parte di questi guadagni deriva dal signoraggio. Si potrebbe eccepire – e c’è chi l’ha fatto – che, essendo la proprietà formale della Banca d’Italia in mano a degli istituti privati, questi da decenni traggano grandi guadagni dal signoraggio e dalle altre attività finanziarie dell’istituto. Non è precisamente così. Secondo lo statuto della Banca d’Italia i guadagni sono ripartiti tra i proprietari fino a un massimo del 10 per cento circa del capitale nominale, che fino a qualche giorno fa era ancora di soli 156mila euro. A questo va aggiunto un altro 4 per cento massimo, calcolato però sul totale delle riserve. Questa aggiunta fa arrivare i trasferimenti dalla Banca d’Italia alle banche private a cifre molto più consistenti, anche se marginali per il bilancio di un istituto di credito: negli ultimi tempi è stato  intorno ai 67 milioni l’anno, di fronte però a un utile netto della banca centrale di 1,1 miliardi di euro. Con un esempio concreto: Intesa possiede il 30 per cento delle quote della Banca d’Italia e ha ricevuto nel

Cosa è cambiato?
Il decreto dei giorni scorsi ha fissato il valore complessivo delle quote a 7,5 miliardi di euro. Soldi che concretamente non verranno versati nelle banche, ma che queste potranno scrivere nel bilancio. Il trucco disgustoso è tutto qui, perché in questo modo si sono ricapitalizzate agevolmente. Nonostante si tratti di un’operazione contabile senza trasferimenti di liquidità o di altri titoli, le banche devono comunque pagare le tasse sulle cosiddette plusvalenze. Lo Stato incasserà circa un miliardo di euro una tantum, mentre il rischio di vedere quote della Banca d’Italia finire agli stranieri è escluso dal decreto che chiarisce per i proprietari l’obbligo di avere la sede legale e l’amministrazione centrale in Italia.

Dov’è il problema?
Viene fissato un limite del 3 per cento per la partecipazione al capitale, chi ha una quota eccedente dovrà vendere ed è previsto un periodo transitorio tre anni per mettersi in regola. La soglia massima dei dividendi è stabilita al 6 per cento del valore del capitale, quindi in teoria la Banca d’Italia non pagherà più di 450 milioni di euro l’anno agli azionisti. 

Il problema è sempre politico e occorre un atteggiamento realistico: scardinare un sistema consolidato da secoli è difficile, il rapporto tra banchieri centrali e nazioni è stato sempre conflittuale. Un governo autorevole avrebbe potuto trarre il massimo vantaggio da questa situazione. Come? Per esempio, riservando allo Stato una quota significativa della Banca centrale, come avviene in Francia e Germania. Non lo hanno fatto semplicemente perché sono dei codardi.


Powered by WordPress & Theme by Anders Norén