Una fresca sera di primavera, siamo ad aprile del 1921. Arthur Power, giovane pittore e critico d’arte d’origine irlandese, incontra James Joyce al Bal Bullier di Parigi, dove stava festeggiando l’accordo con Sylvia Beach per la pubblicazione dell’Ulisse.

Nel decennio della loro amicizia, tra il 1921 ed il 1931, Power riuscì ad instaurare con Joyce una confidenza incentrata soprattutto sui temi letterari. Cinquant’anni dopo, nel 1974, vie-ne pubblicato un libro, , edito da Millington che uscirà in versione italiana solo nel 1980, con un’edizione curata da Editori Riuniti.
Si tratta di una rara intervista al grande scrittore irlandese, notoriamente insofferente a giornali e riviste, colto nella dimensione di una vita quotidiana molto semplice con un unico vizio: i ristoranti costosi dove gli piaceva mangiare.

Joyce viveva nella solitudine del suo appartamento con una scrivania ingombra di libri, appunti manoscritti e giornali. Era immerso in un perenne flusso di idee ed assorbito dal pensiero costante dei suoi scritti e delle opere da preparare. Power descrive la mente di Joyce costantemente impegnata su aspetti così rilevanti da escludere tutto il resto: il comporta-mento dell’uomo e il suo ambiente, con la prospettiva tipica di un dublinese.

“Chi avrebbe pensato che quell’uomo esile – scrive Power – dal fisico delicato, con quel viso liscio da impiegato, la barbetta a punta, quegli occhiali spessi, che davano un aspetto vitreo ai suoi deboli occhi, fosse il personaggio più rivoluzionario in questa epoca di rivoluzioni artistiche? Mi resi conto davvero che aveva molto del ribelle feniano: la stoffa scura del vestito, l’ampio cappello, il comportamento schivo, l’espressione intensa, proprio come un cospiratore letterario che fosse deciso a distruggere le strutture culturali, rispettabili ed oppressive, nelle quali eravamo stati educati e che allora si stavano sgretolando”.

Il libro di Power descrive un Joyce pervaso dalla volontà di mettere in discussione il mestiere dello scrittore in uno sforzo costante teso a ricomporre la frattura tra arte e vita, come cercherà di sviluppare in tutta la sua opera. È lo spirito di irrequietudine che troviamo nel romanzo autobiografico Dedalus, dove il protagonista è una sorta di paradigma dell’artista. E proprio in questa difficile mescolanza tra personaggio reale e ideale che sta la sua ricchezza.
Fin dalla prima conversazione, Power gli sottopone un problema: bisogna intendere la letteratura come fatto o come arte? Due risposte che Joyce riunisce, facendo un passo avanti: “Dovrebbe essere la vita e una delle cose che da giovane non riuscivo ad accettare era la differenza che riscontravo tra vita e letteratura”.
Non sono entrambe una forma di ebrezza? – incalza Power – non bisogna “essere sempre ubriachi, come si esprime Rimbaud, ubriachi di vita? Non è questo l’artista?”

“Questo è l’aspetto emotivo – dice Joyce – ma c’è anche l’approccio intellettuale, che disseziona la vita ed è quello che ora mi interessa di più, scendere giù fino a quel residuo di verità della vita, invece di gonfiarlo di romanticismo che è atteggiamento fondamentalmente falso. In Ulisse ho cercato di far nascere la letteratura dalla mia esperienza e non dalla formazione di un’idea preconcetta, o da un’emozione temporanea. […]

L’immaginazione e l’istinto sessuale – aggiunge più avanti – sono qualità eterne, mentre “la vita secondo regola” cerca di reprimerle, ma da questo conflitto nasce la sensibilità moderna.
L’invisibile che Joyce va delineando nelle Conversazioni si nutre di mistero, energie latenti e forze oscure: silenzio ed esilio, desiderio e violenza. Ne abbiamo testimonianza diretta in un’altra affermazione: “La vita è un problema complicato. È senza dubbio piacevole e lusin-ghiero vederla presentata in forma lineare, come presumono i classici, ma […] la letteratura classica rappresenta la luce diuturna della personalità umana, mentre la letteratura moderna si interessa al crepuscolo”.

Joyce scrive e affonda le mani nei fatti, nella realtà; si muove tra le ombre e le contraddizioni umane, al buio; affronta il rischio delle complessità sotterranee. La sua prosa non si are-na sulla distinzione tra fatto o arte – come se uno escludesse l’altra – ma diviene l’arte di descrivere i fatti della vita o, anche, la descrizione dell’arte di vivere. Joyce si sforza di de-scrivere sempre la sottile mescolanza tra vita reale e letteratura come forma di descrizione della vita.

Dice Joyce:
“In Ulisse ho cercato di mantenermi aderente ai fatti. C’è naturalmente dell’umorismo, perché la posizione dell’uomo in questo mondo, benché sia fondamentalmente tragica, può anche essere comica. La disparità tra ciò che si vuol essere e ciò che si è, risulta senza dubbio ridicola”.

Il contrasto e la dissociazione tra gli accadimenti che si affastellano sull’uomo e la sua rea-zione ad essi è il materiale dello scrittore. Ulisse è dunque l’uomo dell’esperienza che affronta la discesa agli inferi con l’arma dell’umorismo: una sola giornata – il Bloomsday – diventa la trama di uno sconfinato monologo interiore. Le vicende del libro si sviluppano tra le otto del 16 giugno 1904 (il giorno in cui Joyce incontrò Nora Barnacle, la sua futura compagna di vita) e le prime ore del giorno seguente, e tratta di persone ordinarie ritratte in un giorno di vita ordinario.
Joyce regalò una delle prime copie del libro al cameriere del suo ristorante preferito a Pari-gi. Gli interessava molto di più il punto di vista della gente comune rispetto a quello dei critici di professione. In questo senso, oltre alla complessità degli argomenti, Ulisse non è un uomo, ma ha l’ambizione di descrivere l’umanità. Un racconto di pura esistenza in cui ogni lettore può disegnare e vedervi la propria vita.