Thomas Mann nel 1918, nelle Considerazioni di un impolitico, segnalava il pericolo della “politicizzazione degli spiriti”. In Germania, i progressisti dell’epoca, smaniosi di fare tabula rasa del periodo imperiale, offuscati da troppo razionalismo, puntavano a politicizzare ogni aspetto della vita e delle arti senza capire che si doveva procedere per gradi. L’intestarsi sull’idea di modellare una democrazia quasi perfetta senza affrontare adeguatamente la crisi economico-sociale in arrivo, provocò il collasso della repubblica e alla fine, furono i nazionalsocialisti a riportare l’ordine.

I paragoni storici sono sempre difficili, il rischio di esagerare notevole. Eppure qualcosa accumuna gli anni Venti così turbinosi, con quello che accade oggi nelle democrazie contemporanee: un ciclo storico è alla conclusione mentre si intravedono gli albori di una mutazione politica. A scanso di equivoci, qualcuno non si ostini ad evocare lo spettro delle dittature, perché quello è solo lo spauracchio di chi non vuole fare i conti con la bancarotta culturale del cosmopolitismo. 

Quando una maggioranza significativa cambia opinione su questioni che sembravano consolidate, non si offre una soluzione politica alzando gli occhi al cielo, accusando tutti d’ignoranza, invocando la censura contro gli impreparati. 

Oggi la politicizzazione degli spiriti, lo scontro, la brevità e pervasività nella circolazione delle informazioni, passa soprattutto dai social network, l’agorà immateriale del Ventunesimo secolo. Qui il livello del dibattito, alto o basso, costringe tutti a conformarsi alle regole dettate dalla tecnica di questi strumenti. In piazza l’uomo colto e l’uomo semplice si mescolano inevitabilmente, somigliandosi l’un l’altro. Le classi colte, nonostante il disprezzo per certi metodi, sono costrette a gettarsi nella mischia.

Strumenti come Twitter e Facebook, possono provocare effetti imprevedibili: la contestazione dall’alto, l’atteggiamento pedagogico accompagnato dal rimprovero rieducativo, moltiplicano la forza di chi si attacca, dando visibilità più per l’essere osteggiati che per il contenuto della proposta. Così e stato per Trump e la stessa dinamica accade con le forze populiste, soprattutto Lega e Movimento Cinque Stelle ora al governo.

Le reazioni emotive con l’oggetto simbolico del populismo sono le seguenti: gioia del militante, rabbia dell’avversario, ribrezzo dell’intellettuale impegnato sui massimi sistemi. Molti oppositori insistono con un atteggiamento dannoso basato sullo sminuire l’avversario e definirlo come qualcosa di inferiore da deridere. Errore fatale dal quale non è immune neanche la destra sociale e conservatrice. Se ti consideri troppo superiore all’avversario moralmente, culturalmente e antropologicamente e questi ti domina, forse c’è qualcosa che non torna nella tua narrazione. È opportuno rileggere quello che scrisse Antonio Gramsci in proposito:

“La tendenza a diminuire l’avversario è di per se stessa un documento della inferiorità di chi ne è posseduto. Si tende infatti a diminuire rabbiosamente l’avversario per potere credere di esserne sicuramente vittoriosi. In questa tendenza è perciò insito oscuramente un giudizio sulla propria incapacità e debolezza (che si vuol far coraggio), e si potrebbe anche riconoscervi un inizio di autocritica (che si vergogna di se stessa, che ha paura di manifestarsi esplicitamente e con coerenza sistematica).

Si crede nella “volontà di credere” come condizione della vittoria, ciò che non sarebbe sbagliato se non fosse concepito meccanicamente e non diventasse un autoinganno (quando contiene una indebita confusione tra massa e capi e abbassa la funzione del capo al livello più arretrato e incondito gregario: al momento dell’azione il capo può cercare di infondere nei gregari la persuasione che l’avversario sarà certamente vinto, ma egli stesso deve farsi un giudizio esatto e calcolare tutte le possibilità, anche le più pessimistiche). Un elemento di questa tendenza è di natura oppiacea: è infatti proprio dei deboli abbandonarsi alla fantasticheria, sognare ad occhi aperti che i propri desideri sono la realtà, che tutto si svolge secondo i desideri. Perciò si vede da una parte l’incapacità, la stupidaggine, la barbarie, la vigliaccheria ecc., dall’altra le più alte doti del carattere e dell’intelligenza: la lotta non può essere dubbia e già pare di tenere in pugno la vittoria. Ma la lotta rimane sognata e vinta in sogno.

Un altro aspetto di questa tendenza è quello di vedere le cose oleograficamente, nei momenti culminanti di alta epicità. Nella realtà, da dovunque si cominci ad operare, le difficoltà appaiono subito gravi perché non si era mai pensato concretamente ad esse; e siccome occorre sempre cominciare da piccole cose (per lo più le grandi cose sono un insieme di piccole cose) la “piccola cosa” viene a sdegno; è meglio continuare a sognare e rimandare l’azione al momento della “grande cose”. La funzione di sentinella è gravosa, noiosa, defatigante; perché “sprecare” così la personalità umana e non conservarla per la grande ora dell’eroismo? E così via.

Non si riflette che se l’avversario ti domina e tu lo diminuisci, riconosci di essere dominato da uno che consideri inferiore; ma allora come sarà riuscito a dominarti? Come ti ha vinto ed è stato superiore a te proprio in quell’attimo decisivo che doveva dare la misura della tua superiorità e della sua inferiorità? Certo ci sarà stata di mezzo la “coda del diavolo”. Ebbene, impara ad avere la coda del diavolo dalla tua parte.

Il brano tratto dai Quaderni dal carcere, è utile per chi fa politica e chi analizza fenomeni complessi, ramificati e ancora un po’ sfumati come il populismo italiano.