demagogia è il vocabolo usato dai democratici, quando la democrazia li spaventa (Nicolás Gómez Dávila)

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La lunga transizione

 

In questi anni la discussione sulle classi dirigenti ha avuto grande popolarità e alcuni analisti si sono spinti a teorizzare uno scontro tra élite e popolo per decifrare i cambiamenti della politica. È una visione troppo semplice e convenzionale perché come i classici del pensiero ci ricordano, a governare è prima di tutto, la dura legge delle oligarchie. Di solito un ciclo finisce e un altro comincia e le fasi di transizione, brevi o lunghe che siano, sono sempre intricate.

La storia è “un cimitero delle aristocrazie” scriveva Vilfredo Pareto ed il tempo, si è incaricato di dimostrare la ragionevolezza dell’assunto. La legge di conservazione della massa fisica parte dall’assunto di Lavoisier che spiegava come nelle reazioni chimiche “nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si trasforma”. In politica vale lo stesso ed è arduo comprendere le nuove forme del mutamento. Certamente, una nuova “aristocrazia venale” sta prendendo il controllo dentro il sistema del capitalismo della sorveglianza. Al suo interno esistono posizioni e orientamenti diversi sui percorsi della globalizzazione ma resta intatta un’unità di fondo.

Molti miti dell’ordine politico occidentale sono caduti o sono stati sfatati dalla storia negli ultimi trent’anni. La crisi finanziaria del 2008 ha certificato che molte cose non stavano funzionando. Il rapporto tra popolo e istituzioni è deteriorato in buona parte dell’occidente: i tradizionali partiti interclassisti maggioritari sono finiti sotto l’assedio delle forze politiche e dei movimenti più capaci di intercettare malessere, rabbia e paura. L’instabilità politica è la cifra caratterizzante di molte democrazie e mentre si correva ai ripari per capire cosa non funzionasse nel popolo, ben presto si è compreso che qualcosa era andato in cortocircuito nelle alte sfere della società.

Il “cosmopolita globale”, architetto del sovranazionalismo e del linguaggio politicamente corretto assiste alla lenta erosione della propria legittimità. Il progetto dell’uomo sovranazionale, felice e giusto perché integrato, tollerante, multietnico e globale scricchiola dapprima sotto i colpi dell’instabilità economica e poi sotto il fuoco incrociato di migliaia di outsiders delusi e amareggiati.

Quel che oggi si rappresenta come establishment è  quell’individuo che lo studioso Michael Lind definisce anywhere (ovunque), il quale grazie alla sua formazione internazionale e alla sua mentalità globale può vivere e lavorare ovunque, senza patria né tradizione. Può scansare la comunità d’origine e costruire la propria vita in metropoli extraterritoriali o in quartieri blindati, dove incrocia quasi esclusivamente i suoi simili. Fuori da questo spazio privilegiato, poco distante dal centro delle metropoli o dispersa in tante periferie, c’è la classe dei lavoratori, i somewhere (da qualche parte). Sono ancorati a un modello e una forma mentis “tradizionale”, secondo la definizione del ceto progressista, vivono nelle province, credono maggiormente nella famiglia, nella proprietà immobiliare e coltivano miti popolari. Non sono semplicemente “poveri”, artigiani e piccoli imprenditori sono forse più ricchi di qualche creativo patinato, ma diversa è la loro cultura.

Siamo entrati nell’era della delegittimazione politica e culturale degli anywheres, la gran parte della popolazione radicata sui territori prova a dare fiducia e consenso a quei leader e movimenti politici che interpretano meglio la rivolta dei somewheres. Lind nel libro dal titolo emblematico “The New Class War” spiega come il sistema premi il merito solo se ci sono determinate condizioni di partenza e se l’individuo è disposto ad accettare i valori del ceto tecnocratico fatto di identità blanda, diritti individuali, mobilità lavorativa ed ecologismo come posa intellettuale. L’ideologia della classe tecnocratica è un’ipocrita sintesi di individualismo esacerbato e ammaestramento autoritario. Sfumano le diversità e si afferma la “mediocrazia”. Il soggetto che vuole farsi tecnocrate deve slegarsi da ogni legame comunitario, accettare le “cose buone e giuste” della classe tecnocratica e disprezzare quello che sta fuori. Lind ipotizza una nuova forma di lotta di classe, tra globalizzati e radicati. Una collisione tra anywhere e somewhere . Sarà così?

A nostro avviso, lo scontro lascia inalterati i rapporti di produzione capitalistici, base di tutte le dinamiche sociali e li trasferisce solo su un altro piano simbolico quello della rete digitale.

Il futuro disegnato dalle élite ha smesso di funzionare e sedurre. Il fuoco sotto la cenere del conflitto politico è divampato mostrando diverse fiamme: nazionalismo, sovranismo, comunitarismo, socialismi vari. Il regno depoliticizzato della tecnocrazia europea è finito sotto il mirino dei cittadini adirati, il processo di integrazione sempre più stretta tra paesi europei, la dottrina economica che lo sottende, non sono più qualcosa di indiscutibile.

Torniamo alla domanda iniziale: chi sta lentamente scalzando la vecchia élite indebolita? Sicuramente la nuova oligarchia digitale che concentra la maggioranza del capitale e scatena forze difficili da contenere. In contrapposizione dovrebbe formarsi una classe politica-economica in grado di sovvertire la mentalità che ha dato forma e sostanza a questa globalizzazione: idee liberiste troppo spinte e un approccio etico troppo aperto.

Non tutte le nuove forze in campo hanno mostrato idee chiare e un profilo definito con cui intendono sostituire il vecchio, né la strategia per attraversare il XXI secolo. Riportare la politica in una dimensione territoriale, comprendere che la contrapposizione è tra grandi sistemi-civiltà, addomesticare il capitalismo, individuare nuove forme di cooperazione municipale, sono sfide che non si affrontano con la testa rivolta al passato, al bel tempo che fu, se mai c’è stato e tantomeno con qualche slogan rassicurante. Lagnarsi è facile, diventare avanguardia è difficilissimo.

Il politologo americano Samuel Huntington scriveva: “se le élite istituzionalizzate non competono tra loro per organizzare le masse, saranno le élite dissidenti ad organizzarle per rovesciare il sistema. Nel mondo che si modernizza, chi organizza la politica controlla il futuro”.

Aspettando l’Europa

Ogni grande idea politica attinge alle sorgenti di fede e si fonda su una intuizione del mondo che precede ed eccede ogni fondazione razionale. La qualità del ceto politico si misura nella dedizione con cui serve una causa, dalla lungimiranza e da una visione politica in grado di misurarsi con l’orizzonte del possibile. L’Europa può diventare un grande polo di un ordine mondiale basato su nuovi equilibri, lo è in potenza, purtroppo non lo è ancora nella sostanza. Qualcosa si intravede ma non basta, quell’aggregato chiamato Unione Europea non sta mostrando il meglio di sé. Sicuramente manca la grande politica e una mentalità ambiziosa capace di ragionare in termini di potenza. Il difetto sta nella narrazione offerta dalle élite europee poco abituate a un pensiero strategico completo, allucinate dall’idea di diluire ogni conflitto nella soluzione fisiologica del calcolo economico e convinte di riuscire prima o poi a raggiungere un equilibrio armonico. I più devastanti conflitti europei sono scoppiati come conseguenze dei tentativi di superare il pluralismo politico del continente. L’Unione Europea è ancora un territorio di scontro, attraversato da una cacofonia di interessi nazionali che a volte convergono e altre si contrappongono in un equilibrio sempre precario.

Gli errori dell’Europa sono una questione di grammatica

Esistono tre nozioni di Europa spesso sovrapposte o confuse ma che è opportuno tenere distinte. Anzitutto c’è lo spazio continentale in senso fisico: l’Europa come concetto geografico, ma anche etnico-storico e socio culturale. Qui dentro c’è un gruppo di paesi che fa parte dell’Unione Europea, un club che condivide una serie di regole e valori, i cui membri hanno ceduto parte della loro sovranità, per consentire al sistema di reggere. A sua volta, una parte di queste nazioni, viene identificata con il termine “eurozona” per designare quelle che condividono la stessa moneta cedendo una quota ancora maggiore di sovranità, con regole stringenti in materia di bilancio.
L’esistenza di queste tre nozioni provoca delle frattura che segnano dei conflitti politici. Ultimo, in ordine temporale, il referendum che ha sancito l’uscita della Gran Bretagna dall’UE, si è combattuto sulla faglia tra Eurozona/UE: la maggiore integrazione della prima, spinge un paese geloso di certe prerogative sovrane ad abbandonare il club. A sua volta questo crea pulsioni indipendentiste in quelle porzioni di territorio britannico, come la Scozia, che vogliono restare nel sistema comunitario in funzione anti-inglese.
Altri conflitti scuotono il vecchio continente come quello in Ucraina sul confine tra sfere d’influenza europea e russa. Altre pressioni arrivano dal Nordafrica e sul confine sud est con il flusso incontrollato di migranti. Di fronte a questi enormi problemi, l’Unione Europea ha la tendenza innata a fare cattivi compromessi, dettati soprattutto dal sentimentalismo, i suoi processi politici tendono a evitare forti discontinuità e solo un voto popolare poteva fare pressione in tal senso.

“I guai del mondo sono sempre una questione di grammatica”. Nella sentenza del filosofo aquitano Michel de Montaigne, si può comprendere il fallimento dell’Unione Europea. Allo stesso tempo astorico e utilitaristico, il progetto continentale manca dei connotati geopolitici per sopravvivere alla congiuntura attuale. Né impero né nazione: contravviene alla più elementare prassi di governo. Una sottile incongruenza che i tanto celebrati “padri fondatori” considerarono un trascurabile difetto ortografico. Credevano che la burocrazia potesse sostituirsi alla capacità strategica di uno stato egemone e l’interesse economico potesse sostituire l’assenza di una coscienza etnico-nazionale. S’illudevano di poter fermare lo scorrere del tempo e sottrarsi all’inevitabile sviluppo dialettico.

“Non ci sarà pace in Europa se gli stati saranno ricostituiti sulla base della sovranità nazionale”, scrisse nelle sue memorie Jean Monnet. “Non stiamo formando una coalizione di stati, stiamo unendo persone”. Il nobile proposito, cela una sottile sfrontatezza perché Monnet ha fatto di tutto per diluire il conflitto politico, disegnando una struttura istituzionale dove al centro ci sono dei rigidi meccanismi economici, supportati da astratte teorie funzionaliste. 
Il risultato finale è un agglomerato mercantile, dove non è possibile mettere in discussione niente, se non apportare pallide modifiche a un sistema dove la guerra si è inevitabilmente spostata in campo economico. Laddove si spengono le passioni e si omologa il pensiero politico, tutto diluisce nella grigia pratica amministrativa, che affronta i problemi complessi con il piglio del ragioniere. È a questa mentalità che dobbiamo il lessico tipico di Bruxelles, fatto di decisioni irreversibili presentate come dogmi indiscutibili. Non disturbate i visionari, la “generazione Erasmus” sa cosa fare e un’Europa differente non esiste. 
In verità più sottovalutiamo il valore della sovranità, più ci sfugge di mano. Dalla post-sovranità, siamo passati all’iper-sovranità dei mercati e di burocrazie opache. L’Unione Europea è stata costruita sull’aspettativa che l’esercizio della sovranità nazionale si sarebbe dissolto in poco tempo. Il referendum britannico ha piantato un altro chiodo nella bara di questa convinzione.

La genesi dell’euro e vecchi dogmi da criticare

Dal 2002, la maggior parte di noi europei spende una moneta, cui non corrisponde alcuno stato. Caso unico al mondo, quel che dovrebbe essere la massima espressione della sovranità, continua a non avere un sovrano. C’è un controllore, la Banca Centrale Europea, senza un contrappeso politico, altra stravaganza di una situazione dalle conseguenze imprevedibili. Il destino dell’euro come moneta orfana di un governo è scritto nel suo codice genetico. Come altre unioni monetarie del passato, quella europea è stata giustificata con ragioni tecniche, ma è basata su logiche puramente politiche. Forse ve l’hanno raccontato molte volte, ma l’euro è soprattutto un desiderio dei francesi e dell’allora presidente Mitterand, dopo la riunificazione della Germania nel 1990, che minacciava di ricreare una propria politica di potenza al centro dell’Europa, in virtù di un forza economica notevole grazie alla supremazia del marco e a un solido sistema industriale. Da qui l’idea, di proseguire in fretta e furia, verso la moneta unica nell’illusione di imbrigliare la Germania, ottenendo esattamente il risultato opposto. L’euro per i tedeschi ha avuto l’effetto di una svalutazione competitiva, consentendogli un aumento delle esportazioni e del potere decisionale attraverso la forza economica.
Senza un qualche tipo di unione politica, si è deciso di sparpagliare la sovranità monetaria a tutti, praticamente a nessuno. Anche perché, se l’euro fu fatto, in un certo senso, contro la Germania, fu con questa che si dovette discutere al momento di scrivere le nuove regole che così imposero una banca centrale unica che ricalcasse nello stile e nella mentalità la Bundesbank tedesca, senza il controllo di nessuna autorità politica.
Quello di Maastricht è un testo strano, le cui pagine riflettono appieno la genesi franco-tedesca del progetto monetario europeo. Ai principi illuministici, mutuati direttamente dal mito della rivoluzione francese, si alternano passaggi di tecnica monetaria, che risentono fortemente delle teorie di Milton Friedman e della scuola di Chicago, particolarmente in voga in certi ambienti finanziari tedeschi vicini al governo. L’idea principale risiede nel sacro terrore dell’inflazione e nella funzione deflazionistica del ruolo della Banca Centrale, il cui mandato consiste nel tenere semplicemente sotto controllo l’andamento dei prezzi. Una ferrea disciplina monetaria. Questa politica deflazionistica è troppo rigida e, soprattutto, poco compatibile con le economie dell’Europa meridionale, storicamente meno efficienti e più avvezze alle svalutazioni. Non diciamo niente di nuovo. Le unioni monetarie generano squilibri notevoli, come spiegato bene dal cosiddetto “ciclo di Frenkel”. (1) Non è chiaro fino a che punto, nella fase di gestazione dell’euro, quali fossero le posizioni nell’elites europee, al di fuori della Germania. A giudicare dalla loro condotta, l’errore è stato quello di considerare il Trattato di Maastricht come un semplice accordo politico, nella sua genesi e soprattutto nell’applicazione. Un accordo flessibile, suscettibile di ogni genere d’interpretazione, a tal punto da illudersi di poterlo aggirare. Non vi sembra il momento giusto per contestare certi dogmi?

NOTA

Il ciclo di Frenkel si compone di sette fasi.

1. All’interno di un’area valutaria vengono introdotte norme che liberalizzano la circolazione dei capitali e dunque non ci sono più vincoli protezionistici al trasferimento finanziario tra i singoli paesi.

2. Siccome i capitali circolano liberamente, inizia un afflusso di risorse dai Paesi del “centro” verso quelli della “periferia”. I paesi del “centro”, sono quelli più forti finanziariamente perché hanno svalutato il cambio entrando nell’unione valutaria (la Germania col passaggio all’euro è come se avesse “svalutato” il vecchio marco). I paesi della periferia invece, hanno dovuto rivalutare il cambio per entrare nell’area valutaria comune (es. l’Italia ha rivalutato la lira passando all’euro). Ovviamente i paese più solidi del “centro” trovano vantaggioso trasferire capitali in periferia perché i tassi di interesse di quest’ultima, sono più alti e in ogni caso si tratta di prestiti dove non c’è il rischio del cambio monetario (essendo unica la moneta, ma lo stesso discorso vale con monete diverse, ma di pari valore).

3. L’afflusso di capitali (soldi in prestito) alimenta la domanda delle famiglie e delle imprese della periferia, generando crescita dei consumi e degli investimenti. Di conseguenza aumenta il PIL e migliorano i conti pubblici perché aumenta il gettito fiscale connesso all’espansione economica.

4. L’aumento dei consumi e degli investimenti favorisce la crescita del Prodotto Interno Lordo ma anche l’inflazione (troppo credito equivale a troppa moneta in circolazione). Nell’economia periferica che cresce, aumentano i prezzi, i debiti privati, il credito al consumo e spesso aumentano i valori immobiliari. Tutta questa crescita è di fatto una “droga” somministrata dall’arrivo di capitali dal “centro” e ciò si riscontra proprio dall’aumento del debito privato che cresce più rapidamente di quello pubblico, che nella terza fase tende a diminuire.

5. Uno shock interno o esterno fa scoppiare la bolla del debito privato. Non c’è più garanzia di restituzione e a questo punto i paesi del centro bloccano i rifornimenti alla periferia. (esempio di shock la crisi dei mutui subprime negli Usa nel 2008)

6. A questo punto venendo a mancare la liquidità dal centro, si innesca un corto circuito per cui i Paesi della periferia vanno in “recessione”. Il debito pubblico aumenta e contemporaneamente calano i consumi e gli investimenti. Cala il PIL e il rapporto deficit/pil peggiora e si attuano politiche di restrizione fiscale (tagli di spesa e aumento delle tasse) che di solito, peggiorano la situazione.

7. Il peggioramento dei conti pubblici rende la situazione insostenibile per la periferia che non ha alternative se quella di sganciarsi dall’unione valutaria a meno che, gli squilibri non vengano corretti con un intervento politico (nel nostro caso le istituzioni europee)

La strategia di Putin in Medio Oriente

 

La politica russa nei confronti del Medio Oriente, è stata condotta, per lungo tempo, non tanto per ciò che poteva produrre ma per ciò che poteva togliere all’Occidente, soprattutto agli Stati Uniti a partire dagli anni quaranta.

Il Medio Oriente che noi conosciamo è nella struttura geografica un prodotto “artificiale” occidentale, perché è il risultato di una serie di interventi diplomatici, economici e militari che vanno dall’accordo Sykes-Picot del 1916 all’invasione dell’Iraq nel 2003. Tutti progetti decisi, attuati e gestiti dalle potenze occidentali a partire dalla prima guerra mondiale, a seguito del crollo dell’Impero Ottomano. La Russia nei secoli XVII e XVIII, ha sempre lottato per avere una via d’accesso al Mediterraneo. Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti sono riusciti nella prima metà del novecento, a tenere lontana la Russia con una politica di contenimento. La breve premessa storica serve a dimostrare come, a nostro avviso, solo con la presidenza di Putin, la Russia abbia sviluppato una politica per il Medio Oriente più definita. Il motivo è presto detto: Putin è cresciuto e si è fatto strada come leader politico negli anni novanta, un decennio tremendo per il suo paese quando il Cremlino perdeva posizioni nel mondo e subiva umiliazioni. Diventato presidente nel 2000, dovette affrontare un rompicapo politico: come recuperare posizioni per una nazione all’epoca indebolita finanziariamente e accerchiata.

 

La Russia ha una strategia definita e in questi anni ha ricostruito una rete stabile di relazioni mediorientali, tale da costringere la Casa Bianca a fare qualche compromesso in un’area storicamente a predominio americano. Quello che vuole Putin è chiaro da molti anni, una prima risposta l’ha fornita ancora prima che gli fosse richiesta nel 1991, appena tornato dall’incarico nella Germania est per conto del Kgb, in una tesi di dottorato intitolata: “Il ruolo delle risorse naturali nella strategia di sviluppo economico della Russia”. Nel 1999, poco prima di diventare primo ministro e ancora in carica come direttore dei servizi segreti, aveva ricavato da quel lavoro, un lungo articolo, pubblicato nelle Note dell’Istituto di Mineralogia, in cui spiegava come l’attività degli imprenditori privati nel settore dell’energia doveva svolgersi, nel quadro strategico degli interessi dello Stato che si riservava il diritto di intervenire quando quell’interesse fosse minacciato.

Putin è passato in pochi anni dalla teoria alla pratica, muovendosi esattamente nella direzione indicata nei primi anni novanta. Il settore energetico è stato sviluppato e messo sotto stretto controllo dell’autorità pubblica, facendo dello stato il primo azionista di tutte le principali compagnie di estrazione, trasporto e commercializzazione di gas e petrolio. L’unica politica estera possibile per la Russia è quella di proteggere a ogni costo la propria influenza sul mercato internazionale dell’energia e il maggior grado possibile di controllo sulle vie di transito di gasdotti e oleodotti. Strategia peraltro perfettamente speculare a quella americana per questo destinata a collidere. Ora non si comprende perché se sono gli americani a difendere il proprio interesse va tutto bene, se lo fanno i russi, allora c’è da preoccuparsi. Fino a prova contraria, sono gli Stati Uniti a sganciare le bombe e a scatenare conflitti con una certa facilità per difendere le vie del petrolio e del gas. I russi nell’ultimo decennio hanno utilizzato altri strumenti di persuasione e hanno condotto in molti casi un gioco più pulito. Tutto è lecito nella difesa dell’interesse nazionale, ma almeno risparmiateci il “suprematismo moralistico”. Così, se dall’inizio degli anni Duemila la strategia degli Usa è basata sul mutamento del contesto politico dei paesi e degli assetti in contrasto con gli interessi americani, quella russa è soprattutto una strategia di consolidamento e conservazione.

Putin ha evitato il confronto su terreni più propizi agli americani, come lo scontro militare diretto, non ha ceduto alle provocazioni e per primo ha stretto un rapporto diplomatico vitale con l’Iran, soprattutto per le questioni legate all’energia. Le rispettive riserve di gas (33,6 trilioni per l’Iran e 32,9 per la Russia), ovvero le più vaste del mondo, se ben gestite in comune hanno potere di condizionamento dei mercati senza pari. La crisi non risolta in Ucraina, le sanzioni e altri contrasti spingono il Cremlino a non disperdere questo capitale.

Putin è stato abile nel capire che il rapporto con l’Iran offriva un’occasione per ingessare il dinamismo americano. Inoltre quest’alleanza è servita a trovare un altro elemento di dialogo con la Cina. Il legame con gli iraniani ha consentito a Mosca di farsi protettrice della Siria, altra nazione finita nella stupida lista di proscrizione degli “stati canaglia”.

La Siria nell’estate del 2000, l’anno in cui russi e iraniani riprendevano contatti, affrontava una delicata transizione con il passaggio di poteri da Hafiz al-Asad a suo figlio Bashar, entrambi esponenti del mondo islamico alauita, in grado di plasmare un paese laico, dove convivono diverse confessioni religiose. Caso raro, in un Medio Oriente, dove un subdolo fanatismo assume tratti e forme differenti a Riad, a Doha o a Tel Aviv.

Mosca difende la Siria senza mezzi termini e il suo governo legittimo, senza optare per pericolosi cambi di potere. Perché? É evidente come non è stata la convenienza economica diretta a spingere verso la difesa a oltranza ed evitare, con una complessa partita diplomatica, il bombardamento della Siria da parte di americani e inglesi, nell’estate 2013.

L’interscambio commerciale tra Siria e Russia è di appena 2 miliardi di dollari e non basterebbe a spiegare così tanto impegno. Altrettanto vale per le forniture militari verso Damasco che valgono meno del 5% del totale e per di più sono in perdita, perché i siriani hanno un debito di 3,6 miliardi di dollari e Mosca non si aspetta che saldino le fatture, in momento così difficile con un paese a pezzi a causa della guerra. Non è un motivo sufficiente neanche il famoso sbocco sul Mediterraneo rappresentato da cinque moli nel porto siriano di Tartous che neanche costituiscono una base, ma solo un punto d’appoggio tecnico per evitare alle navi russe di dover ogni volta riattraversare i Dardanelli per fare il pieno sul Mar Nero.

La Russia protegge la Siria per agganciarsi a quella che gli analisti chiamano la Mezzaluna fertile e irrobustire l’alleanza con il blocco sciita, Siria, Iran e Hezbollah soprattutto, unico elemento politico e geografico che impedisce al mondo sunnita, da sempre legato a Washington, di ottenere il monopolio del Medio Oriente, delle sue ricchezze energetiche e delle vie di terra e di mare per distribuirle. Quando Putin e il suo ministro degli Esteri Lavrov, peraltro in piena sintonia con la Cina, difendono la stabilità dei regimi, hanno in mente quel che è accaduto in passato, nell’Iraq del 2003 con il rovesciamento di Saddam Hussein, nella Libia del 2011 con la caduta di Gheddafi e la brutale repressione in Bahrein da parte dell’esercito saudita di cui nessuno parla.

Situazioni provocate dagli Stati Uniti con la complicità occasionale di qualche altro alleato. La tattica offensiva americana per scombinare le carte in Medio Oriente e ottenere vantaggi, non è mai cambiata e per questo, la Russia ha scelto la strada opposta: ricomporre, stabilizzare, placare e bloccare.

Putin non avverte notevoli affinità con gli ayatollah iraniani o con il baath siriano di Assad, semplicemente il suo è un realismo efficace. Sa che la Russia non ha la potenza militare degli Stati Uniti, tantomeno economica e politica. Si è solo reso conto che in un mondo diventato improvvisamente multipolare e affollato di nazioni che sono o ambiscono a diventare protagonisti regionali, è possibile stringere alleanze nuove per accrescere la propria forza internazionale.

 

 

 

Immigrazione, sradicamento e ipocrisia dell’accoglienza

È più facile evitare gli argomenti che si giudicano “scottanti”, con tutto il carico di emotività che si trascinano, piuttosto che affrontarli direttamente. È una variante della politica dello struzzo. Taci e tutti sono ben disposti intorno a te. Il tema dell’immigrazione è un argomento che può scatenare risse interminabili, soprattutto se si esprimono posizioni intransigenti. Essenzialmente si confrontano sul problema due approcci che si differenziano solo sul grado di intensità dell’accoglienza: il primo rigido e legalista, il secondo aperto e più cedevole. I due approcci condividono il medesimo assunto di fondo: l’ineluttabilità del fenomeno migratorio, secondo le dimensioni attuali. Si tratta di una posizione che considera quella dell’emigrazione solo una problematica legata al numero delle presenze e alle risorse disponibili. Le posizioni radicalmente critiche verso l’immigrazione non hanno diritto di cittadinanza, il perché è fin troppo semplice spiegarlo: si finisce subito per essere impregnati da una caligine di razzismo e xenofobia, pietre dello scandalo nel paesaggio contemporaneo. Tertium non datur.


Il fenomeno viene per lo più avvertito in chiave emotiva, senza una politica organica in grado di far fronte efficacemente all’aumento dei flussi migratori. Non a caso si parla sempre di “emergenza” e prevale la logica del provvedimento tampone, come a certificare la mancanza di strumenti legislativi idonei e di una visione d’insieme del fenomeno. A prevalere è l’umore del momento, condizionato dall’ennesimo caso delle morti in mare aperto. Tutto si confonde: il dovere di soccorrere dei disperati lascia sullo sfondo la questione cruciale di chi può restare sul nostro territorio, a che condizioni e con quale impatto nella società. I sostenitori delle “porte aperte” al migrante mescolano con furbizia e sapienza la retorica dei diritti umani e la logica del mercato. Un elenco sommario degli argomenti che sovente capita di leggere e ascoltare in rapporto all’immigrazione, sono di una pochezza desolante:
– le emigrazioni ci sono sempre state,
– noi siamo stati un paese di emigranti e quindi abbiamo un obbligo (morale? giuridico?) nei confronti dei nuovi arrivati;
– gli immigrati ci arricchiscono culturalmente e sono una risorsa economica e fanno i lavori che gli italiani rifiutano.


Innanzitutto, i grandi spostamenti di popoli avvenivano in territori poco popolati. Le tribù germaniche che si mossero a partire dal II-III secolo d.c. trovarono spazi e risorse, oppure se li conquistarono con la spada. Se invece, facciamo una comparazione con l’emigrazione dall’Europa verso gli Stati Uniti, non dobbiamo dimenticare anche in quel caso l’abbondanza di risorse e di spazi disponibili. Gli USA sono una nazione formatasi in questo modo, che si è costruita una propria identità non senza tensioni, violenze interne e con un equilibrio sempre precario. Gli attuali flussi migratori interessano l’Italia e altre nazioni europee già densamente popolate e in difficoltà nel garantire adeguati livelli di protezione sociale. L’accoglienza non è un obbligo, soprattutto in una fase economica così difficile. 
Gli immigrati sono effettivamente una risorsa al servizio del capitalismo per quei settori produttivi dove avviene una continua compressione del costo del lavoro, sfruttando una manodopera poco incline alle rivendicazioni sul salario e la sicurezza. Un immigrato è sempre disposto a fare un lavoro “sottopagato”, cosa che è avvenuta in molti paesi generando un forte conflitto sociale dentro un contesto di perversa competizione al ribasso.

Adesso che siamo giunti alla seconda generazione, siete convinti che si accontenteranno di un “basso profilo” socio-economico? D’altronde perché dovrebbero? Si invocano le differenze identitarie come elemento di arricchimento, quando si tratta di legittimare l’immigrazione, ma con spregiudicata disinvoltura si definiscono una “finzione” o addirittura indice di razzismo quando ci si appella allo loro difesa per criticare il fenomeno migratorio. Sull’arricchimento culturale, le parole di Geminello Alvi compendiano bene quel che pensiamo: «(…) Sono la plebe cosmopolita, che veste in blue jeans come una volta vestivano solo i contadini americani. E come oggi vestono tutti. Ascoltando lo stesso rumore finto musica. Anche perciò la società multiculturale è un’idiozia. Il collante tra l’immigrato e le nazioni che l’ospitano anche in Europa non è né la cultura dell’immigrato né quella di chi lo ospita: è la sciatta cultura delle plebi americanizzate da abiti, tv, dischi, computer. Scriveva Miller che la vita è ormai un incubo ad aria condizionata; aggiungerei che parla l’inglese». (1)


L’immigrato errante, come il capitale e le merci, è parte di un processo di sradicamento epocale e funzionale solo alla globalizzazione finanziaria. Si impoveriscono intere aree del pianeta, costringendole ad assumere un modello mercantile estraneo alle loro tradizioni, creando così le premesse materiali all’emigrazione. Si spingono le popolazioni a venire da noi prospettando loro un avvenire che però, guarda caso, si è del tutto disinteressati a favorire nelle loro terre. In ultimo in Occidente, un senso di colpa collettivo, incentiva il business dell’intervento umanitario con organizzazioni caritatevoli pronte a intervenire nelle zone più povere per raddrizzare le “storture” del Sistema di cui esse sono parte integrante.
Il contrasto all’immigrazione è un banco di prova decisivo, se non verrà affrontata, da adesso, con fermezza e rigore, non ci saranno futuri provvedimenti restrittivi in grado di bloccarla. Ogni processo storico, infatti, ha un punto di non-ritorno, scavalcato il quale la reversibilità, ossia la concreta possibilità che di individuare alternative, si rovescia in irreversibilità.


NOTE
1. Di globale vedo solo l’impero americano (Corriere della Sera, 16 luglio 2001)

Gli Usa non vogliono combattere l’Isis

Un documento della DIA (Defence intelligence Agency) degli Stati Uniti, datato 12 agosto 2012 e all’inizio classificato “Secret/Noform”, è stato reso pubblico lo scorso 18 maggio, su richiesta della fondazione Judicial Watch. Il documento dimostra come gli Stati Uniti disponessero di adeguate informazioni sul campo rispetto alla consistenza dell’ISIS e sulle capacità militari dell’organizzazione terroristica. Tuttavia l’organizzazione terroristica viene considerata non come una minaccia ma una “risorsa strategica” per isolare la Siria e mettere in crisi il suo governo. Infatti, non viene esclusa la possibilità di formare uno stato di matrice ideologica salafita (funzionale agli interessi statunitensi nella regione mediorientale).


Al punto 8.C: “Se la situazione degenera c’è la possibilità di dichiarare un principato salafita aperto o segreto nella Siria orientale (Hasaqa e Dayr al-Zur, questo è esattamente ciò che le potenze che sostengono l’opposizione vogliono per isolare il regime siriano, considerato una profondità strategica dell’espansione sciita (Iraq e Iran) (…)”


In un altro paragrafo si segnala che il governo di Assad continuerà a mantenere il controllo dei punti strategici del territorio e pertanto, si raccomanda la creazione di una zona di sicurezza a ridosso del confine siro-iracheno, per continuare la “guerra per procura” e mantenere un elevato livello di tensione. Quello che emerge dai documenti dell’intelligence americana è proprio la scarsa volontà di contrastare lo Stato Islamico, perché come Al Qaida in passato, agitare lo spauracchio dei terroristi pronti a colpire in ogni angolo del pianeta è utile per consolidare le proprie posizioni di potere. D’altronde chi ha liberato nel 2007 da Camp Bucca, il sedicente califfo Al Baghdadi? Continuano a mentirci.


qui trovate il documento declassificato

Jean Monnet, il demiurgo dell’Europa tecnocratica (con tutti i difetti)

Il 9 maggio 1950, l’allora ministro degli Esteri francese Robert Schumann, pronunciò il famoso discorso dove auspicava la creazione di un’istituzione europea per il controllo della produzione del carbone e dell’acciaio. Il giorno della “dichiarazione di Schuman” è considerato come il primo atto di quel processo di integrazione europeo.
Molti commentatori si sono lamentati del fatto che il 9 maggio non sia stato adeguatamente celebrato e che la festa dell’Europa non è avvertita come tale. Ma quelli che brontolano dovrebbero porsi una domanda: perché gli europei si dovrebbero appassionare a qualcosa che avvertono come estraneo?
L’ideale unitario non può certo incarnarsi nei volti anonimi dei funzionari dei palazzi di Bruxelles o nei conciliaboli dei lobbisti che decidono la vita di milioni di persone. Ci sono idee meravigliose che possono trasformarsi in veleno nel momento in cui diventano azioni concrete. L’Europa come oggi la conosciamo ha un grande difetto d’origine, quello di essersi realizzata inseguendo un’utopia tecnocratica. La burocrazia asettica di Bruxelles produce solo una mole indefinita di atti e dichiarazioni, la politica è relegata sullo sfondo e totalmente subalterna ai processi decisionali.
L’attuale forma istituzionale del vecchio continente venne plasmata più di mezzo secolo fa, da ex commerciante di cognac, diventato poi il più potente “homme d’influence” europeo, il francese Jean Monnet. Dalle sue intuizioni nacquero la Ceca (Comunità europea per il carbone e per l’acciaio), la Ced (Comunità europea di difesa), il Mercato comune, il Mercato unico, l’euro e il trattato di Schengen.
Nelle parole di Pascal Lamy, ex commissario europeo e direttore del Wto, “Sin dagli inizi l’Europa è stata costruita secondo (la filosofia tecnocratica di) Saint Simon, era questo il metodo di Monnet: il popolo non è pronto a sostenere l’integrazione, pertanto è necessario andare avanti senza parlare troppo di quanto si sta facendo”.
Monnet aveva le idee chiare e voleva evitare ad ogni modo che si ripetesse un conflitto come la seconda guerra mondiale: “Non ci sarà pace in Europa se gli stati saranno ricostituiti sulla base della sovranità nazionale”, scrisse nelle sue memorie. “Non stiamo formando una coalizione di stati, stiamo unendo persone”. Tuttavia questo nobile proposito, cela una sottile sfrontatezza perché Monnet ha fatto di tutto per diluire il conflitto politico, disegnando una struttura istituzionale dove al centro ci sono dei rigidi meccanismi economici, supportati da astratte teorie funzionaliste. Monnet ha consacrato trent’anni a realizzare un agglomerato economico che fosse il preludio di una futura unità politica
Il barone Robert Rothschild, uno che di potere economico se ne intendeva, disse che “Monnet non è né un politico né un pubblico ufficiale, ma una categoria a parte”. Monnet non fece mai parte di governi eletti, ma come scrive Duchêne, “veniva giudicato in possesso di un potere occulto, cospiratorio, misterioso, quello del tecnocrate”.
Egli fu decisivo anche nella messa a punto del piano Marshall e nel 1951 sarà reclutato dalla Nato nella commissione che si occuperà della gestione delle risorse.
L’idea concreta su cui poggia l’Unione Europea, la graduale perdita di sovranità nazionale a favore di un super organismo che avrebbe garantito libero scambio e sicurezza ai paesi membri, è l’espressione profonda della mentalità del francese. Non a caso in Europa assistiamo all’accentramento dei poteri e alla perdita di spazi di rappresentanza.
Jean Monnet era il tipico esempio del potente burocrate che diffidava dei politici. La politica democratica è caotica e divisiva, e costellata da compromessi. Monnet detestava tutto ciò. Era ossessionato dall’ideale di unità. E voleva che le cose venissero fatte senza dover passare per gli intrallazzi della politica. Il risultato di questo metodo è che adesso intrighi e manovre le fanno i lobbisti senza render conto a nessuno.
Monnet e gli altri tecnocrati europei non erano esattamente contrari alla democrazia, ma spesso, nel loro zelo di unificare le diverse nazioni d’Europa, sembravano trascurarla. Gli eurocrati sapevano cosa fosse meglio per i cittadini d’Europa, e sapevano cosa occorresse fare. Troppo dibattito pubblico o troppe interferenze da parte dei cittadini e dei loro rappresentanti politici avrebbero solo rallentato le cose. È un atteggiamento attento anche alla formazione di un’élite efficiente ma, laddove si spengono le passioni e si omologa il pensiero politico, tutto diluisce nella grigia pratica amministrativa, che pensa di affrontare dei problemi complessi con il piglio del ragioniere. È a questo atteggiamento che dobbiamo il lessico tipico di Bruxelles, fatto di decisioni irreversibili presentati come dogmi indiscutibili. Non disturbate i visionari, i figliocci di Monnet, loro sanno cosa fare e un’altra Europa non esiste.
Monnet ha impostato il processo d’integrazione europea su due principi: tecnocrazia ed elitismo. Centrale nel progetto del grand commis è l’idea di un’autorità superiore, la Commissione è un esempio, secondo una fedeltà assoluta, feticista nel principio di sovranazionalità. Tecnici ed esperti non eletti, devono essere coinvolti nel processo decisionale e infatti l’autonomia del politico è ridotta in Europa. A chi gli chiese se il suo ruolo fosse quello di “fondatore” dell’Europa, Monnet rispose di no: “Sono un broker”. Un piazzista che ha scritto nelle sue memorie: “Vogliamo creare un superstato senza che la gente se ne accorga”. Più chiaro di così.

alcune considerazioni sul reddito di cittadinanza

La proposta di legge del Movimento Cinque Stelle sul “reddito di cittadinanza” prevede all’articolo 3 comma 1, che “il reddito di cittadinanza garantisce al beneficiario, qualora unico componente di nucleo familiare, il raggiungimento anche tramite integrazione, di un reddito annuo netto, calcolato secondo l’indicatore ufficiale di povertà monetaria dell’Unione Europea, pari ai 6/10 del reddito mediano equivalente familiare, quantificato per l’anno 2014 in euro 9.360 annui e in euro 780 mensili”. Sono inoltre previste alcune integrazioni se il nucleo familiare è più ampio.


Il primo aspetto positivo consiste nella garanzia estesa a tutti i disoccupati, comprese alcune categorie come gli autonomi che oggi quando perdono il lavoro non hanno nulla. Il beneficiario dovrà fornire disponibilità immediata al lavoro presso i centri per l’impiego del territorio dove risiede, che dovranno attivare un percorso di formazione e inserimento nel lavoro. Nel testo c’è anche un riferimento alla realizzazione di attività utili alla collettività da svolgere presso il Comune di residenza e sono genericamente definiti gli obblighi in capo alle strutture per l’impiego che dovranno cooperare con gli altri enti pubblici in materia di formazione e inserimento lavorativo. Il beneficiario ha alcuni obblighi, pena la perdita del reddito: deve sottoporsi al colloquio di orientamento, accettare espressamente di essere avviato a un progetto individuale di inserimento o reinserimento nel mondo del lavoro e se rifiuta tre proposte di lavoro, o recede due volte nell’anno solare senza giusta causa oppure, se il responsabile del centro per l’impiego, accerta che il beneficiario abbia sostenuto più di tre colloqui di selezione con palese volontà di ottenere un esito negativo.


La proposta del Movimento Cinque Stelle va sostenuta anche se contiene alcune lacune che possono provocare rischi enormi. In Italia l’efficienza dei centri per l’impiego è scarsa, disomogenea rispetto ai territori e lo stesso discorso vale per le agenzie di lavoro private che in alcune zone d’Italia, come al Sud, sono gestite in modo truffaldino. Un esempio tipico è rappresentato da quelle che forniscono sistematicamente gli operatori sanitari, gli OSS, ormai “prodotti” come polli d’allevamento da una pletora di inutili enti di formazione, buoni solo a drenare soldi pubblici. Strutture sterili sulle quali si dovrebbe intervenire pesantemente. C’è un altro rischio che riguarda un fenomeno pericoloso che si è concretizzato in Germania dopo la riforma dei sussidi sociali avviata nel 2002 conosciuta con “Piano Hartz”. Senza addentrarci in dettagli tecnici, con l’Hartz IV, ovvero l’ultima modifica legislativa, si è concretizzato un problema serio: i disoccupati titolari di sussidio diventano ostaggio dei soprusi delle agenzie e dei datori di lavoro e sono spesso costretti a condizioni degradanti pur di non perdere il sussidio, come accettare di lavorare anche un solo giorno, perché anche quella tecnicamente è una proposta di lavoro.


L’insidia maggiore sta proprio nell’articolo 12, comma 1, paragrafo c, (“rifiuta, nell’arco di tempo riferito al periodo di disoccupazione, più di tre proposte di impiego ritenute congrue ai sensi del comma 2 del presente articolo, ottenute grazie ai colloqui avvenuti tramite il centro per l’impiego o le strutture preposte di cui agli articoli 5 e 10”)Il concetto di “congruo” andrebbe definito meglio, proprio per evitare il rischio di abusi, magari scartando tutte quelle proposte di lavoro che richiedono un impegno al di sotto di un certo limite temporale. Il disegno di legge sul reddito di cittadinanza è interessante e va decisamente sostenuto perché sposta l’attenzione sulla necessità di considerare il reddito come un elemento di inclusione all’interno della società, mentre la mancanza del medesimo diventa fattore di esclusione. Grillo più volte nelle sue dichiarazioni ha posto l’accento sulla differenza tra “posto di lavoro” e “posto di reddito” e sono in tanti a non cogliere la sottigliezza. Il reddito oggi assume lo stesso valore che aveva il possesso della terra dei contadini nei secoli passati, chi non l’aveva era spacciato e costretto a sottostare in una condizione di miseria. Le vergognose proposte di lavoro con salari irrisori sono anche la conseguenza della mancanza di un reddito minimo di sostentamento garantito a tutti che non costringa una persona ad accettare ogni condizione di lavorativa. Questa iniziativa ribalta lo schema reddito/lavoro, ovvero ti garantisco un reddito dignitoso, affinché tu possa cercarti un lavoro.

La repubblica dei ceti ministeriali

Il potere è spesso qualcosa di evocato, nominato come un’entità astratta che vive “altrove” oppure all’opposto, qualcosa di identificabile con il volto e il corpo dei potenti. Sono due interpretazioni contrapposte di una sola realtà: potere visibile e potere remoto sono due luoghi con confini non sempre definitivi.
La condizione di degrado politico ed economico dell’Italia, fa interrogare sulla responsabilità del potere, visto che da da anni assistiamo all’incapacità di organizzarlo stabilmente. La retorica linguistica europea utilizza l’espressione “sovranità condivisa”, significa che non siamo totalmente padroni in casa nostra (semmai lo fossimo stati) e il governo deve sempre confrontarsi con poteri extranazionali: quello dei palazzi di Bruxelles o quelli assai più potenti dei centri finanziari, i famigerati “mercati”. Tralasciando per adesso, la dialettica problematica tra poteri nazionali e internazionali, resta l’interrogativo su chi oggi realmente comanda il Belpaese.
Individuare tutto il potere nel parlamento, nei politici con tutto l’armamentario retorico della casta da colpire e abbattere, significa allinearsi all’idea dell’italiano medio che considera ancora il singolo parlamentare come un “potente”. Invece, è nota la ridotta influenza dei parlamentari nel processo legislativo, segnata dal ricorso continuo alla decretazione d’urgenza. Più della metà delle leggi viene fatta con decreto, laddove per dettato costituzionale dovrebbe essere uno strumento eccezionale. Il motivo di questa scelta va individuato nella precarietà delle alleanze politiche che sorreggono il governo costretto quasi sempre a puntare la pistola sui deputati della maggioranza.

A questo si associa il terrore del voto che per molti parlamentari significherebbe restare fuori dai giochi. Se il parlamento conta poco, i partiti hanno ancora potere? Si, soprattutto nelle realtà locali, il famoso “territorio” di cui tutti blaterano. Le nomine nelle Asl, nei consorzi, nelle fondazioni bancarie e nella pletora innumerevole di società controllate, sono ancora decise dai dirigenti di quelle entità sempre più fumose che sono i partiti. L’ultimo decennio è anche la storia dell’estensione delle responsabilità regionali e di conseguenza della spesa, secondo un meccanismo autogestito che ha arricchito e garantito la sopravvivenza a ceti politici e professionali, non sempre capaci ed efficienti.
In Italia, la Banca centrale europea di Draghi svolge lo stesso ruolo che ha nel pensiero aristotelico il motore immobile, causa ultima del divenire dell’universo. La Bce piaccia o meno, è quella che controlla l’erogazione di denaro che contribuisce al potere dello Stato. Attraverso la Bce, un’Italia politicamente indebolita e quindi facile a subire influenze esterne, si confronta con le grandi capitali, Washington e Berlino su tutte.
Nell’epoca maledetta del dominio dei mercati finanziari, se sei amministratore di un hedge fund, le parole che determinano le tue decisioni sull’Italia vengono da Draghi e non da Matteo Renzi. In questo strano perimetro del potere ci sono anche il Quirinale e la Banca d’Italia, ma c’è un ceto potente di cui poco si parla ed è quello dei grandi burocrati dei ministeri.
La forza dei ministeri si incrocia con il nuovo potere dei magistrati. Non si tratta di offrire una narrazione complottistica, ma di rilevare come in un paese dove la politica non ha più spina dorsale per manifesta incapacità culturale, emergano poteri più solidi e uniti. Quella che una volta era la repubblica dei partiti si sta trasformando nelle repubblica dei pretoriani degli uffici ministeriali. L’attenzione non va concentrata sulle figure che occupano lo spazio mediatico, ma sulla macchina statale dove consiglieri, avvocati e giuristi di varia natura fanno il bello e il cattivo tempo.Tanto per essere chiari gente come Daniele Franco, capo della RGS (Ragioneria generale dello stato) ha un potere enorme che il Presidente del Consiglio si sogna. Dagli uffici del Ministero dell’Economia e delle Finanze si irradia un potere tecnico spaventoso, celato dietro la dizione burocratica di “certificazione”. Da qui si può rinviare nel tempo o sabotare ogni iniziativa politica.
Molti si affannano a descrivere i retroscena del gruppo Bilderberg o del Forum di Davos, ma si dimenticano del ragioniere Franco e dei suoi collaboratori che non vanno da nessuna parte ma governano l’epoca del contenimento della spesa. Decreti ministeriali, regolamenti, decreti applicativi e provvedimenti vari, sono parte di un processo di complicazione normativa che assegna un potere smisurato alle burocrazie dello Stato. Una politica del rinvio che porta ambiti rilevanti dalle strutture politiche alle amministrazioni centrali statali.

L’Italia in declino è in parte demolita anche da questo ceto burocratico, come il gigante Titios che, secondo il mito, giace nell’Acheronte divorato dai rapaci. Il poeta romano Lucrezio commentava con macabro sarcasmo che difficilmente potrebbero trovare molto da frugare nel suo corpo per il resto dell’eternità. Prima o poi del cadavere non resterà nulla.

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