demagogia è il vocabolo usato dai democratici, quando la democrazia li spaventa (Nicolás Gómez Dávila)

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Categoria: idee

Gli accelerazionisti: chi sono, cosa vogliono e perché vanno presi sul serio

Negli anni Sessanta la parola “accelerazionista” si riferiva a un gruppo di rivoluzionari che voleva trasformare la mentalità con la quale la società approcciava alla tecnologia. A ispirarli, un romanzo di fantascienza, Lord of Light di Roger Zelazny, pubblicato nel 1967.

Molti anni dopo a riprendere quel termine, sarà Benjamin Noys analizzando le teorie eccentriche di Nick Land, filosofo e animatore del CCRU, Cybernetic Culture Reserach Unit che a partire dal 1995 si riuniva all’Università di Warwick in Inghilterra. Il gruppo informale si occupava soprattutto di intelligenza artificiale e dell’impatto dominante della tecnica sugli individui. I resoconti delle riunioni e delle conferenze del CCRU sembrano usciti da un romanzo: musica elettronica, proiezioni, anfetamine in un clima poco accademico. Quell’esperienza durerà qualche anno tra confronti dialettici e rotture insanabili, ma quelle idee non sono scomparse, hanno trovato un terreno fertile tra i ceti dell’economia digitale e gruppi disparati come nuovi reazionari e utopisti rivoluzionari.

Difficile fare una genesi filosofica dell’accelerazionismo, più semplice è partire dalla figura di Nick Land e dalla sua rielaborazione del pensiero dei francesi Lyotard, Guattari e Deleuze. Questi avevano individuato l’irreversibilità del processo storico di accelerazione della modernità capitalistica e l’impossibilità di cambiare con lo sguardo rivolto indietro a un’idealistica società pre-industriale. Sulla scia di questo ragionamento, Land vuole sganciare ancora di più il capitalismo dalle briglie della politica per sprigionare tutto il potenziale tecnologico e poco importa se il rischio è quello di un collasso e di esperimenti sociali pericolosi.

Land considera il capitalismo come qualcosa in continua espansione rivoluzionaria, priva di qualsiasi contenuto morale o ideologico che non riconosce altro obiettivo se non la propria emancipazione. Con le sue crisi cicliche, il capitalismo definisce un disordine controllato, dove tutto è sacrificabile alla sua volontà oscura. Il futuro è una fusione uomo-digitale e automazione, tutto il resto conta poco. E ancora, l’uomo deve smetterla di controllare i processi economici connessi all’innovazione tecnologica.

Rileggendo alcune affermazioni di Nietzsche decontestualizzate, Land spiega come l’uomo sia un animale da superare e proprio il movimento spiraliforme del capitalismo può agire in tal senso passando per una transizione fatta di automazione e robot. È da qui nasce l’idea di intensificare i meccanismi di conflitto scatenati dal capitalismo per liberarsi dalle componenti “troppo umane”. Sembra uno dei racconti di Lovecraft sui miti di Cthulhu, divinità-mostro immaginaria, una creatura che dorme nelle profondità degli abissi in attesa di essere svegliata per soggiogare il mondo. Forse il nuovo Cthulhu è il grande sistema nervoso dell’intelligenza artificiale? Chissà…

Un altro concetto chiave dell’accelerazionismo definito da Land è quello di iperstizione: un elemento della cultura effettuale che si fa realtà, attraverso una massa immaginaria funzionante come potenzialità che viaggia nel tempo. Definizione astrusa che cerca di spiegare come certe finzioni diventino concrete in un futuro immaginario, provate a pensare quello che è scritto nei libri di fantascienza, molte di quelle cose domani saranno realtà o ambiscono a diventarlo. Land considera il capitalismo un potente generatore di iperstizioni perché trasforma semplici operazioni economiche nella forza motrice del mondo. Allo stesso tempo spezza e poi ribadisce i propri limiti: è un sistema schizofrenico.

Il periodo all’Università di Warwick è stato un cocktal di nichilismo, marxismo cibernetico, numerologia, fantascienza e tante altre cose. Dopo la conclusione di quella esperienza, Nick Land si è trasferito a Shangai provando una forte ammirazione per quel sistema dove convivono autoritarismo e corsa produttiva verso le innovazioni. Con il passare del tempo, indipendentemente dalla sua volontà, Land è diventato un riferimento per quell’ambiente reazionario che critica la democrazia. Con il saggio intitolato The Dark Enlightenment, il tono è decisamente critico verso la democrazia che Land considera incapace di governare molti processi perché è intrappolata nel breve periodo delle scadenze elettorali che la spingono verso timide politiche riformiste. Essa riduce e semplifica le decisioni difficili e rende il disastro sociale più accettabile nella misura in cui può attribuirlo ai propri avversari politici. La deliberazione democratica è lenta rispetto alla velocità del capitalismo e le innovazioni siccome distruggono vecchi stili di vita creandone nuovi, non possono attendere ulteriori correzioni giuridiche o morali ma necessitano di una politica decisionista tout court.

Negli Stati Uniti una parte minoritaria dell’alternative right si è lasciata sedurre dalle tesi di Land e attinge confusamente a molte idee di questo strano contenitore ideologico, uno su tutti, Moldburg (pseudonimo di Curtis Yarvin) che considera: “la modernità ingegneristica e la grande eredità storica del pensiero pre-democratico antico, classico e vittoriano”. Insomma si mescolano forme di anarchismo capitalista e la convinzione di un futuro di città stato sul modello di Singapore o Hong Kong. La rottura del discorso egualitario farebbe spazio a politiche più realistiche che mettono in evidenza le contraddizioni del progressismo e del capitalismo socialdemocratico. Tra i ricchi sostenitori di alcune di queste tesi c’è Peter Thiel, il fondatore di paypal. Thiel è impegnato insieme a Curtis Yarvin nel Seasteading Institute, un’organizzazione fondata da Patri Friedman (nipote del famoso economista Milton), impegnata nella progettazione di città permanenti in acque internazionali, fuori dalla giurisdizione di governi democratici.

L’accelerazionismo ha fatto presa pure sugli ambienti di Sinistra cercando di definire un’ideologia più spendibile e pervasa di ottimismo, rispetto all’orizzonte tenebroso di Land. Quest’altro orientamento è rappresentato da Nick Srnircek e Alex Williams, autori del Manifesto accelerazionista e del più recente libro Inventare il Futuro. L’antesignano è stato il teorico Mark Fisher morto nel 2017 autore nel 2009 di Realismo capitalista e di una serie di articoli sul suo blog K Punk.

La critica di Fisher non perdona nemmeno la Sinistra, colpevole di aver ignorato le potenzialità della tecnologia e di non essere in grado di offrire risposte ai nuovi problemi sociali, se non ricorrendo a vecchie formule. Srnicek e Williams, definiscono un mondo in cui la tecnologia e l’automazione siano in grado di liberare l’uomo dalle gabbie del turbocapitalismo che ha creato un mondo del lavoro nevrotico. L’accelerazione dovrebbe guardare a una prospettiva più utopistica puntando ad intensificare l’automazione del lavoro lasciando che siano i robot a occuparsi dei lavori più duri e alienanti così da arrivare gradualmente a una società del post-lavoro, in cui si sia liberi di scegliere solo quelli più adatti, accompagnando questa grande trasformazione con il ricorso al reddito universale di base. Superamento del capitalismo o una versione più umana? L’interrogativo resta sospeso. Snircek e William non si perdono in vaniloqui, criticano aspramente tutti i tentativi di sanare localmente i problemi creati dal sistema capitalistico e si sforzano il più possibile a definire un’attuazione concreta delle loro idee.

Tutti questi teorici sono convinti che il processo di distruzione sia positivo e invece di cadere nella fossa oscurantista, apocalittica di Land, vorrebbero traghettare l’accelerazionismo verso obiettivi più rassicuranti, verso un progetto di sana collaborazione tra uomo e macchine. Mentre Land è convinto che si debba procedere senza troppe preoccupazioni assumendo ogni rischio, Snircek e Williams sognano di condurre il processo di liberatorio delle macchine dal lavoro verso una maggiore giustizia sociale. In mezzo tutti questi contrasti, esiste un equilibrio, una forma di conciliazione? No a nostro avviso. L’idea di fondo che sottostà a tutte le versioni, è che la compenetrazione tra uomo e tecnologia, sia una forma di aggiornamento dell’uomo inteso come qualcosa di difettoso da perfezionare.

Jean Braudillard a proposito di questi fenomeni già osservati negli anni Ottanta commentava con sarcasmo: “La cosa triste, a proposito dell’intelligenza artificiale, è che le manca l’artificio e quindi l’intelligenza”.

Siamo davvero disposti in nome della sicurezza e di un po’ di benessere consumistico ad affidare totalmente il controllo della nostra vita ad algoritmi e dati che catalogano nelle memorie cloud i nostri gusti, le nostre idee e i luoghi che frequentiamo? Stiamo andando in quella direzione senza accorgerne e saranno sempre più pochi coloro in grado di opporre almeno forme di resistenza interiore. I nostri desideri non possono coincidere totalmente con i padroni del silicio e il futuro sarà pieno di lotte per il controllo dei mezzi digitali e di tutto quello che c’è intorno. É la nuova fase del capitalismo della sorveglianza. Per questa ragione non possiamo liquidare queste teorie come le fantasie di qualche ricco smanettone della Silicon Valley. Noi crediamo ancora negli uomini, nei popoli, nelle identità che si incontrano e si scontrano, sappiamo che morte, tragedia, gioia, bellezza e felicità sono irrevocabili e non si possono calcolare con qualche formula matematica.

Il Populismo come riappropriazione del Politico

Nel lessico e nell’immaginario politico da qualche anno è ricomparso il populismo. Parola non nuova, fenomeno e sentimento che si manifestano in momenti di forte crisi o di passaggio verso qualcosa di nuovo. Illusione, minaccia, deriva, tentazione autoritaria, sono alcune delle espressioni che ricorrono maggiormente nel discorso pubblico dominante quando si parla di populismo. La descrizione del piccolo diavolo tentatore che stimola i cattivi comportamenti dei ceti popolari, serve alle classi dirigenti per stigmatizzare chi rimprovera loro di aver confiscato il potere utilizzandolo senza freni. Si vorrebbe gettare il populismo nella pattumiera della storia, definirlo come un corpo estraneo per evitare di fare i conti con il sostanziale fallimento della democrazia rappresentativa liberale, ridotta a semplice sequenza procedurale che si adatta per inerzia all’interesse economico-finanziario dominante.

A partire dallo schianto finanziario del 2008–2009, il forte desiderio di contestazione del sistema di rappresentanza è aumentato sempre di più. E quando il popolo ha espresso un parere deviando dal percorso definitivo e gradito dalle classi dirigenti, è iniziato lo stato d’agitazione.

Messa in tutte le salse, la parola populismo perde ogni significato, sfugge alla diagnosi e alla corretta definizione del fenomeno. Coloro che accusano i partiti populisti di genericità o demagogia, sono i primi a comportarsi allo stesso modo perché utilizzano il populismo come una parola passepartout che apre le porte a qualsiasi interpretazione, il più delle volte peggiorativa. Sembra di assistere ad un’attività tesa a scoraggiare ogni teoria del populismo, quindi è più semplice oltraggiarlo che studiare la natura del fenomeno.

Roger Eatwell e Matthew Goodwin nel saggio intitolato “National Populism — The Revolt Against Liberal Democracy, rimproverano questo atteggiamento: “molti di noi hanno troppa fretta nel condannare più che nel riflettere rimanendo aggrappati agli stereotipi che corrispondono al loro punto di vista più che affrontare le rivendicazioni basandosi su prove concrete”.

Il termine populismo per le classi dirigenti è sinonimo di patologia, siccome se ne dà sempre una definizione poco chiara, si ricorre a termini medici come “cura” o “rimedio” per inculcare sempre qualcosa di negativo, suscitare repulsione morale e alzare il muro del recinto dove segregare i cattivi e proteggere i bravi cittadini. Concretamente, si è sviluppato una specie di cordone sanitario che permettesse di separare nelle menti e ai seggi elettorali, i partiti “perbene” e quelli “infrequentabili”. Una tattica “morale” che ha fatto cilecca. Il populismo ha spezzato il recinto e ha costretto gli altri a mettere in discussione molte certezze.

Nella maggior parte dei paesi occidentali, ha prevalso la concezione liberale della democrazia, dove la sovranità parlamentare si sovrappone e sostituisce a quella popolare. La società liberale è aggregativa nel senso che vede il campo politico come un spazio di interessi per lo più economici, dove si presume che gli individui e i gruppi cerchino solo di massimizzare i propri vantaggi con scarse o del tutto assenti, preoccupazioni per il bene comunitario.

Le attuali istituzioni allontanano e dissuadono il maggior numero di persone dal partecipare agli affari pubblici, il motivo risiede nella decisione di sostituire alla decisione popolare la gestione delle cose, la sovranità dei mercati finanziari, l’autorità degli esperti e il governo dei giudici. Così il ceto politico assume una fisionomia oligarchica e non è più responsabile davanti alle comunità, ma solo agli interessi privati che lo sostengono.

La democrazia implica normalmente il primato del politico sull’economico, non si può diluire nella semplice procedura e soprattutto è migliore quando conserva una caratteristica agonistica: il dibattito deve esserci, lo scontro non deve mancare, poi si può discutere sulle modalità, ma non si può chiedere l’estinzione del conflitto alla ricerca di un consenso sempre più largo che riduce le differenze tra i partiti politici, a dettagli programmatici. I fenomeni di disaffezione anche verso il Politico e forme di diserzione civica, si sviluppano a partire dal riconoscimento di questa destrutturazione del discorso politico, della formulazione di programmi sempre più generici e poco ambiziosi.

Il populismo non ha una natura anti-democratica, al contrario, esprime la necessità di incidere di più sulle scelte, di riannodare il filo con la comunità, chiede una ripresa del controllo politico nei settori decisivi. Il primo errore da non commettere, è cercarvi un’ideologia o identificarlo con una dottrina precisa. La diversità degli uomini politici e dei partiti che sono stati definiti populisti e la polisemia del termine, dimostrano come esso possa combinarsi con idee molto diverse. Alla base di tutto c’è l’esaltazione di forme di autonomia contro una democrazia fasulla e svuotata da una classe apolide che disegna una società ridotta a poltiglia. Ecco spiegato la capacità di ampliare il consenso oltre le categorie destra/sinistra.

Nessuno può dirsi fuori dalla storia o dall’identità cui appartiene. Una citazione di Carl Schmitt, aiuta a comprendere la crisi in corso: “la nozione di democrazia è il popolo e non l’umanità. Se la democrazia deve restare una forma politica, ci sono solo democrazie del popolo e non una democrazia dell’umanità”. Classi dirigenti sempre più autoreferenziali sognano di sbarazzarsi del demos, ma non hanno il coraggio di dirlo apertamente, si limitano a conservare una serie di forme apparenti per far credere che esista ancora qualche possibilità di decidere e incidere.

Il politologo Marco Tarchi propone di definire il populismo “come una specifica forma mentis, connessa a una visione dell’ordine sociale alla cui base sta la credenza nelle virtù innate del popolo, di cui rivendica il primato come fonte di legittimazione dell’azione politica e di governo”

In questa definizione si può individuare anche un difetto della mentalità populista, il riconoscimento spesso ingenuo di una innata bontà popolare. Tuttavia alla necessità di instaurare una relazione più diretta tra popolo e governanti, senza troppe intermediazioni, si possono associare altri elementi: il riferimento al popolo come un aggregato omogeneo depositario di valori permanenti; la volontà di restituirgli più potere, una visione molto idealizzata della comunità nazionale.

Il popolo vede il “Politico”, inteso come categoria soggettiva, sommerso dall’economia, dal giuridicismo procedurale e dall’espertocrazia e dalla morale ed esige, un ritorno del Politico nel suo significato migliore, contro le vecchie idee di Saint-Simon che voleva sostituire il governo degli uomini con l’amministrazione delle cose. È falso dire che il populismo esprime un disgusto o un rifiuto della politica. In realtà, esso manifesta un’ostilità verso la classe politica cui si rimprovera di essere poco presente nelle questioni decisive. Interrogarsi sul populismo costringe tutti a riflettere su ciò che intendeva Arthur Moeller van den Bruck negli anni Trenta quando scrisse: “La democrazia è la partecipazione di un popolo al suo destino”.

 

Aspettando l’Europa

Ogni grande idea politica attinge alle sorgenti di fede e si fonda su una intuizione del mondo che precede ed eccede ogni fondazione razionale. La qualità del ceto politico si misura nella dedizione con cui serve una causa, dalla lungimiranza e da una visione politica in grado di misurarsi con l’orizzonte del possibile. L’Europa può diventare un grande polo di un ordine mondiale basato su nuovi equilibri, lo è in potenza, purtroppo non lo è ancora nella sostanza. Qualcosa si intravede ma non basta, quell’aggregato chiamato Unione Europea non sta mostrando il meglio di sé. Sicuramente manca la grande politica e una mentalità ambiziosa capace di ragionare in termini di potenza. Il difetto sta nella narrazione offerta dalle élite europee poco abituate a un pensiero strategico completo, allucinate dall’idea di diluire ogni conflitto nella soluzione fisiologica del calcolo economico e convinte di riuscire prima o poi a raggiungere un equilibrio armonico. I più devastanti conflitti europei sono scoppiati come conseguenze dei tentativi di superare il pluralismo politico del continente. L’Unione Europea è ancora un territorio di scontro, attraversato da una cacofonia di interessi nazionali che a volte convergono e altre si contrappongono in un equilibrio sempre precario.

Semplicemente Drieu La Rochelle

Pronunci il nome e sai di toccare un nervo scoperto. Pierre Drieu la Rochelle; suona così bene, peccato che una superficialità diffusa lo abbia liquidato con un epitaffio: il fascista morto suicida.  
Ai paranoici di chi è sempre in cerca di malpensanti da fustigare e di eroi liberal da santificare, si consiglia di sbirciare il catalogo di Gallimard. Ci sono le opere complete nella Bibliothèque de la Pléiade, mai comparse nella versione italiana Einaudi-Gallimard, e poi romanzi, racconti, poesie, saggi. Insomma, neanche una virgola della produzione dell’indocile normanno è stata trascurata. Nel 1963 il regista Louis Malle lo consegna all’olimpo degli immortali girando il magistrale Le feu follet, tratto dal capolavoro di Drieu, in Italia disponibile con il titolo Fuoco Fatuo.

Tuttavia è opportuno evitare di trasformare questo autore in oggetto per tifoserie letterarie. Pierre Drieu la Rochelle, nato nel 1893 a Parigi in una famiglia piccolo borghese e nazionalista di antica fede napoleonica, è uno dei figli migliori della generazione perduta. È vissuto tra le due guerre: è stato ferito nella prima e si è tolto la vita sul finire della seconda, per l’esattezza il 15 marzo 1945, dopo aver ingerito una dose letale di Fenobarbital.
Tutto ciò che lo riguarda, come letterato e come uomo, è accaduto durante quella pace “fatua” andata in scena a Parigi tra le due guerre. Amico di Louis Aragon e André Malraux, dei dadaisti e dei surrealisti, dandy delle serate alla moda, marito fallimentare, amante di donne belle e ricche, Drieu in fondo è passato nel secolo breve senza legarsi ad alcuno, fedele alla sua spietata coerenza. 

Coerenza nello stile, innanzitutto. Nei suoi romanzi – tra i più importanti si ricordino Gilles, I Cani di pagliaLe memorie di Dirk Raspe e il già menzionato capolavoro, Fuoco fatuo – non si sa bene se per indole o per scelta, egli non sperimenta. Niente a che vedere con un altro irrequieto, Céline: il francese è per lui una bandiera di continuità con la storia e con il passato della patria adorata, servita stando dalla parte sbagliata perché in fondo quella giusta non c’è. Un periodare breve e schietto, punteggiatura immacolata, idioma pulito, intelligibile.

Non avrebbe potuto essere altrimenti. Sodale delle avanguardie nelle scorribande notturne questo biondo alto, elegante e attraente, aveva scelto di vivere e di morire per il suo paese e per l’Europa intera. Credeva che soltanto il fascismo avrebbe potuto arginare la mentalità americana in cui, veggente involontario, vedeva profilarsi l’imperialismo e la fine della civiltà del vecchio continente. Quindi, dove rifugiarsi? In un meditato nichilismo, in un anarchismo individualista che lo pone all’avanguardia – lui, che era conservatore – nella letteratura e nel pensiero a livello internazionale.
Spietatamente moderno, con La Rochelle si realizza l’identità tra arte e vita.

Pregi e difetti del populismo

Il populismo è tornato prepotentemente nel lessico politico e dei mass media, con toni dispregiativi. Presentato sempre come negativo, descritto come una via di mezzo tra demagogia e intolleranza anche se si tratta di un fenomeno mutevole difficile da classificare. Il suo riapparire è il segnale di un’insofferenza profonda e descriverlo con toni caricaturali o come una sindrome politica, segno di immaturità e arretratezza, non elimina la sostanza: esiste un ceto politico-economico autoreferenziale poco sintonizzato con la quotidianità dei cittadini comuni. Giudizi sprezzanti e tentativi di etichettatura di massa, provengono soprattutto da quelle élite progressiste convinte di stare sempre dalla parte giusta che indicano il perimetro entro il quale certe idee trovano spazio nella polis. Un recinto di legittimità, dove tutto ciò che sta al di fuori è solo segno di imbarbarimento. E se i Barbari sfondano il recinto? Si invocano le istituzioni e interventi repressivi, nel nome di una legittimità democratica generica e indefinita.

La crisi spiegata attraverso il Faust di Goethe

La crisi economica è oggetto di litigi infiniti e discussioni complicate dalla difficoltà di trovare un rimedio. Poi ci sono quelli convinti di avere la soluzione a portata di mano con qualche aggiustamento tecnico. Parole come moneta, debito pubblico, inflazione, deflazione, austerità scatenano una tempesta di opinioni, deduzioni e argomentazioni con il rischio di consumarsi nel linguaggio dell’ovvio. Su questo terreno si affollano accademici più o meno competenti, studiosi preparati e una folla di “dilettanti titolati” che non capiscono niente ma lo scrivono bene.

Nel salotto di Madame Pompadour la donna più potente a Parigi nel XVIII secolo, il medico del Re Luigi XV, discuteva della circolazione delle merci paragonandola a quella del sangue. Tra un pettegolezzo politico e le storie sui giganti della Patagonia, l’economia diventava una scienza raffinata ridotta a calcolo meccanico. Ed è proprio qui che sta l’inghippo, perché si continua a discettare sulla scienza economica dimenticandosi della mentalità dell’epoca in cui viviamo. In tal senso, il Faust di Goethe può aiutarci.

Clifford Douglas e la teoria del credito sociale

A sentire l’autorevole John Kenneth Galbraith, le sue teorie economiche erano degne di suscitare interesse solo “in luoghi remoti come praterie canadesi”, ma le tesi di Clifford Hugh Douglas, fondatore del movimento del Credito Sociale, non possono essere liquidate con una sbrigativa stroncatura accademica. Personalità lineare, uomo creativo e pratico, Douglas nacque in Inghilterra nel 1879 e morì nel 1952. Dopo aver studiato all’Università di Cambridge, fu ingegnere specializzato nell’analisi dei costi industriali del settore ferroviario. Ricoprì diversi incarichi e lo chiamavano “il Maggiore” per via del grado militare nei Royal Flying Corps durante la prima guerra mondiale e successivamente nella riserva della RAF. Il suo interesse per lo studio dei meccanismi economici, iniziò nel 1918 quando sul numero di dicembre della English Review apparve un articolo intitolato “The Delusion of Super-production”. Mentre stava riorganizzando il lavoro del Royal Aircraft Institut, durante il periodo bellico, Douglas notò che il costo totale settimanale di merci prodotte era maggiore delle somme versate ai lavoratori sommando salari, stipendi e dividendi.

Questo sembrava contraddire la teoria economica classica, secondo la quale, tutti i costi sono distribuiti simultaneamente come potere d’acquisto. Il Maggiore raccolse dati da più di un centinaio di grandi imprese britanniche, e rilevò che in ogni caso, le somme versate a titolo di stipendi, salari e dividendi erano sempre state inferiori ai costi totali dei beni e servizi prodotti ogni settimana: ciò significava che i lavoratori non erano stati pagati abbastanza per poter acquistare ciò che avevano realizzato. Una constatazione apparentemente banale che lo spinse a studiare il rapporto tra produzione e funzione monetaria.

Douglas era un sostenitore della libertà individuale che vedeva minacciata da tutte le forme di monopolio e in particolare da quello del credito. Nel corso degli studi, decise di fondare il movimento politico noto come “Social Credit”. Dal mese di giugno del 1919, il periodico The New Age diretto da Alfred Richard Orage, che già ospitava gli scritti di Ezra Pound, pubblicò a puntate quello che sarebbe stato il primo libro di Douglas: Economic Democracy. Nel 1920 per tramite di Orage, conobbe il poeta americano che più volte gli renderà omaggio nei suoi Cantos. In Carta da Visita Pound ricorderà: «Quel movimento (di Douglas ndr) fu la porta dove entrai nella curiosità economica».

La grande depressione del 1929 diede a Douglas un’ampia notorietà, confermando la sua diagnosi sul principale difetto del modello economico classico: l’equilibro sempre precario tra abbondanza e povertà. In quel periodo si recò in Giappone, Australia e Nuova Zelanda presso i parlamenti e scrisse una relazione per la commissione finanze del governo britannico. Nel 1933 costituì sotto la sua presidenza, il Social Credit Secretariat, un centro studi che offriva consulenze. Nel 1935, nella regione canadese dell’Alberta, un movimento politico ispirato dalle sue teorie economiche vinse le elezioni ma fu continuamente ostacolato dal governo federale e dalla Corte Suprema.

Nel 1938 fu fondato il periodico The Social Crediter.

Il nuovo puritanesimo: il genere come “costruzione” culturale

Nel dicembre del 2014, il filosofo ateista Michel Onfray, idolo della sinistra progressista, è caduto in disgrazia per avere espresso giudizi negativi sulle teorie improntate alla negazione della differenza sessuale. In quel periodo in Francia sono stati distribuiti una serie di opuscoli nelle scuole, preparati dal ministero dell’Educazione, sul superamento degli stereotipi sessuali o presunti tali. Poi è stato il turno di Germania, Italia e altre nazioni europee. Con la scusa dell’educazione contro i pregiudizi, è partita da qualche anno un’attività di propaganda nelle scuole, dove la manipolazione è più semplice. All’epoca a Onfray, è bastato un semplice tweet, per attirare su di sé gli strali dei suoi sostenitori: “E se a scuola, al posto della teoria del genere e della programmazione informatica, si insegnasse a leggere scrivere, scrivere, far di conto, pensare?”

In quei giorni, la filosofa Bérénice Levet, pubblicava il libro “La theorie du genre, ou le monde reve des anges” (Grasset), anche lei aggredita dal battaglione dei benpensanti di una sinistra che ha smarrito il retaggio libertario per diventare l’avanguardia di un odioso puritanesimo. Successivamente, Onfray sulle pagine del Nouvel Observateur, riprendeva l’argomento, spiegando la lotta in corso “tra chi afferma che il corpo e la carne non esistono, che gli essere umani sono solo archivi culturali, che il modello originale dell’essere è l’angelo, il neutro, l’asessuato, la cera malleabile, l’argilla priva di sesso da plasmare sessualmente, e chi sa che l’incarnazione concreta è la verità dell’essere che viene al mondo. Il che non esclude la formattazione fallocratica, ma non le lascia l’onnipotenza”.

Il 25 aprile non è la mia festa

Il 25 aprile non è la mia festa. Io sto dalla parte sbagliata, con quelli che scelsero di non abbandonare i camerati della prima ora e di proseguire fino alla fine, consapevoli di andare verso una sconfitta sicura. La maggior parte di loro non lo fece in ossequio a una disciplina di apparato, ma per riscattarsi dal disonore sparso dai tanti voltagabbana. Uomini e donne che rifiutarono la codardia e decisero di rischiare, di non restarsene rintanati in casa in attesa che passasse la tempesta. Non si misero un fazzoletto al collo pochi giorni prima della disfatta per battere le mani ai vincitori.

Appartiene all’indole aristocratica combattere perché è giusto farlo, senza certezze, senza calcoli, solo per l’onore. Per questi ragazzi non provo una misurata compassione, ma una sincera ammirazione, un’identità di sentimenti. La lealtà sul campo di battaglia è più importante di ogni giudizio morale.

Le pecore pascolano sui cadaveri dei lupi, ma restano pecore. Rifiuto il vostro canone rispettoso di un’idea dogmatica della storia. Non mi importa della vostra dicotomia bugiarda del bene e del male, tra la beatitudine democratica e l’inferno dell’eresia. Non cerco accoglienza nella vostra polis, non mostro deferenza.

Laggiù nelle terre selvagge, gli eretici cantano in mezzo ai fuochi accesi per la notte. Ridono di tutto. L’onda sonora di quelle risate infrange il muro delle vostre certezze. Una sconfitta non muta un sentimento, la vostra collera per la nostra mancata conversione, si trasforma nella nostra gioia.

Io sto dalla parte del torto.

Clifford Douglas e la teoria del “credito sociale”

A sentire l’autorevole John Kenneth Galbraith, le sue teorie economiche erano degne di suscitare interesse solo “in luoghi remoti come praterie canadesi”, ma le tesi di Clifford Hugh Douglas, fondatore del movimento del Credito Sociale, non possono essere liquidate con una sbrigativa stroncatura accademica. Personalità lineare, uomo creativo e pratico, Douglas nacque in Inghilterra nel 1879 e morì nel 1952. Dopo aver studiato all’Università di Cambridge, fu ingegnere specializzato nell’analisi dei costi industriali del settore ferroviario. Ricoprì diversi incarichi e lo chiamavano “il Maggiore” per via del grado militare nei Royal Flying Corps durante la prima guerra mondiale e successivamente nella riserva della RAF. Il suo interesse per lo studio dei meccanismi economici, iniziò nel 1918 quando sul numero di dicembre della English Review apparve un articolo intitolato “The Delusion of Super-production”. Mentre stava riorganizzando il lavoro del Royal Aircraft Institut, durante il periodo bellico, Douglas notò che il costo totale settimanale di merci prodotte era maggiore delle somme versate ai lavoratori sommando salari, stipendi e dividendi.
Questo sembrava contraddire la teoria economica classica, secondo la quale, tutti i costi sono distribuiti simultaneamente come potere d’acquisto. Il Maggiore raccolse dati da più di un centinaio di grandi imprese britanniche, e rilevò che in ogni caso, le somme versate a titolo di stipendi, salari e dividendi erano sempre state inferiori ai costi totali dei beni e servizi prodotti ogni settimana: ciò significava che i lavoratori non erano stati pagati abbastanza per poter acquistare ciò che avevano realizzato. Una constatazione apparentemente banale che lo spinse a studiare il rapporto tra produzione e funzione monetaria.

Douglas era un sostenitore della libertà individuale che vedeva minacciata da tutte le forme di monopolio e in particolare da quello del credito. Nel corso degli studi, decise di fondare il movimento politico noto come “Social Credit”. Dal mese di giugno del 1919, il periodico The New Age diretto da Alfred Richard Orage, che già ospitava gli scritti di Ezra Pound, pubblicò a puntate quello che sarebbe stato il primo libro di Douglas: Economic Democracy. Nel 1920 per tramite di Orage, conobbe il poeta americano che più volte gli renderà omaggio nei suoi Cantos. In Carta da Visita Pound ricorderà: «Quel movimento (di Douglas ndr) fu la porta dove entrai nella curiosità economica».
La grande depressione del 1929 diede a Douglas un’ampia notorietà, confermando la sua diagnosi sul principale difetto del modello economico classico: l’equilibro sempre precario tra abbondanza e povertà. In quel periodo si recò in Giappone, Australia e Nuova Zelanda presso i parlamenti e scrisse una relazione per la commissione finanze del governo britannico. Nel 1933 costituì sotto la sua presidenza, il Social Credit Secretariat, un centro studi che offriva consulenze. Nel 1935, nella regione canadese dell’Alberta, un movimento politico ispirato dalle sue teorie economiche vinse le elezioni ma fu continuamente ostacolato dal governo federale e dalla Corte Suprema. Nel 1938 fu fondato il periodico The Social Crediter.

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