Il 25 aprile non è la mia festa. Io sto dalla parte sbagliata, con quelli che scelsero di non abbandonare i camerati della prima ora e di proseguire fino alla fine, consapevoli di andare verso una sconfitta sicura. La maggior parte di loro non lo fece in ossequio a una disciplina di apparato, ma per riscattarsi dal disonore sparso dai tanti voltagabbana. Uomini e donne che rifiutarono la codardia e decisero di rischiare, di non restarsene rintanati in casa in attesa che passasse la tempesta. Non si misero un fazzoletto al collo pochi giorni prima della disfatta per battere le mani ai vincitori.

Appartiene all’indole aristocratica combattere perché è giusto farlo, senza certezze, senza calcoli, solo per l’onore. Per questi ragazzi non provo una misurata compassione, ma una sincera ammirazione, un’identità di sentimenti. La lealtà sul campo di battaglia è più importante di ogni giudizio morale.

Le pecore pascolano sui cadaveri dei lupi, ma restano pecore. Rifiuto il vostro canone rispettoso di un’idea dogmatica della storia. Non mi importa della vostra dicotomia bugiarda del bene e del male, tra la beatitudine democratica e l’inferno dell’eresia. Non cerco accoglienza nella vostra polis, non mostro deferenza.

Laggiù nelle terre selvagge, gli eretici cantano in mezzo ai fuochi accesi per la notte. Ridono di tutto. L’onda sonora di quelle risate infrange il muro delle vostre certezze. Una sconfitta non muta un sentimento, la vostra collera per la nostra mancata conversione, si trasforma nella nostra gioia.

Io sto dalla parte del torto.