demagogia è il vocabolo usato dai democratici, quando la democrazia li spaventa (Nicolás Gómez Dávila)

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Tag: economia

La crisi spiegata attraverso il Faust di Goethe

La crisi economica è oggetto di litigi infiniti e discussioni complicate dalla difficoltà di trovare un rimedio. Poi ci sono quelli convinti di avere la soluzione a portata di mano con qualche aggiustamento tecnico. Parole come moneta, debito pubblico, inflazione, deflazione, austerità scatenano una tempesta di opinioni, deduzioni e argomentazioni con il rischio di consumarsi nel linguaggio dell’ovvio. Su questo terreno si affollano accademici più o meno competenti, studiosi preparati e una folla di “dilettanti titolati” che non capiscono niente ma lo scrivono bene.

Nel salotto di Madame Pompadour la donna più potente a Parigi nel XVIII secolo, il medico del Re Luigi XV, discuteva della circolazione delle merci paragonandola a quella del sangue. Tra un pettegolezzo politico e le storie sui giganti della Patagonia, l’economia diventava una scienza raffinata ridotta a calcolo meccanico. Ed è proprio qui che sta l’inghippo, perché si continua a discettare sulla scienza economica dimenticandosi della mentalità dell’epoca in cui viviamo. In tal senso, il Faust di Goethe può aiutarci.

Clifford Douglas e la teoria del credito sociale

A sentire l’autorevole John Kenneth Galbraith, le sue teorie economiche erano degne di suscitare interesse solo “in luoghi remoti come praterie canadesi”, ma le tesi di Clifford Hugh Douglas, fondatore del movimento del Credito Sociale, non possono essere liquidate con una sbrigativa stroncatura accademica. Personalità lineare, uomo creativo e pratico, Douglas nacque in Inghilterra nel 1879 e morì nel 1952. Dopo aver studiato all’Università di Cambridge, fu ingegnere specializzato nell’analisi dei costi industriali del settore ferroviario. Ricoprì diversi incarichi e lo chiamavano “il Maggiore” per via del grado militare nei Royal Flying Corps durante la prima guerra mondiale e successivamente nella riserva della RAF. Il suo interesse per lo studio dei meccanismi economici, iniziò nel 1918 quando sul numero di dicembre della English Review apparve un articolo intitolato “The Delusion of Super-production”. Mentre stava riorganizzando il lavoro del Royal Aircraft Institut, durante il periodo bellico, Douglas notò che il costo totale settimanale di merci prodotte era maggiore delle somme versate ai lavoratori sommando salari, stipendi e dividendi.

Questo sembrava contraddire la teoria economica classica, secondo la quale, tutti i costi sono distribuiti simultaneamente come potere d’acquisto. Il Maggiore raccolse dati da più di un centinaio di grandi imprese britanniche, e rilevò che in ogni caso, le somme versate a titolo di stipendi, salari e dividendi erano sempre state inferiori ai costi totali dei beni e servizi prodotti ogni settimana: ciò significava che i lavoratori non erano stati pagati abbastanza per poter acquistare ciò che avevano realizzato. Una constatazione apparentemente banale che lo spinse a studiare il rapporto tra produzione e funzione monetaria.

Douglas era un sostenitore della libertà individuale che vedeva minacciata da tutte le forme di monopolio e in particolare da quello del credito. Nel corso degli studi, decise di fondare il movimento politico noto come “Social Credit”. Dal mese di giugno del 1919, il periodico The New Age diretto da Alfred Richard Orage, che già ospitava gli scritti di Ezra Pound, pubblicò a puntate quello che sarebbe stato il primo libro di Douglas: Economic Democracy. Nel 1920 per tramite di Orage, conobbe il poeta americano che più volte gli renderà omaggio nei suoi Cantos. In Carta da Visita Pound ricorderà: «Quel movimento (di Douglas ndr) fu la porta dove entrai nella curiosità economica».

La grande depressione del 1929 diede a Douglas un’ampia notorietà, confermando la sua diagnosi sul principale difetto del modello economico classico: l’equilibro sempre precario tra abbondanza e povertà. In quel periodo si recò in Giappone, Australia e Nuova Zelanda presso i parlamenti e scrisse una relazione per la commissione finanze del governo britannico. Nel 1933 costituì sotto la sua presidenza, il Social Credit Secretariat, un centro studi che offriva consulenze. Nel 1935, nella regione canadese dell’Alberta, un movimento politico ispirato dalle sue teorie economiche vinse le elezioni ma fu continuamente ostacolato dal governo federale e dalla Corte Suprema.

Nel 1938 fu fondato il periodico The Social Crediter.

La politica monetaria della BCE e la “teoria qualitativa” della moneta

Da molto tempo si discute sull’efficacia dell’operazione di QE (quantitative easing) avviata dalla Banca Centrale Europea. Sulla stampa i soliti trombettieri suonano l’elogio a Mario Draghi. Nell’alternarsi di argomenti capziosi e semplificazioni verbali, la sostanza dei loro argomenti è sempre la stessa: la BCE sta immettendo liquidità nel mercato e questo denaro finirà nell’economia reale con effetti benefici.
L’azione della BCE ci fornisce lo spunto per una critica basata su un’impostazione completamente differente di come si debba articolare la politica monetaria. È una buona idea accennare alla teoria di un vecchio economista argentino, il professor Walter Beveraggi Allende che negli anni ottanta ha elaborato la “teoria qualitativa della moneta”, proprio in contrapposizione alla “teoria quantitativa” dell’economia classica. Quest’ultima si sofferma, nell’analisi dei prezzi di beni e servizi, semplicemente sulla dimensione della massa monetaria, mentre per l’economista argentino occorre considerare la destinazione dei flussi nei vari settori produttivi.
La teoria qualitativa sostiene che il valore del denaro e quindi il livello dei prezzi, dipende principalmente dalla “destinazione produttiva” per cui questo denaro è stato immesso nell’economia e non è determinato semplicemente dalla relativa abbondanza o scarsità del medesimo, rispetto all’insieme di beni e servizi che la moneta ha lo scopo di movimentare. Dunque, l’attenzione si concentra sulla destinazione settoriale, perché immettere liquidità nell’istruzione, piuttosto che nell’agricoltura o nell’industria, genera risultati diversi e solo la loro combinazione ci consente di valutare l’efficienza delle politiche monetarie.


Beveraggi Allende utilizza il termine “qualitativo” per indicare la capacità di provocare determinati effetti nel momento in cui si immette una certa quantità di moneta in un comparto produttivo. Investire nei settori pubblici o incoraggiare alcuni settori privati, regolando i relativi flussi monetari, non può essere un’azione a contenuto neutrale. Le attuali politiche delle banche centrali, si limitano solo all’espansione o alla contrazione della massa monetaria, senza alcuna forma di orientamento, con la solita convinzione religiosa che alla fine, il mercato abbia una capacità di “autoregolarsi”.





NOTE

Di Walter Beveraggi Allende, è disponibile in lingua italiana: “Teoria qualitativa della moneta”, 1993, edizioni di Ar

Moneta unica e squilibri

La moneta unica ha sostanzialmente il vantaggio di ridurre i costi di transazione dovuti all’incertezza del cambio ma questo ha un impatto macroeconomico poco significativo. Vale la pena conservare un’unione monetaria così strutturata con squilibri troppo forti? Pensateci bene: se un gruppo di nazioni avesse istituzioni politiche e fondamentali macroeconomici perfettamente allineati e stabili, sarebbero tali anche i tassi di cambio tra le varie monete e l’incertezza sarebbe trascurabile. Il vantaggio dell’unificazione monetaria emerge laddove i sistemi economici coinvolti non sono omogenei e non esistono forze che tendono a farli convergere, per cui i tassi di cambio sono relativamente incerti o divergenti. La moneta unica implica la rinuncia a un elemento di flessibilità (quello del cambio) utile per assorbire eventuali shock o compensare divergenze strutturali.

LA TEORIA DELLE “AVO”
La teoria delle AVO (aree valutarie ottimali) spiega come risolvere i problemi derivati dall’abbandono della flessibilità del cambio, attraverso l’introduzione di altri elementi di flessibilità: maggiore movimento dei fattori di produzione, più flessibilità dei salari, maggiore diversificazione produttiva. Se questo manca, occorre almeno che i tassi d’inflazione fra i paesi membri convergano, altrimenti la scarsa competitività nei paesi ad alta inflazione causerà deficit esteri con le conseguenze che già conosciamo. Infine se ciò non accade, ci vorrebbero delle istituzioni che vadano a correggere gli squilibri attraverso il coordinamento delle politiche fiscali. Detto in parole semplici, chi accumula di più, dovrebbe trasferire risorse a chi ha meno, per compensare. Facilitare il trasferimento delle risorse però cura il sintomo, ma non la malattia. Gli economisti che negli anni passati hanno sostenuto che l’euro avrebbe creato da solo le condizioni per correggere gli squilibri ed essere sostenibile ma si sbagliavano.

Presentare la teoria delle AVO, come una necessità tecnica è scorretto, semmai siamo dentro una concezione di riduzione del danno: l’euro è una scelta politica, dettata da ragioni politiche, mentre in economia l’altruismo non è obbligatorio, l’integrazione fiscale è politicamente difficile da sostenere perché nessuno vuole pagare per gli altri.
 
BCE AIUTAMI TU…
Ora va di moda chiedere alla Banca Centrale Europea di agire come “lender of last resort” (prestatore di ultima istanza), come la FED americana, attraverso operazioni di “quantitative easing” (facilitazione quantitativa), vale a dire aumentando la creazione di moneta. I motivi sono due: nel lungo periodo questo aumenterebbe l’inflazione sia nei paesi del “centro” che in quelli della “periferia” (ricordate il ciclo di Frenkel)
D’accordo, ma a che serve alzare l’inflazione media europea, se poi la Germania ne ha sempre un po’ di meno rispetto agli altri, conservando lo stesso vantaggio competitivo? L’unico risultato è quello di dare un po’ di fiato alle finanze pubbliche dei paesi periferici, in modo che abbiano qualche cartuccia da sparare prima che le loro finanze private torneranno in crisi, avendo accumulato passività verso il nucleo centrale dell’Europa.
“Stampare moneta!” è il grido di battaglia. Negli Stati Uniti, il bilancio federale compensa con trasferimenti notevoli verso gli stati dell’unione più poveri, ma ciò non crea una situazione di equilibrio perfetto, ma è sicuramente migliore che non fare nulla.
 La storia ci offre un esempio proprio a casa nostra: con l’unificazione dell’Italia gli squilibri tra i vari stati che la componevano non sono stati corretti. Onestamente, voi ce la vedete la Germania agire in tal senso compensando lo squilibrio con trasferimenti di denaro a quei paesi che le hanno consentito di accumulare un vantaggio economico, grazie alla loro domanda interna? Invece di abbaiare contro Berlino, a parti invertite noi saremmo stati così generosi?
State facendo il gesto dell’ombrello lo so…

Deficit, debito e il fantomatico tre per cento…


Superare il deficit del 3% si può e se necessario si deve. Uno stato dell’Unione Europea può decidere in non rispettare i vincoli sottoscritti, soprattutto se si trova in una situazione di recessione. La Commissione europea non può impedirglielo: a Bruxelles potranno al massimo aprire una procedura di infrazione, comminare sanzioni, negare l’accesso ad alcuni vantaggi riservati ai paesi virtuosi. Dunque, la questione è politica e se al governo hai dei lustrascarpe, non puoi stupirti che ad ogni rutto brussellese, tutti si mettono sull’attenti.
Il Patto di stabilità e crescita in vigore dal primo gennaio 1999, stabilisce i criteri di bilancio che i paesi dell’Eurozona devono rispettare. Tra gli altri, avere un deficit non oltre il 3% del Pil e un debito non superiore al 60 per cento. Questi criteri valgono anche per i paesi che non adottano l’euro e per chi sfora i parametri, la Commissione può attivare una “procedura d’infrazione” per deficit o debito eccessivo, nel corso della quale invia una “raccomandazione” ai governi interessati con le misure per rientrare nei parametri.
Nel 2001 l’Irlanda subì un avvertimento. L’Italia ha subito una prima procedura tra il 2005 e il 2008 e dall’ultima è uscita nel 2013, con una politica economica che ha avuto gli stessi effetti collaterali di una purga prolungata. Tra il 2003 e il 2004 Francia e Germania oltrepassarono il limite del 3 per cento ma essendo le nazioni più potenti dell’Europa continentale, se ne fregarono completamente dei rimproveri delle istituzioni comunitarie. La prova l’abbiamo adesso. A differenza dell’Italia che si è fatta imporre un percorso rapido di assestamento del bilancio, la Francia continua a fare come vuole e nei suoi confronti l’atteggiamento è molto più cauto. A Parigi il ceto politico si fa rispettare, noi ci atteggiamo ad adulatori primi della classe e non facciamo una riforma decente.
“Sixpack”e “Twopack”, sono i nomi tecnici di una serie di regolamenti entrati in vigore nell’ultimo biennio a livello europeo. Il suono onomatopeico ci ricorda che la parola “pacco”, nasconde sempre una fregatura.
Il sixpack in vigore dal dicembre 2011, consiste in una direttiva e cinque regolamenti che riguarda la sorveglianza e i requisiti dei bilanci nazionali. Sono norme rigide per l’attuazione di tutti i parametri finanziari contenuti nei trattati. Come dire, per chi fosse ancora riluttante, abbiamo trovato il modo di castigarlo…
Il regolamenti del twopack, in vigore dal 30 maggio 2013, per le nazione che utilizzano l’euro, prescrivono che entro il 15 ottobre, prima dell’approvazione da parte dei singoli Parlamenti, i governi devono sottoporre alla Commissione europea una proposta di bilancio per l’anno seguente. Entro il 15 novembre, la Commissione formula delle “considerazioni” non vincolanti. Solo allora il bilancio, eventualmente modificato in base ai suggerimenti di Bruxelles, viene esaminato dal Parlamento nazionale che deve approvarlo entro il 31 dicembre. Ovviamente la libertà di prendere in considerazione questi “suggerimenti”, varia a seconda della forza politica di uno Stato. All’Italia di solito le raccomandazioni vengono fatte con la pistola puntata alla tempia, anche se adesso neanche quella serve più, ai pusillanimi di Palazzo Chigi basta un ceffone ben assestato.
Il peggiore di tutti è il Fiscal Compact. Il nome ufficiale è “Trattato su stabilità, coordinamento e governance”, in vigore dal primo gennaio 2013. E’ un accordo inter-governativo, perché Gran Bretagna e Repubblica Ceca, non hanno voluto firmarlo e prevede, fra l’altro, l’obbligo del pareggio di bilancio o un deficit strutturale al massimo dello 0,5 per cento del Pil, riduzione del debito pubblico del 5 per cento ogni anno della quota eccedente il il 60 per cento. Miliardi di euro per i ragionieri di Bruxelles.

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